Zibaldone
NEL TEMPO DI UNA MILONGA, Valeria Amato con l’Equipaggio. Anno 2017
NEL TEMPO DI UNA MILONGA
Valeria Amato con l’Equipaggio
Immagine tratta da isladeltango.com
Una donna un giorno si sveglia e, con un sorriso che accenna il buongiorno, ripercorre i tratti di colui che ha appena sognato. Ancora intinta in quel sogno, le cose quotidiane diventano inadeguate, insufficienti. Letto e lenzuola, sgualcite e bagnate quel tanto che basta per dire che quello non era solo un sogno, si colorano della intensità del desiderio. Forse di un desiderio consumato nel letto dov’è nato. Il sudore si fa inchiostro che traccia le sue linee nella stanza arieggiata e luminosa in cui, a seconda di dove ti metti, puoi ascoltare lo sferragliare dei tram, il riflusso del sangue dal cuore o il suono del vento che abita le sillabe, laddove l’ocra delle pareti sembra quasi respingere i crocifissi.
Una donna che scrive non dimentica mai la prima volta che rifiuta una moneta in cambio di una storia. Istante irripetibile quello, quando avverte che l’altro può dare quanto più si desidera: l’ispirazione. L’ispirazione per le righe che seguiranno l’ostinata pretesa di voler raccontare ciò che accade a due sconosciuti nel tempo di una Milonga, evitando l’una all’altro un esistere banale.
In questa notte di Terra le strade sono deserte sotto la luna liquida di mercurio. Pare che ovunque ti giri il Mare le bagni alla stregua di un pennello vermiglio che scorre sulle labbra di una donna, mentre lampioni e insegne sgomitano sotto i ponti e sui marciapiedi mescolandosi con stravaganti personaggi. Uscito da poco da una grande porta di legno, un uomo sta valutando se tornare in tutta fretta a casa oppure accettare di bere in compagnia di una sconosciuta; decide di bere, così da poter slacciare il dannato colletto che gli impedisce di deglutire. Anche una donna uscita da poco da una grande porta di vetro, sta valutando se mettersi in viaggio oppure fermarsi a sorseggiare un buon bicchiere di vino in compagnia di uno sconosciuto; decide per la seconda opzione, così da poter slacciare il dannato corpetto che le impedisce di respirare.
Sulla soglia di un transito affollato, di quelli che al crepuscolo s’inzuppano di porpora, due sguardi discreti s’incrociano. Ecco che una folata di vento spalanca porte e finestre tanto da portare un immediato subbuglio nei visceri.
“Stasera eri bellissima. Peccato che me ne sono accorto soltanto dopo il nostro incontro sulla soglia della porta. La luce dell’ingresso accarezzava il profilo del tuo corpo. M’è parso di averti vista nuda e di sfiorarti con la guancia. T’ho vista sì e ho immaginato che, languida come un gatto, prima mi fissavi e poi cominciavi a spogliarmi. Volevo aiutarti ma sorridendomi mi hai allontanato le mani. Allora, sfilandoti quelle calze di seta lentamente, molto lentamente, mi hai sussurrato: ‘Gioca con me’. Forse sono svenuto, perché proprio non ricordo di come ci siamo ritrovati sul pavimento avvinghiati. Questa sera su quell’uscio, per il breve spazio di un secondo, ho imparato a leggere sulla tua pelle i tatuaggi delle poesie e delle maledizioni. E ora, che al solo pensiero di te quasi non mi resta più fiato, se chiudo gli occhi sento ancora la mia testa appoggiata sui tuoi seni. Sono qui col profumo di te nei pensieri e mi domando se anche tu hai il mio nei tuoi. Sei proprio una donna. Pretendi di gocciare profumo nei miei pensieri e poi… che succede poi? Potresti forse, se decidessi di andare via con un altro, rendere facile il pensiero che mi abbandoni…”.
“Si è levato il vento e la marea a quest’ora, tra le Colonne d’Ercole, si fa alta. Si potrebbe dire… come quando una stretta di mano sconosciuta provoca un brivido indecente e, benché si opponga una strenua resistenza, porta irragionevole a non lasciare la presa. E adesso che sono sola con i miei pensieri e con l’ossessione di un odore, mi pare quasi di aver iniziato a discendere il fiume dei cercatori d’oro. Oh, quale filone prezioso è racchiuso nel cuore della Terra! E sulla scia di tutto questo, quale onore e grandezza non ha galleggiato nel riflusso di questo letto obliando un mondo sconosciuto? Occorre restare ad attendere… come si attendono le onde e il grano. In questo dove e in questo tempo c’è giusto lo spazio sufficiente per accogliere una panchina, la donna che vi siede, un bicchiere di vetro sbeccato, gesti lenti e in equilibrio, qualche sorriso mite, che rimandano tutti a qualcosa di remoto. Qualcosa di privato che esce dal passato e che parla da dentro il corpo. Cosa farà la donna? Indosserà la solita tunica scura, di stoffa grezza, che la priverà della memoria? Oppure, sciogliendo i capelli, indosserà un abito di seta rosso vermiglio tentando di tenere la memoria di ciò che sarà?”.
“Per un uomo come me, mancare ad un appuntamento è senz’altro più facile che restare: eppure immagino di fermare l’auto all’angolo della strada, percorrere quei pochi metri che mi separano dal portone, salire di corsa i gradini sapendo che lei aprirà la porta con calma. Cosa posso fare per tenere questa immagine? Posso afferrare le sue ultime parole, stringerle al petto e portarle via nella speranza di ritrovarle una volta rientrato a forza nel famelico mondo quotidiano? Oppure ritrovarmi lontano da lei e non osare neppure di guardarmi allo specchio per il timore di scorgere una certa diffidenza nello sguardo? Ecco che la paura torna in agguato: scorrono le donne di una vita, distinte, ‘perbene’, con mani e parole sempre pronte ad addomesticare; quasi tutto hanno rubato, lasciandomi senza fiato. E tu, tu che donna sei… dimmi… in cosa sei diversa?”.
“Ci vuole tempo per rispondere. Ci vuole tempo per realizzare di non essere una cortigiana ma una donna che sa scolpire il suo nome nel volto di uomo. Certo che la sazietà non è meno tormentosa della fame. Maledetta donna, la finirai di confonderti sempre nell’intimità quando, a nervi tesi, vieni scagliata tra le onde del mare? In quel momento lui ci ruba il tempo dell’attesa per mettere in attesa, lasciandoci sole a difenderci dall’assalto del domani incerto. Eppure, ogni volta che mi vieni in sogno appari sconosciuto: come fai a rendere sempre ogni tuo sguardo vergine? Come fai a volgerti febbrilmente verso di me e, in un solo attimo, parlarmi come fossi visceralmente abile d’affetto?”.
“Guadagno il letto considerando i sentimenti del mio cuore molle e, addormentandomi inquieto fra le tante cose che mai più m’appagano, continuo a sognarti con il costante timore di perderti una volta posti i piedi giù per terra. Mi sveglio, paziente ed impaziente, vado avanti e indietro, su e giù per queste quattro mura che fissano il mio volto. Il solo pensarti mi scuote e mi tormenta come sale marino in una ferita. Mi chiedo, fino a consumarmi, se questo è amore o se sono di te schiavo. Che cammini o corri, volutamente o per caso, sempre ti seguo con lo sguardo quando ti fermi in un passaggio a riprendere fiato, quando ti batti per qualcosa in cui credi, quando intraprendi strade poco sicure, quando urti contro consueti muri di arroganti interessi, quando arrossisci davanti a me. Sali e scendi, lieta, i gradini delle case di chi ti incontra senza mai preoccuparti di cosa lasci e di cosa trovi, quand’anche ad accoglierti sono le segrete di un carcere che, attraversandoti, finiscono col crollare e tributarti riconoscimento e omaggi. Esseri umani senza reconditi pensieri diventano coloro che t’incrociano: uomini liberi”.
“Occhi limpidi e ridenti, mani pulite, barba incolta, mi hai reso ancora più intrepida. Smettila di danzare senza ritegno con quel tuo corpo colmo di desiderio! Non lo vedi che i ferrei cerchi del pudore e della prudenza si stanno sciogliendo miseramente? Non lo senti quanto il mio corpo è teso verso di te? E ora che vorrei stringermi sempre più a te, ora che ti ho ritrovato, impetuoso e sfrenato, pronunci il mio nome e ti separi da me. Oh sì, l’attesa vive nell’amore, proprio come il desiderio vive di pretese! Ecco che le tue pareti sono crollate e tu, indicibilmente leggero e con le membra liberate da ogni passata costrizione, mi hai spogliata, hai gridato forte che son nata libera e hai cantato che siamo fatti per trovarci. E io, che ti credo, ti rendo ogni volta libero”.
Una donna che scrive non dimentica mai la prima volta che rifiuta una moneta in cambio di una storia. Istante irripetibile quello, quando avverte che l’altro può dare quanto più si desidera: l’ispirazione. L’ispirazione per le righe che seguiranno l’ostinata pretesa di voler raccontare ciò che accade a due sconosciuti nel tempo di una Milonga, evitando l’una all’altro un esistere banale.
In questa notte di Terra le strade sono deserte sotto la luna liquida di mercurio. Pare che ovunque ti giri il Mare le bagni alla stregua di un pennello vermiglio che scorre sulle labbra di una donna, mentre lampioni e insegne sgomitano sotto i ponti e sui marciapiedi mescolandosi con stravaganti personaggi. Uscito da poco da una grande porta di legno, un uomo sta valutando se tornare in tutta fretta a casa oppure accettare di bere in compagnia di una sconosciuta; decide di bere, così da poter slacciare il dannato colletto che gli impedisce di deglutire. Anche una donna uscita da poco da una grande porta di vetro, sta valutando se mettersi in viaggio oppure fermarsi a sorseggiare un buon bicchiere di vino in compagnia di uno sconosciuto; decide per la seconda opzione, così da poter slacciare il dannato corpetto che le impedisce di respirare.
Sulla soglia di un transito affollato, di quelli che al crepuscolo s’inzuppano di porpora, due sguardi discreti s’incrociano. Ecco che una folata di vento spalanca porte e finestre tanto da portare un immediato subbuglio nei visceri.
“Stasera eri bellissima. Peccato che me ne sono accorto soltanto dopo il nostro incontro sulla soglia della porta. La luce dell’ingresso accarezzava il profilo del tuo corpo. M’è parso di averti vista nuda e di sfiorarti con la guancia. T’ho vista sì e ho immaginato che, languida come un gatto, prima mi fissavi e poi cominciavi a spogliarmi. Volevo aiutarti ma sorridendomi mi hai allontanato le mani. Allora, sfilandoti quelle calze di seta lentamente, molto lentamente, mi hai sussurrato: ‘Gioca con me’. Forse sono svenuto, perché proprio non ricordo di come ci siamo ritrovati sul pavimento avvinghiati. Questa sera su quell’uscio, per il breve spazio di un secondo, ho imparato a leggere sulla tua pelle i tatuaggi delle poesie e delle maledizioni. E ora, che al solo pensiero di te quasi non mi resta più fiato, se chiudo gli occhi sento ancora la mia testa appoggiata sui tuoi seni. Sono qui col profumo di te nei pensieri e mi domando se anche tu hai il mio nei tuoi. Sei proprio una donna. Pretendi di gocciare profumo nei miei pensieri e poi… che succede poi? Potresti forse, se decidessi di andare via con un altro, rendere facile il pensiero che mi abbandoni…”.
“Si è levato il vento e la marea a quest’ora, tra le Colonne d’Ercole, si fa alta. Si potrebbe dire… come quando una stretta di mano sconosciuta provoca un brivido indecente e, benché si opponga una strenua resistenza, porta irragionevole a non lasciare la presa. E adesso che sono sola con i miei pensieri e con l’ossessione di un odore, mi pare quasi di aver iniziato a discendere il fiume dei cercatori d’oro. Oh, quale filone prezioso è racchiuso nel cuore della Terra! E sulla scia di tutto questo, quale onore e grandezza non ha galleggiato nel riflusso di questo letto obliando un mondo sconosciuto? Occorre restare ad attendere… come si attendono le onde e il grano. In questo dove e in questo tempo c’è giusto lo spazio sufficiente per accogliere una panchina, la donna che vi siede, un bicchiere di vetro sbeccato, gesti lenti e in equilibrio, qualche sorriso mite, che rimandano tutti a qualcosa di remoto. Qualcosa di privato che esce dal passato e che parla da dentro il corpo. Cosa farà la donna? Indosserà la solita tunica scura, di stoffa grezza, che la priverà della memoria? Oppure, sciogliendo i capelli, indosserà un abito di seta rosso vermiglio tentando di tenere la memoria di ciò che sarà?”.
“Per un uomo come me, mancare ad un appuntamento è senz’altro più facile che restare: eppure immagino di fermare l’auto all’angolo della strada, percorrere quei pochi metri che mi separano dal portone, salire di corsa i gradini sapendo che lei aprirà la porta con calma. Cosa posso fare per tenere questa immagine? Posso afferrare le sue ultime parole, stringerle al petto e portarle via nella speranza di ritrovarle una volta rientrato a forza nel famelico mondo quotidiano? Oppure ritrovarmi lontano da lei e non osare neppure di guardarmi allo specchio per il timore di scorgere una certa diffidenza nello sguardo? Ecco che la paura torna in agguato: scorrono le donne di una vita, distinte, ‘perbene’, con mani e parole sempre pronte ad addomesticare; quasi tutto hanno rubato, lasciandomi senza fiato. E tu, tu che donna sei… dimmi… in cosa sei diversa?”.
“Ci vuole tempo per rispondere. Ci vuole tempo per realizzare di non essere una cortigiana ma una donna che sa scolpire il suo nome nel volto di uomo. Certo che la sazietà non è meno tormentosa della fame. Maledetta donna, la finirai di confonderti sempre nell’intimità quando, a nervi tesi, vieni scagliata tra le onde del mare? In quel momento lui ci ruba il tempo dell’attesa per mettere in attesa, lasciandoci sole a difenderci dall’assalto del domani incerto. Eppure, ogni volta che mi vieni in sogno appari sconosciuto: come fai a rendere sempre ogni tuo sguardo vergine? Come fai a volgerti febbrilmente verso di me e, in un solo attimo, parlarmi come fossi visceralmente abile d’affetto?”.
“Guadagno il letto considerando i sentimenti del mio cuore molle e, addormentandomi inquieto fra le tante cose che mai più m’appagano, continuo a sognarti con il costante timore di perderti una volta posti i piedi giù per terra. Mi sveglio, paziente ed impaziente, vado avanti e indietro, su e giù per queste quattro mura che fissano il mio volto. Il solo pensarti mi scuote e mi tormenta come sale marino in una ferita. Mi chiedo, fino a consumarmi, se questo è amore o se sono di te schiavo. Che cammini o corri, volutamente o per caso, sempre ti seguo con lo sguardo quando ti fermi in un passaggio a riprendere fiato, quando ti batti per qualcosa in cui credi, quando intraprendi strade poco sicure, quando urti contro consueti muri di arroganti interessi, quando arrossisci davanti a me. Sali e scendi, lieta, i gradini delle case di chi ti incontra senza mai preoccuparti di cosa lasci e di cosa trovi, quand’anche ad accoglierti sono le segrete di un carcere che, attraversandoti, finiscono col crollare e tributarti riconoscimento e omaggi. Esseri umani senza reconditi pensieri diventano coloro che t’incrociano: uomini liberi”.
“Occhi limpidi e ridenti, mani pulite, barba incolta, mi hai reso ancora più intrepida. Smettila di danzare senza ritegno con quel tuo corpo colmo di desiderio! Non lo vedi che i ferrei cerchi del pudore e della prudenza si stanno sciogliendo miseramente? Non lo senti quanto il mio corpo è teso verso di te? E ora che vorrei stringermi sempre più a te, ora che ti ho ritrovato, impetuoso e sfrenato, pronunci il mio nome e ti separi da me. Oh sì, l’attesa vive nell’amore, proprio come il desiderio vive di pretese! Ecco che le tue pareti sono crollate e tu, indicibilmente leggero e con le membra liberate da ogni passata costrizione, mi hai spogliata, hai gridato forte che son nata libera e hai cantato che siamo fatti per trovarci. E io, che ti credo, ti rendo ogni volta libero”.
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CRONACHE METROPOLITANE.
DISEREDARE I PROPRI FIGLI: UNA TRAGEDIA ITALIANA, di Concetta Turchi. Anno 2017
CRONACHE METROPOLITANE
DISEREDARE I PROPRI FIGLI: UNA TRAGEDIA ITALIANA
Concetta Turchi
Concetta Turchi
In una mattina estiva afosa e piena di luce, lungo il percorso per andare al lavoro, mi fermo in un bar la cui qualità si percepisce dall’aroma di caffè che si diffonde fino in strada. Questa fermata è sempre un piacere per me, soprattutto in queste giornate estive romane in cui il traffico ci dà un po’ di tregua e sono meglio disposta a sorseggiare l’eccellenza dei modi, oltre che della materia prima.
Mentre assaporo il caffè con la calma necessaria, vengo richiamata dal suono di voce giovanile di una donna. La guardo: effettivamente è giovane, carina, e ha anche un modo semplice e originale di abbigliarsi. Sta raccontando a voce alta ad un ragazzo che le è accanto della sua esperienza all’estero e del suo rientro deludente in Italia: “In Italia non si vive, non c’è posto per noi giovani… e non solo da un punto di vista lavorativo”. Anche io mi ritrovo a fare le medesime considerazioni: i nostri giovani nessuno li pensa e li considera, abituati come siamo a vivere nel passato e a cristallizzare il presente in una materialità senza futuro. Il cuore mi si stringe quando sento la ragazza dire: “Io vorrei tanto rimanere in Italia. È la mia terra. La amo. Qui c’è la mia famiglia, i miei amici, la lingua in cui amo raccontarmi… ma non mi danno scelta. Sono alcuni mesi che sono in Italia e non ricevo che porte in faccia. Dovrò ripartire!”.
Torno con la memoria a quando avevo l’età di questa fanciulla: partire allora era una scelta da dispensare e non una costrizione da subire. Benché ci fossero sulla via i soliti quattro corvacci sempre pronti a ribadire che non si poteva inseguire i propri sogni, tuttavia era possibile ascoltare anche altro e le scelte potevano spaziare più o meno leggere. Mi chiedevo quando la pensabilità avesse cominciato a ridursi drasticamente e quali aspetti avevano, e probabilmente continuavano a farlo, sulla nostra capacità di sentire e di pensare. Riflettevo sui fallimenti ideologici degli anni ’60 e ’70 che hanno comportato un adeguamento e un ritiro sociale piuttosto che una trasformazione; alla rivoluzione femminista che ha portato ad una contrapposizione uomo-donna piuttosto che ad una integrazione e comunicazione tra le parti; ad una rivoluzione artistica mancata che ha dato luogo ad una negazione dell’arte come specchio dei movimenti sociali e di pensiero frammentati, piuttosto che fonte meravigliosa per una continua rigenerazione emozionale e di pensiero. Mi sono legata a tutti questi “piuttosto che” e grazie ad essi, facendo lo slalom tra le montagne che si sgretolavano, ho potuto costruire il mio futuro seguendo solo quello che sentivo di volere fare. Ma quella ragazza? Che ne sarà di lei e di tanti come lei? Le hanno tolto la sua patria interiore: il luogo di una possibile pensabilità, i ponti neuroplastici di cui è fatta la materia onirica e la nostra capacità di immaginare.
Mi avvicino alla cassa con tutte queste questioni e incontro lo sguardo cordiale e comunicativo della giovane signora che sta alla cassa. Ci scambiamo uno sguardo di intesa sul comune senso di tristezza che questi discorsi hanno provocato. La ragazza ormai quasi grida: “Vorrei tanto rimanere in Italia, se solo me ne fosse data l’opportunità!”. “Prenditela!”, mi verrebbe da dire, con quell’impeto irriverente ed emotivo del ’77 che non si è mai sopito dentro di me. Ma quella semplice parola sarebbe una coltellata per chi ha disimparato ad afferrare le cose, la vita stessa. Mi avvicino di nuovo al bancone e la guardo dritta negli occhi: “È una tragedia… è una tragedia che ragazzi come te siano costretti a lasciare il nostro Paese per cercare all’estero quello che sanno di non potere trovare qui”. La ragazza mi parla: “Che devo fare? Non ce la faccio più a vivere in un luogo dove non riesco neppure ad esistere… figuriamoci a vivere!”. “Resisti e combatti!”, vorrei dire, ma non mi ascolterebbe. Vuole solo essere consolata: “Che tragedia!...”, ripeto. Prima di lasciare il bar mi volto e le lancio con un sorriso: “In bocca al lupo!”. Questo può capirlo. Mi ringrazia con calore.
Vado verso la macchina ed è come se le mie sensazioni si ordinassero a mia insaputa e cominciassero a ridare forma ai pensieri, che erano rimasti paralizzati proprio come quelli della ragazza.
Che paese è quello in cui c’è uno Stato che si disinteressa dei propri giovani?
Che paese è quello in cui c’è uno Stato che si è data come mission quella di accogliere ad oltranza i popoli disgraziati che vengono per lo più dall’Africa?
Che paese è quello in cui c’è uno Stato che decide di fare una accoglienza senza limiti a diseredati e poi non si pone alcuna domanda sul diseredare di fatto i propri figli?
In quanto esseri umani, dovremmo porre l’attenzione su tutti i diseredati, eppure in Italia questo non accade. Come mai questa disattenzione selettiva? Quale è il modello di pensiero che costruisce a nostra insaputa tale disattenzione? Se noi guardiamo alla realtà umana in termini evolutivi (e la realtà umana si definisce proprio sulla base della capacità di evolvere) la distinzione tra i bisogni, legati alla soddisfazione di aspetti materiali, e le esigenze, legate alla soddisfazione interiore che cambia con il cambiare delle prospettive di vita, diventa chiara. In questa chiarezza è facile trovare la via del desiderio che si nutre delle qualità interiori dell’altro per tracciare in modo sempre più specifico le traiettorie delle esigenze. Ma se l’unico modello di relazione con gli esseri umani diventa quello basato sul bisogno, le esigenze e i desideri ne risulteranno castrati: è questo il vero problema di quando ci poniamo con gli esseri umani su un piano esclusivamente assistenziale.
Dobbiamo reimparare a trattenere le esigenze e i desideri, a non farcele scippare dai bisogni che, come si sa, aprono alla voracità del pozzo senza fondo. Non si tratta di scegliere tra persone di serie A e persone di serie B, come molti paesi nel mondo fanno sulla base di discriminazioni di tipo squisitamente materiale: si tratta di scegliere una prospettiva di pensiero a cui riferirci nella nostra relazione con il mondo. La vera scelta da fare è questa.
Mentre assaporo il caffè con la calma necessaria, vengo richiamata dal suono di voce giovanile di una donna. La guardo: effettivamente è giovane, carina, e ha anche un modo semplice e originale di abbigliarsi. Sta raccontando a voce alta ad un ragazzo che le è accanto della sua esperienza all’estero e del suo rientro deludente in Italia: “In Italia non si vive, non c’è posto per noi giovani… e non solo da un punto di vista lavorativo”. Anche io mi ritrovo a fare le medesime considerazioni: i nostri giovani nessuno li pensa e li considera, abituati come siamo a vivere nel passato e a cristallizzare il presente in una materialità senza futuro. Il cuore mi si stringe quando sento la ragazza dire: “Io vorrei tanto rimanere in Italia. È la mia terra. La amo. Qui c’è la mia famiglia, i miei amici, la lingua in cui amo raccontarmi… ma non mi danno scelta. Sono alcuni mesi che sono in Italia e non ricevo che porte in faccia. Dovrò ripartire!”.
Torno con la memoria a quando avevo l’età di questa fanciulla: partire allora era una scelta da dispensare e non una costrizione da subire. Benché ci fossero sulla via i soliti quattro corvacci sempre pronti a ribadire che non si poteva inseguire i propri sogni, tuttavia era possibile ascoltare anche altro e le scelte potevano spaziare più o meno leggere. Mi chiedevo quando la pensabilità avesse cominciato a ridursi drasticamente e quali aspetti avevano, e probabilmente continuavano a farlo, sulla nostra capacità di sentire e di pensare. Riflettevo sui fallimenti ideologici degli anni ’60 e ’70 che hanno comportato un adeguamento e un ritiro sociale piuttosto che una trasformazione; alla rivoluzione femminista che ha portato ad una contrapposizione uomo-donna piuttosto che ad una integrazione e comunicazione tra le parti; ad una rivoluzione artistica mancata che ha dato luogo ad una negazione dell’arte come specchio dei movimenti sociali e di pensiero frammentati, piuttosto che fonte meravigliosa per una continua rigenerazione emozionale e di pensiero. Mi sono legata a tutti questi “piuttosto che” e grazie ad essi, facendo lo slalom tra le montagne che si sgretolavano, ho potuto costruire il mio futuro seguendo solo quello che sentivo di volere fare. Ma quella ragazza? Che ne sarà di lei e di tanti come lei? Le hanno tolto la sua patria interiore: il luogo di una possibile pensabilità, i ponti neuroplastici di cui è fatta la materia onirica e la nostra capacità di immaginare.
Mi avvicino alla cassa con tutte queste questioni e incontro lo sguardo cordiale e comunicativo della giovane signora che sta alla cassa. Ci scambiamo uno sguardo di intesa sul comune senso di tristezza che questi discorsi hanno provocato. La ragazza ormai quasi grida: “Vorrei tanto rimanere in Italia, se solo me ne fosse data l’opportunità!”. “Prenditela!”, mi verrebbe da dire, con quell’impeto irriverente ed emotivo del ’77 che non si è mai sopito dentro di me. Ma quella semplice parola sarebbe una coltellata per chi ha disimparato ad afferrare le cose, la vita stessa. Mi avvicino di nuovo al bancone e la guardo dritta negli occhi: “È una tragedia… è una tragedia che ragazzi come te siano costretti a lasciare il nostro Paese per cercare all’estero quello che sanno di non potere trovare qui”. La ragazza mi parla: “Che devo fare? Non ce la faccio più a vivere in un luogo dove non riesco neppure ad esistere… figuriamoci a vivere!”. “Resisti e combatti!”, vorrei dire, ma non mi ascolterebbe. Vuole solo essere consolata: “Che tragedia!...”, ripeto. Prima di lasciare il bar mi volto e le lancio con un sorriso: “In bocca al lupo!”. Questo può capirlo. Mi ringrazia con calore.
Vado verso la macchina ed è come se le mie sensazioni si ordinassero a mia insaputa e cominciassero a ridare forma ai pensieri, che erano rimasti paralizzati proprio come quelli della ragazza.
Che paese è quello in cui c’è uno Stato che si disinteressa dei propri giovani?
Che paese è quello in cui c’è uno Stato che si è data come mission quella di accogliere ad oltranza i popoli disgraziati che vengono per lo più dall’Africa?
Che paese è quello in cui c’è uno Stato che decide di fare una accoglienza senza limiti a diseredati e poi non si pone alcuna domanda sul diseredare di fatto i propri figli?
In quanto esseri umani, dovremmo porre l’attenzione su tutti i diseredati, eppure in Italia questo non accade. Come mai questa disattenzione selettiva? Quale è il modello di pensiero che costruisce a nostra insaputa tale disattenzione? Se noi guardiamo alla realtà umana in termini evolutivi (e la realtà umana si definisce proprio sulla base della capacità di evolvere) la distinzione tra i bisogni, legati alla soddisfazione di aspetti materiali, e le esigenze, legate alla soddisfazione interiore che cambia con il cambiare delle prospettive di vita, diventa chiara. In questa chiarezza è facile trovare la via del desiderio che si nutre delle qualità interiori dell’altro per tracciare in modo sempre più specifico le traiettorie delle esigenze. Ma se l’unico modello di relazione con gli esseri umani diventa quello basato sul bisogno, le esigenze e i desideri ne risulteranno castrati: è questo il vero problema di quando ci poniamo con gli esseri umani su un piano esclusivamente assistenziale.
Dobbiamo reimparare a trattenere le esigenze e i desideri, a non farcele scippare dai bisogni che, come si sa, aprono alla voracità del pozzo senza fondo. Non si tratta di scegliere tra persone di serie A e persone di serie B, come molti paesi nel mondo fanno sulla base di discriminazioni di tipo squisitamente materiale: si tratta di scegliere una prospettiva di pensiero a cui riferirci nella nostra relazione con il mondo. La vera scelta da fare è questa.
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GIOVEDÌ POMERIGGIO CON TRICICLO ROSSO, di Claudia Amato. Anno 2017
GIOVEDÌ POMERIGGIO CON TRICICLO ROSSO
Claudia Amato
Cortometraggio “Détour”
VIDEO
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Michel Gondry, noto al grande pubblico per l’Oscar del 2005 grazie al film “Eternal Sunshine of the Spotless Mind” (letteralmente tradotto con “Eterno raggio di sole della mente candida”, e per il cinema con “Se mi lasci ti cancello”) – premiato per ‘miglior sceneggiatura originale’ su due nomination, oltre ad aver ricevuto quattro nomination ai Golden Globe – è uno sceneggiatore, regista, produttore cinematografico e attore francese di film, pubblicità televisive, videoclip musicali (con i Rolling Stones, i Foo Fighters, i Chemical Brothers, Kylie Minogue, Lenny Kravitz e i Radiohead).
Da pochi giorni è riapparso sulla scena grazie a un delizioso cortometraggio da lui girato con un iPhone7.
Il risultato è una vera sorpresa: “Détour”, la storia di un viaggio di una famiglia in vacanza nell’arco di appena 11:08 minuti. La trama narra la storia di un triciclo rosso, della bambina sua proprietaria, e delle avventure che il primo ‘vive’ prima di ritrovarla (dopo essersi incidentalmente staccato dalle biciclette degli altri componenti della famiglia) per poi scoprire a fine corto, in un crescendo di divertenti vicissitudini, un aspetto della vita dolente e necessario: l’ineluttabilità dei passaggi.
Al di là della valenza commerciale dietro l’impresa – un telefonino flessibile che funziona come una telecamera, capace di provvedere a una realizzazione professionale ben fatta che comunque senza il talento e le capacità del regista non potrebbe esserci – quello che ne riceviamo è un’opera breve e intensa, capace di emozionare e di toccare le corde più profonde.
Il mondo visivo di Gondry si nutre dello spessore delle scenografie e degli effetti digitali dando vita a un mondo onirico fantasioso, visionario, capace di trasformarsi in un percorso visivo innovativo. L’autore si tuffa nel mondo dell’infanzia e noi con lui… ricordando il nostro primo mezzo di locomozione, quello che avevamo tanto desiderato e finalmente ottenuto, quello che ci faceva sentire un po’ grandi e in movimento, veloci come il vento. Le scene sono un susseguirsi di cromatismi accesi nei quali le visioni sono palpabili quasi come una carezza in una lingua che non potrebbe essere che il Francese.
La storia inizia con una ragazzetta che, prima della partenza, scrive su un diario di viaggio mentre i genitori caricano l’auto di bagagli e bici. Poi compare la bimba che chiede di portare il suo triciclo rosso con loro, ha indosso un caschetto da ciclista da cui non si staccherà per tutta la durata del viaggio.
Si parte, grandi e piccini si ritrovano coinvolti in questo viaggio colorato dalle belle musiche originali di Étienne Cherry che riescono, insieme al regista, a donarci momenti di dolcezza e divertimento, malinconia e leggerezza rese vive da un insieme di personaggi e animali, e da una natura che fa da sfondo incontrastato. In un susseguirsi di scene brevi e pulite, ci ritroviamo a vivere un’esperienza che tutti abbiamo attraversato nella nostra vita, quando il cuore si piegava per un avvenimento che lì per lì doleva ma che nel tempo rivelava tutto il suo prezioso senso e significato.
Il triciclo, che all’inizio pare subire gli eventi, grazie al regista si anima e diviene, con la fantasia, la possibilità con cui i personaggi elaborano il proprio passaggio, la propria fine… come i pesci che, prima di spirare una volta pescati, cantano. L’umanizzazione del triciclo, è la via attraverso la quale viene disegnata la separazione evolutiva di entrambi i protagonisti: la bambina riceve il suo dono, la bicicletta da grande; il triciclo diventa il regalo per un nuovo sognatore bambino. E mentre una piccola grande mano disegna due pesci bianchi nel cielo intenti a giocare e a rincorrersi per poi tuffarsi nell'oceano lungo la linea dell’orizzonte, noi spettatori ci troviamo inaspettatamente a nuotare in questo mare dove si trovano le possibilità di vivere felicemente le separazioni naturali legate al tempo che passa.
Da pochi giorni è riapparso sulla scena grazie a un delizioso cortometraggio da lui girato con un iPhone7.
Il risultato è una vera sorpresa: “Détour”, la storia di un viaggio di una famiglia in vacanza nell’arco di appena 11:08 minuti. La trama narra la storia di un triciclo rosso, della bambina sua proprietaria, e delle avventure che il primo ‘vive’ prima di ritrovarla (dopo essersi incidentalmente staccato dalle biciclette degli altri componenti della famiglia) per poi scoprire a fine corto, in un crescendo di divertenti vicissitudini, un aspetto della vita dolente e necessario: l’ineluttabilità dei passaggi.
Al di là della valenza commerciale dietro l’impresa – un telefonino flessibile che funziona come una telecamera, capace di provvedere a una realizzazione professionale ben fatta che comunque senza il talento e le capacità del regista non potrebbe esserci – quello che ne riceviamo è un’opera breve e intensa, capace di emozionare e di toccare le corde più profonde.
Il mondo visivo di Gondry si nutre dello spessore delle scenografie e degli effetti digitali dando vita a un mondo onirico fantasioso, visionario, capace di trasformarsi in un percorso visivo innovativo. L’autore si tuffa nel mondo dell’infanzia e noi con lui… ricordando il nostro primo mezzo di locomozione, quello che avevamo tanto desiderato e finalmente ottenuto, quello che ci faceva sentire un po’ grandi e in movimento, veloci come il vento. Le scene sono un susseguirsi di cromatismi accesi nei quali le visioni sono palpabili quasi come una carezza in una lingua che non potrebbe essere che il Francese.
La storia inizia con una ragazzetta che, prima della partenza, scrive su un diario di viaggio mentre i genitori caricano l’auto di bagagli e bici. Poi compare la bimba che chiede di portare il suo triciclo rosso con loro, ha indosso un caschetto da ciclista da cui non si staccherà per tutta la durata del viaggio.
Si parte, grandi e piccini si ritrovano coinvolti in questo viaggio colorato dalle belle musiche originali di Étienne Cherry che riescono, insieme al regista, a donarci momenti di dolcezza e divertimento, malinconia e leggerezza rese vive da un insieme di personaggi e animali, e da una natura che fa da sfondo incontrastato. In un susseguirsi di scene brevi e pulite, ci ritroviamo a vivere un’esperienza che tutti abbiamo attraversato nella nostra vita, quando il cuore si piegava per un avvenimento che lì per lì doleva ma che nel tempo rivelava tutto il suo prezioso senso e significato.
Il triciclo, che all’inizio pare subire gli eventi, grazie al regista si anima e diviene, con la fantasia, la possibilità con cui i personaggi elaborano il proprio passaggio, la propria fine… come i pesci che, prima di spirare una volta pescati, cantano. L’umanizzazione del triciclo, è la via attraverso la quale viene disegnata la separazione evolutiva di entrambi i protagonisti: la bambina riceve il suo dono, la bicicletta da grande; il triciclo diventa il regalo per un nuovo sognatore bambino. E mentre una piccola grande mano disegna due pesci bianchi nel cielo intenti a giocare e a rincorrersi per poi tuffarsi nell'oceano lungo la linea dell’orizzonte, noi spettatori ci troviamo inaspettatamente a nuotare in questo mare dove si trovano le possibilità di vivere felicemente le separazioni naturali legate al tempo che passa.
Tecniche impiegate per la realizzazione del cortometraggio
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RINASCITE, di Claudio Malizia. Anno 2016
RINASCITE
Claudio Malizia
Il vecchio borgo di Montecastelli Pisano (nella foto qui sotto) era probabilmente destinato a morire visto il progressivo abbandono da parte della popolazione locale in atto già da parecchio tempo. Un incontro casuale ha permesso a questo sparuto nucleo medioevale di manufatti abbarbicati in cima alla collina, di rinascere a nuova vita. Il profilo del borgo visto dall’alto ricorda quello di un orecchio, e la vista di un luogo dimenticato da tutti, incastonato tra le bellezze delle colline senesi, pare abbia colpito al cuore un famoso medico tedesco, Philipp Bonhoeffer.
L’aspetto curioso della vicenda potrebbe in effetti finire qui: non è la prima volta che un ricco signore straniero mette piede dalle nostre parti, la storia ce lo insegna. Il fatto è che, a partire dal cognome, dietro la semplice notizia c’è un mondo di storia per nulla trascurabile. Possiamo partire dal fatto che Bonhoeffer è un cognome illustre in Germania: uomini e donne della famiglia hanno partecipato alla resistenza al nazismo e per questo hanno pagato con la vita. Fra questi si ricorda Dietrich Bonhoeffer che è stato un importante teologo luterano; Karl Frederich Bonhoeffer, suo fratello, è stato chimico-fisico e precursore dell’utilizzo di metodi chimico-fisici in biologia, una personalità importante al punto che gli è stato intitolato un istituto di ricerca, il Max Planck Institute, per la chimica biofisica.
A parte gli illustri avi (la maggior parte dei Bonhoeffer ha contribuito all’avanzare del progresso nella storia umana), lo stesso Phillipp Bonhoeffer è un famoso cardiochirurgo. La storia vuole che il poco brillante studente di liceo, Philipp, decida di trascorrere in Italia un periodo di vacanze come ragazzo alla pari presso una famiglia italiana del Nord Italia. Il capofamiglia è un certo Parenzan, stimato cardiochirurgo pediatrico. Come babysitter Philipp non se la cava poi male, migliora il proprio italiano e i colloqui con il signor Parenzan sono interessanti a tal punto da risvegliare in lui una curiosità che lo porterà a trasferirsi a Milano per intraprendere gli studi di Medicina. Frequentare casa Parenzan e il Dipartimento di Cardiochirurgia di Pavia hanno in lui effetti positivi: lo studente tedesco, inizialmente svogliato, ben presto rivela doti di grande innovatore; evidentemente le idee non gli mancano e neanche le capacità per realizzarle. Inventa strumenti per operare in maniera veloce ed economica alcune patologie cardiache molto frequenti soprattutto in Africa. Una delle più importanti valvole cardiache, la Bonhoeffer valve, anche conosciuta con il nome commerciale di valvola Melody®, viene utilizzata ancora oggi ed ha permesso di salvare decine di migliaia di vite umane.
Su invito di Parenzan, il giovane Bonhoeffer va in Africa dove avvia una intensa attività filantropica con lo scopo di sviluppare la cardiologia nell’area Orientale del continente. Purtroppo la sua alta professionalità e la sua generosità estrema nel metterla a disposizione lo espongono ad accuse infamanti ed estorsive che ne minacciano la carriera. Le royalties sulle invenzioni gli permettono di chiudere un triste capitolo della sua vita per riaprirne un altro: la musica, ed il violino in particolare, sono sempre stati l’altro grande suo amore. Coraggio vuole che egli decida di sospendere la sua attività di medico chirurgo per dedicarsi alla costruzione di strumenti musicali che vengono suonati da lui stesso e da promesse della musica.
È in questo contesto che avviene il suo incontro con Montecastelli Pisano: queste due realtà si incontrano e la rinascita del primo è l’apertura per l’altra rinascita. Il borgo, oltre ad ospitare la casa del nuovo liutaio, è sede della sua bottega. Grazie alla generosità di Philipp, che avvia a sue spese la ristrutturazione della chiesa trecentesca del borgo, ricavandone una sala da concerti, Montecastelli Pisano vede oggi invertire il processo di spopolamento. Tale sala, che porta il nome di “Sala delle 99 sedie” - perché di più non ne entrano ed ognuna è diversa dall’altra in quanto portata da concittadini, parenti, amici e amatori - consacra la sua nuova vocazione con l'esecuzione del Quintetto K. 515 di Mozart e del Quintetto per pianoforte in La maggiore op. 114, D. 667 "Forellen Quintett" (Il quintetto della trota) di Schubert. Il percorso comunque non si arresta qui: il prossimo obiettivo è quello di recuperare la bella torre che dal paese svetta sulla Val D’Elsa. La fama di Philipp ha aperto la strada all’acquisto delle vecchie dimore del borgo da parte di nuovi investitori stranieri. Già la stagione concertistica è stata ricca di eventi e di partecipanti, con la concreta prospettiva di trasformare il borgo in un laboratorio di formazione e sperimentazione musicale che accoglie le esibizioni di giovani talenti provenienti da tutto il mondo.
L’aspetto curioso della vicenda potrebbe in effetti finire qui: non è la prima volta che un ricco signore straniero mette piede dalle nostre parti, la storia ce lo insegna. Il fatto è che, a partire dal cognome, dietro la semplice notizia c’è un mondo di storia per nulla trascurabile. Possiamo partire dal fatto che Bonhoeffer è un cognome illustre in Germania: uomini e donne della famiglia hanno partecipato alla resistenza al nazismo e per questo hanno pagato con la vita. Fra questi si ricorda Dietrich Bonhoeffer che è stato un importante teologo luterano; Karl Frederich Bonhoeffer, suo fratello, è stato chimico-fisico e precursore dell’utilizzo di metodi chimico-fisici in biologia, una personalità importante al punto che gli è stato intitolato un istituto di ricerca, il Max Planck Institute, per la chimica biofisica.
A parte gli illustri avi (la maggior parte dei Bonhoeffer ha contribuito all’avanzare del progresso nella storia umana), lo stesso Phillipp Bonhoeffer è un famoso cardiochirurgo. La storia vuole che il poco brillante studente di liceo, Philipp, decida di trascorrere in Italia un periodo di vacanze come ragazzo alla pari presso una famiglia italiana del Nord Italia. Il capofamiglia è un certo Parenzan, stimato cardiochirurgo pediatrico. Come babysitter Philipp non se la cava poi male, migliora il proprio italiano e i colloqui con il signor Parenzan sono interessanti a tal punto da risvegliare in lui una curiosità che lo porterà a trasferirsi a Milano per intraprendere gli studi di Medicina. Frequentare casa Parenzan e il Dipartimento di Cardiochirurgia di Pavia hanno in lui effetti positivi: lo studente tedesco, inizialmente svogliato, ben presto rivela doti di grande innovatore; evidentemente le idee non gli mancano e neanche le capacità per realizzarle. Inventa strumenti per operare in maniera veloce ed economica alcune patologie cardiache molto frequenti soprattutto in Africa. Una delle più importanti valvole cardiache, la Bonhoeffer valve, anche conosciuta con il nome commerciale di valvola Melody®, viene utilizzata ancora oggi ed ha permesso di salvare decine di migliaia di vite umane.
Su invito di Parenzan, il giovane Bonhoeffer va in Africa dove avvia una intensa attività filantropica con lo scopo di sviluppare la cardiologia nell’area Orientale del continente. Purtroppo la sua alta professionalità e la sua generosità estrema nel metterla a disposizione lo espongono ad accuse infamanti ed estorsive che ne minacciano la carriera. Le royalties sulle invenzioni gli permettono di chiudere un triste capitolo della sua vita per riaprirne un altro: la musica, ed il violino in particolare, sono sempre stati l’altro grande suo amore. Coraggio vuole che egli decida di sospendere la sua attività di medico chirurgo per dedicarsi alla costruzione di strumenti musicali che vengono suonati da lui stesso e da promesse della musica.
È in questo contesto che avviene il suo incontro con Montecastelli Pisano: queste due realtà si incontrano e la rinascita del primo è l’apertura per l’altra rinascita. Il borgo, oltre ad ospitare la casa del nuovo liutaio, è sede della sua bottega. Grazie alla generosità di Philipp, che avvia a sue spese la ristrutturazione della chiesa trecentesca del borgo, ricavandone una sala da concerti, Montecastelli Pisano vede oggi invertire il processo di spopolamento. Tale sala, che porta il nome di “Sala delle 99 sedie” - perché di più non ne entrano ed ognuna è diversa dall’altra in quanto portata da concittadini, parenti, amici e amatori - consacra la sua nuova vocazione con l'esecuzione del Quintetto K. 515 di Mozart e del Quintetto per pianoforte in La maggiore op. 114, D. 667 "Forellen Quintett" (Il quintetto della trota) di Schubert. Il percorso comunque non si arresta qui: il prossimo obiettivo è quello di recuperare la bella torre che dal paese svetta sulla Val D’Elsa. La fama di Philipp ha aperto la strada all’acquisto delle vecchie dimore del borgo da parte di nuovi investitori stranieri. Già la stagione concertistica è stata ricca di eventi e di partecipanti, con la concreta prospettiva di trasformare il borgo in un laboratorio di formazione e sperimentazione musicale che accoglie le esibizioni di giovani talenti provenienti da tutto il mondo.
La nuova sala della musica
a Montecastelli Pisano
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a Montecastelli Pisano
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C’È LETTERA… E LETTERA, di Filippo Paoli. Anno 2016
C’È LETTERA… E LETTERA
Filippo Paoli
Filippo Paoli
Un esempio eccellente di studio sullo stile, il ritmo, la precisione scenica e la comicità. La lettera di Paolo Nani non per caso è diventata un classico della risata che fa ridere il pubblico per un’ora intera. L’artista, di origine ferrarese, si è ispirato al libro Esercizi di Stile del francese Raymond Queneau: una breve storia viene ripetuta 99 volte in altrettante versioni stilistiche.
Sul palco, appena entrati in sala, vediamo un tavolo, una sedia, una bottiglia (di vino?), la foto da tavolo della nonna e l’occorrente per scrivere una lettera poggiato sul tavolo. Poi un uomo dal corpo morbido, sottile e leggero entra, si siede al tavolo, beve dalla bottiglia quello che sembra vino (ma non lo è tanto che lo sputa schifato), guarda la foto sul tavolo, scrive la lettera, la imbusta, la affranca ed esce… ma ecco apparire sul suo volto un dubbio: la penna… scriveva? E allora apre la busta, spiega la lettera e si accorge che il foglio è bianco. Tutto questo ripetuto in 15 stili diversi e con tutte le varianti comiche del caso: normale, all'indietro, ripetizioni, con sorpresa, volgare, pigro (ma tanto pigro… al punto di non farcela ad entrare in scena), senza mani, ubriaco, horror, circo, western, sogno, due cose alla volta, cinema muto e infine la freudiana.
Una idea di per sé semplicissima portata a livelli di grande comicità grazie all’incalzare del ritmo che Paolo Nani riesce ad imprimere. Parlando con il pubblico alla fine della rappresentazione andata in scena al teatro Filodrammatici di Milano, l’attore afferma: “Il ritmo delle intenzioni è diverso ogni volta; è come suonare il jazz”. E così questo meccanismo scenico unico nel suo genere va in scena dal 1992 in ogni dove: lo hanno visto in Groenlandia e in Cile, in Turchia e in Spagna, in Norvegia e in Italia, raggiungendo oltre 900 repliche. Non è difficile immaginarsi che anche vedendolo più e più volte si riderebbe sempre come fosse la prima tanta è la capacità di Nani di trasformarsi ad ogni entrata in scena e catturare il pubblico. Così diventa comico vedere una sedia come se fosse la prima volta e sorprendersi per come la si possa utilizzare, come anche reagire con sorpresa alla vista della foto che ritrae la nonna al punto da nascondersi sotto il tavolo, o imbustare la lettera e affrancare la busta senza mani (sì, Paolo Nani riesce a farlo!).
Il corpo dell’attore è il protagonista de La lettera; si muove morbido nello spazio e si poggia leggero sulle tavole del palco. E la scena scarna lo espone ancora di più rendendo comici anche movimenti impercettibili di pochi muscoli del volto o il muoversi dei soli bulbi oculari. Sul palcoscenico si palesa tutto il lavoro e lo studio fatto negli anni per raggiungere quel livello di precisione nei movimenti, ripetuti centinaia e centinaia di volte. Altrettanto importanti sono i suoni, quelli gutturali della sua voce, con i quali accompagna prima la sorpresa e poi la volgarità, prima l’horror e poi il western; e quelli prodotti con gli oggetti di scena e con il movimento del suo corpo sedendosi o precipitando a terra nel pieno della sbronza.
Nella Breve storia di una passione Paolo Nani si racconta così: “A sette anni pensavo: ‘Non so cosa farò da grande ma non mi ci vedo in un lavoro normale: non esiste proprio che faccia il salumiere o l’impiegato di banca o il meccanico o lo spaccapietre’. Ma c’erano dei segnali precisi che si manifestavano in alcuni comportamenti precisi: il disegno coatto, la lettura assatanata di fumetti, le smorfie davanti allo specchio. A cinque anni disegnavo la figura umana con tutte le proporzioni. In effetti il disegno non era un semplice piacere. Se mi avessero tolto i ‘pitturini’ e gli album Giotto sarei morto di fame. I fumetti sono stati la mia passione per decenni, da quando la solita zia mi fece l’abbonamento a Topolino. Le smorfie allo specchio invece erano un allenamento quotidiano. I miei avevano comprato per la sala da pranzo due (orrendi) mobili con la specchiera che, situati uno di fronte all’altro, mi permettevano, mentre pranzavamo o cenavamo, di fare le smorfie in diretta. Siccome erano leggermente sfasati potevo vedermi anche un po’ da dietro. Non ricordo molto dei discorsi a tavola. Ero troppo interessato a quello che un articolo su di me, 35 anni dopo, chiamò ‘acrobatica facciale’.
La prima lieve scossa di terremoto era stata la venuta in città del Circo Americano. Mi ci portò la solita zia. C’era ‘il balletto di bronzo’: cinque o sei armadi muscolosi che si impilavano assumendo posizioni contorte mentre un bambino della mia età, circa 10 anni, si arrampicava su quei corpi e faceva la verticale là sulla vetta. (…) Cominciai a sentire qualcosa nel petto che mi faceva un male boia. Sentivo uno struggere-incandescente per quella che mi immaginavo fosse una vita ad allenarsi a costruire la bellezza, lavorando ogni giorno a perfezionarsi. Qualcosa si radicò dentro di me quella volta, un corpo estraneo - come in Alien di Ridley Scott - ma io non ne seppi niente per altri dieci anni. ‘Cosa manca nel mio mondo?’ si chiede un diciottenne da almeno 13 anni. Manca la Bellezza. Abito all’ultimo piano di un condominio, tra altri condomini, non lontano dagli impianti Montedison. Tutto è brutto e grigio”.
Dopo la scuola d’Arte, Nani si iscrive al DAMS, ma “sentivo che stavo per rinsecchire. Era solo teoria e il dipingere era solitario. (…) Una cosa era certa. Dipingevo, fotografavo, suonavo, ascoltavo musica improvvisata e d’avanguardia. E di tutte le arti il teatro era quella di cui non mi poteva fregare di meno. Quello che avevo visto era solo noia. (…) Folgorazione. Settembre 1977: con i miei amici prendemmo il treno e ci trovammo nel centro di Modena a vedere Il libro delle danze dell’Odin Teatret dalla Danimarca. Ci sedemmo a terra con un sacco di gente e iniziò lo spettacolo. Gli attori avevano costumi coloratissimi e subito una cosa di loro mi colpì come un pugno in fronte. Erano tutti bellissimi! (…) Una bellezza che come un’ondata piena di tamburi sfasciava tutto e portava a galla quello che avevo dimenticato sul fondo insieme a molto altro. Autenticità. Bellezza. Disciplina. Determinazione. Forza. Passione. Ispirazione. Sfida. Coraggio. (…) Alla fine dello spettacolo il mio viso era immobile - sotto shock - forse ero l’unico che sentiva urlare nella mia testa: ‘Aiuuuutooooo! È la fine del (mio) mondo!!!’ Ma cosa potevo fare io? Ero un giovanotto, un frikkettone che aveva avuto un colpo di fulmine vedendo l’Odin Teatret. Improvvisamente quello che studiavo al DAMS non aveva più senso. Gli amici in piazza non erano rimasti fulminati come me. Ero ancora più solo. Avevo iniziato a praticare la verticale, su due mani. Volevo imparare. E non può essere una coincidenza la mia fame profonda e l’arrivo dall’Argentina del Teatro Nucleo in città, proprio in quel momento”.
Ma non aveva i soldi per partecipare al loro laboratorio; così Paolo Nani cominciò a vendere i suoi dipinti e nell’autunno seguente poté iscriversi al loro corso. Fino a che una sera Horacio Czertok, che teneva il laboratorio, pronunciò proprio quella frase: “Ti interesserebbe lavorare con noi? Risposi in maniera un po’ più tranquilla di quello che mi si ammucchiava nella testa, che sì mi interessava. ‘Sììì, non aspettavo altro da quando sono nato! Non mi sono mai sentito così vivo come durante queste lezioni. Sono pronto, più che pronto, sono stra-pronto’. Sentii un peso enorme cadermi dalle spalle. Non c’era nessuno al mondo che invidiassi. Non mi interessava altro. Ero pronto (…) La Liberazione iniziò entrando nell’ospedale psichiatrico dove il Teatro Nucleo aveva una piccola sala”. Seguirono mesi impegnativi e fisicamente faticosi durante i quali Nani si chiedeva: “‘Perché non faccio un qualsiasi altro mestiere decente? Perché voglio una vita diversa da quella che vedo condurre qui. Non posso credere che si debba per forza vivere facendo un lavoro che si odia. Voglio vivere per la Bellezza’. (…) Volevo stupire. Volevo sentire la sorpresa della gente”.
Dopo dodici anni trascorsi con il Teatro Nucleo, nel 1990 arriva “il momento di andare e continuare a creare la propria strada - prosegue il racconto Nani. Quella sensazione è il messaggio, come quando non hai più fame e il tuo corpo te lo dice. Se insisti a mangiare ti viene il vomito. È il momento. Devi andartene. Il Mondo ti mostra possibilità e porte si aprono là dove c’erano muri”. Paolo Nani aveva scoperto che gli piaceva tanto far ridere le persone ma al Teatro Nucleo non c’era spazio per questo. “Finito il ciclo con un maestro, se l’allievo è pronto, ne arriva un altro”, scrive Nani.
Fino a quando un giorno, in una strada di Copenaghen, vide il manifesto dello spettacolo di un suo caro amico, Nullo Facchini. Incredulo di questo ‘caso’ lo chiama e si incontrano. E così, nel 1991 a Vordingborg in Danimarca i due iniziano a lavorare insieme; nascerà a breve La lettera anche se i due ancora non lo sanno. Dopo giorni in cui non riescono a cavare un ragno dal buco, a Nullo viene in mente di ispirarsi a Esercizi di stile, ed è subito un successo. Seguono giorni e giorni di prove durante le quali “mi accorgo che le mie mani non sono abituate a maneggiare la carta da lettere, piegarla e imbustarla - racconta Paolo Nani. Ma mi metto lì e inizio a piegare i fogli uno alla volta lasciando che le mie mani imparino piano piano a maneggiare la carta, a sentirne il peso, la consistenza, la ruvidità e a piegare i fogli in maniera sempre uguale. Questa è una delle mille e preziose cose che ho imparato al Teatro Nucleo a Ferrara: il corpo impara da solo, basta lasciarlo fare. E il lavoro consiste nel lasciare che il corpo impari a fare meno, a prendere la scorciatoia evitando i movimenti e la fatica, inutili”. Il lavoro di creazione de La lettera va avanti per circa tre mesi; Nullo una volta alla settimana vede il lavoro fatto fino a quel momento dall’artista ferrarese e gli dà delle dritte su come proseguire. Dopo circa un anno lo spettacolo è entrato talmente nel corpo dell’attore che non ha più bisogno di alcun aiuto per i cambi fra una scena e l’altra; è pronto per il debutto nel Jomfru Ana Teatret a Alborg in Danimarca. È il febbraio 1992. Da quella sera, come già detto, La lettera ha fatto ridere grandi e piccini nel mondo.
Sul palco, appena entrati in sala, vediamo un tavolo, una sedia, una bottiglia (di vino?), la foto da tavolo della nonna e l’occorrente per scrivere una lettera poggiato sul tavolo. Poi un uomo dal corpo morbido, sottile e leggero entra, si siede al tavolo, beve dalla bottiglia quello che sembra vino (ma non lo è tanto che lo sputa schifato), guarda la foto sul tavolo, scrive la lettera, la imbusta, la affranca ed esce… ma ecco apparire sul suo volto un dubbio: la penna… scriveva? E allora apre la busta, spiega la lettera e si accorge che il foglio è bianco. Tutto questo ripetuto in 15 stili diversi e con tutte le varianti comiche del caso: normale, all'indietro, ripetizioni, con sorpresa, volgare, pigro (ma tanto pigro… al punto di non farcela ad entrare in scena), senza mani, ubriaco, horror, circo, western, sogno, due cose alla volta, cinema muto e infine la freudiana.
Una idea di per sé semplicissima portata a livelli di grande comicità grazie all’incalzare del ritmo che Paolo Nani riesce ad imprimere. Parlando con il pubblico alla fine della rappresentazione andata in scena al teatro Filodrammatici di Milano, l’attore afferma: “Il ritmo delle intenzioni è diverso ogni volta; è come suonare il jazz”. E così questo meccanismo scenico unico nel suo genere va in scena dal 1992 in ogni dove: lo hanno visto in Groenlandia e in Cile, in Turchia e in Spagna, in Norvegia e in Italia, raggiungendo oltre 900 repliche. Non è difficile immaginarsi che anche vedendolo più e più volte si riderebbe sempre come fosse la prima tanta è la capacità di Nani di trasformarsi ad ogni entrata in scena e catturare il pubblico. Così diventa comico vedere una sedia come se fosse la prima volta e sorprendersi per come la si possa utilizzare, come anche reagire con sorpresa alla vista della foto che ritrae la nonna al punto da nascondersi sotto il tavolo, o imbustare la lettera e affrancare la busta senza mani (sì, Paolo Nani riesce a farlo!).
Il corpo dell’attore è il protagonista de La lettera; si muove morbido nello spazio e si poggia leggero sulle tavole del palco. E la scena scarna lo espone ancora di più rendendo comici anche movimenti impercettibili di pochi muscoli del volto o il muoversi dei soli bulbi oculari. Sul palcoscenico si palesa tutto il lavoro e lo studio fatto negli anni per raggiungere quel livello di precisione nei movimenti, ripetuti centinaia e centinaia di volte. Altrettanto importanti sono i suoni, quelli gutturali della sua voce, con i quali accompagna prima la sorpresa e poi la volgarità, prima l’horror e poi il western; e quelli prodotti con gli oggetti di scena e con il movimento del suo corpo sedendosi o precipitando a terra nel pieno della sbronza.
Nella Breve storia di una passione Paolo Nani si racconta così: “A sette anni pensavo: ‘Non so cosa farò da grande ma non mi ci vedo in un lavoro normale: non esiste proprio che faccia il salumiere o l’impiegato di banca o il meccanico o lo spaccapietre’. Ma c’erano dei segnali precisi che si manifestavano in alcuni comportamenti precisi: il disegno coatto, la lettura assatanata di fumetti, le smorfie davanti allo specchio. A cinque anni disegnavo la figura umana con tutte le proporzioni. In effetti il disegno non era un semplice piacere. Se mi avessero tolto i ‘pitturini’ e gli album Giotto sarei morto di fame. I fumetti sono stati la mia passione per decenni, da quando la solita zia mi fece l’abbonamento a Topolino. Le smorfie allo specchio invece erano un allenamento quotidiano. I miei avevano comprato per la sala da pranzo due (orrendi) mobili con la specchiera che, situati uno di fronte all’altro, mi permettevano, mentre pranzavamo o cenavamo, di fare le smorfie in diretta. Siccome erano leggermente sfasati potevo vedermi anche un po’ da dietro. Non ricordo molto dei discorsi a tavola. Ero troppo interessato a quello che un articolo su di me, 35 anni dopo, chiamò ‘acrobatica facciale’.
La prima lieve scossa di terremoto era stata la venuta in città del Circo Americano. Mi ci portò la solita zia. C’era ‘il balletto di bronzo’: cinque o sei armadi muscolosi che si impilavano assumendo posizioni contorte mentre un bambino della mia età, circa 10 anni, si arrampicava su quei corpi e faceva la verticale là sulla vetta. (…) Cominciai a sentire qualcosa nel petto che mi faceva un male boia. Sentivo uno struggere-incandescente per quella che mi immaginavo fosse una vita ad allenarsi a costruire la bellezza, lavorando ogni giorno a perfezionarsi. Qualcosa si radicò dentro di me quella volta, un corpo estraneo - come in Alien di Ridley Scott - ma io non ne seppi niente per altri dieci anni. ‘Cosa manca nel mio mondo?’ si chiede un diciottenne da almeno 13 anni. Manca la Bellezza. Abito all’ultimo piano di un condominio, tra altri condomini, non lontano dagli impianti Montedison. Tutto è brutto e grigio”.
Dopo la scuola d’Arte, Nani si iscrive al DAMS, ma “sentivo che stavo per rinsecchire. Era solo teoria e il dipingere era solitario. (…) Una cosa era certa. Dipingevo, fotografavo, suonavo, ascoltavo musica improvvisata e d’avanguardia. E di tutte le arti il teatro era quella di cui non mi poteva fregare di meno. Quello che avevo visto era solo noia. (…) Folgorazione. Settembre 1977: con i miei amici prendemmo il treno e ci trovammo nel centro di Modena a vedere Il libro delle danze dell’Odin Teatret dalla Danimarca. Ci sedemmo a terra con un sacco di gente e iniziò lo spettacolo. Gli attori avevano costumi coloratissimi e subito una cosa di loro mi colpì come un pugno in fronte. Erano tutti bellissimi! (…) Una bellezza che come un’ondata piena di tamburi sfasciava tutto e portava a galla quello che avevo dimenticato sul fondo insieme a molto altro. Autenticità. Bellezza. Disciplina. Determinazione. Forza. Passione. Ispirazione. Sfida. Coraggio. (…) Alla fine dello spettacolo il mio viso era immobile - sotto shock - forse ero l’unico che sentiva urlare nella mia testa: ‘Aiuuuutooooo! È la fine del (mio) mondo!!!’ Ma cosa potevo fare io? Ero un giovanotto, un frikkettone che aveva avuto un colpo di fulmine vedendo l’Odin Teatret. Improvvisamente quello che studiavo al DAMS non aveva più senso. Gli amici in piazza non erano rimasti fulminati come me. Ero ancora più solo. Avevo iniziato a praticare la verticale, su due mani. Volevo imparare. E non può essere una coincidenza la mia fame profonda e l’arrivo dall’Argentina del Teatro Nucleo in città, proprio in quel momento”.
Ma non aveva i soldi per partecipare al loro laboratorio; così Paolo Nani cominciò a vendere i suoi dipinti e nell’autunno seguente poté iscriversi al loro corso. Fino a che una sera Horacio Czertok, che teneva il laboratorio, pronunciò proprio quella frase: “Ti interesserebbe lavorare con noi? Risposi in maniera un po’ più tranquilla di quello che mi si ammucchiava nella testa, che sì mi interessava. ‘Sììì, non aspettavo altro da quando sono nato! Non mi sono mai sentito così vivo come durante queste lezioni. Sono pronto, più che pronto, sono stra-pronto’. Sentii un peso enorme cadermi dalle spalle. Non c’era nessuno al mondo che invidiassi. Non mi interessava altro. Ero pronto (…) La Liberazione iniziò entrando nell’ospedale psichiatrico dove il Teatro Nucleo aveva una piccola sala”. Seguirono mesi impegnativi e fisicamente faticosi durante i quali Nani si chiedeva: “‘Perché non faccio un qualsiasi altro mestiere decente? Perché voglio una vita diversa da quella che vedo condurre qui. Non posso credere che si debba per forza vivere facendo un lavoro che si odia. Voglio vivere per la Bellezza’. (…) Volevo stupire. Volevo sentire la sorpresa della gente”.
Dopo dodici anni trascorsi con il Teatro Nucleo, nel 1990 arriva “il momento di andare e continuare a creare la propria strada - prosegue il racconto Nani. Quella sensazione è il messaggio, come quando non hai più fame e il tuo corpo te lo dice. Se insisti a mangiare ti viene il vomito. È il momento. Devi andartene. Il Mondo ti mostra possibilità e porte si aprono là dove c’erano muri”. Paolo Nani aveva scoperto che gli piaceva tanto far ridere le persone ma al Teatro Nucleo non c’era spazio per questo. “Finito il ciclo con un maestro, se l’allievo è pronto, ne arriva un altro”, scrive Nani.
Fino a quando un giorno, in una strada di Copenaghen, vide il manifesto dello spettacolo di un suo caro amico, Nullo Facchini. Incredulo di questo ‘caso’ lo chiama e si incontrano. E così, nel 1991 a Vordingborg in Danimarca i due iniziano a lavorare insieme; nascerà a breve La lettera anche se i due ancora non lo sanno. Dopo giorni in cui non riescono a cavare un ragno dal buco, a Nullo viene in mente di ispirarsi a Esercizi di stile, ed è subito un successo. Seguono giorni e giorni di prove durante le quali “mi accorgo che le mie mani non sono abituate a maneggiare la carta da lettere, piegarla e imbustarla - racconta Paolo Nani. Ma mi metto lì e inizio a piegare i fogli uno alla volta lasciando che le mie mani imparino piano piano a maneggiare la carta, a sentirne il peso, la consistenza, la ruvidità e a piegare i fogli in maniera sempre uguale. Questa è una delle mille e preziose cose che ho imparato al Teatro Nucleo a Ferrara: il corpo impara da solo, basta lasciarlo fare. E il lavoro consiste nel lasciare che il corpo impari a fare meno, a prendere la scorciatoia evitando i movimenti e la fatica, inutili”. Il lavoro di creazione de La lettera va avanti per circa tre mesi; Nullo una volta alla settimana vede il lavoro fatto fino a quel momento dall’artista ferrarese e gli dà delle dritte su come proseguire. Dopo circa un anno lo spettacolo è entrato talmente nel corpo dell’attore che non ha più bisogno di alcun aiuto per i cambi fra una scena e l’altra; è pronto per il debutto nel Jomfru Ana Teatret a Alborg in Danimarca. È il febbraio 1992. Da quella sera, come già detto, La lettera ha fatto ridere grandi e piccini nel mondo.
La lettera in cinque minuti
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MR. TURNER, IL CERCATORE DI LUCE
Claudia Amato, Claudio Malizia e l’Equipaggio, Anno 2015
MR. TURNER, IL CERCATORE DI LUCE
Claudia Amato, Claudio Malizia e l’Equipaggio
Regia e Sceneggiatura: Mike Leigh; Cast: Timothy Spall, Dorothy Atkinson, Marion Bailey, Paul Jesson,
Lesley Manville; Musica: Gary Yershon; Scenografia: Dan Taylor; Fotografia: Dick Pope;
Montaggio: Jon Gregory; Costumi: Jacqueline Durran; Trucco: Christine Blundell; Produzione: Gran Bretagna 2014;
Miglior attore Festival di Cannes 2014 e European Film Awards 2014 a Timothy Spall
Lesley Manville; Musica: Gary Yershon; Scenografia: Dan Taylor; Fotografia: Dick Pope;
Montaggio: Jon Gregory; Costumi: Jacqueline Durran; Trucco: Christine Blundell; Produzione: Gran Bretagna 2014;
Miglior attore Festival di Cannes 2014 e European Film Awards 2014 a Timothy Spall
Il buio della sala viene squarciato da uno sfondo morbido di tenui colori rosa e giallo ocra. Due donne, due contadine olandesi, ci vengono incontro con il loro vocìo giocoso che progressivamente arriva al nostro orecchio. Si staglia sullo sfondo un mulino a vento che si contrappone all’immagine del pittore come a sancire una parentela tra l’artista viaggiatore e il cavaliere errante: eccolo lì Turner, immerso in quel panorama da cui succhia ogni impressione! Assorto e curioso, questo precursore dell’Impressionismo imprime con movimenti rapidi sul suo taccuino da viaggio quanto recepito come fosse lui la pellicola della futura macchina fotografica che tanto lo interesserà.
È forse il tempo nuovo che avanza? Allo sfondo tranquillo della campagna si contrappone lo sferragliare delle carrozze e il vociare della città: è una Londra indaffarata e dal passo svelto che accoglie il pittore. Il brulicare vivo e creativo si acquieta oltre la soglia della porta di casa; la silenziosa ed elegante dimora è pronta ad accogliere lui e la sua borsa da viaggio. L’ampia vetrata illumina l’atelier dell’artista che si precipita a dipingere mentre l’aria vaporosa di colori accoglie quel ritorno ricco d’immagini che emergeranno dalla tela bianca. In questa grande casa compaiono le due figure di riferimento: Hannah, la governante dalla mente semplice e sensibile che si aspetta le attenzioni sensuali di Turner, nonostante il loro punto d’incontro abbia le caratteristiche di un rapporto animalesco; e il padre con il materiale appena comprato - la vescica di blu oltremare, il giallo ocra e la biacca, le tele da lui richieste. È un padre così corporeo nel suo essere affettuoso, come una madre di cui ha preso il posto, dedito a tutto ciò di cui il figlio necessita, e non solo per la realizzazione della sua arte. Divertente la scelta del regista di mettere in sequenza le due scene in cui il padre fa la barba prima alla testa del maiale, che sarà opportunamente cucinata da Hannah, e poi al volto del figlio: sarà un’allusione alla curiosità sessuale di Turner? Sarà un’assonanza con i suoi grugniti che sottolineano spesso il suo disappunto rispetto alle convenzioni sociali (ma anche un riserbo nel proteggere la sua intimità)? Questi suoni diventeranno sempre più frequenti nel corso del film in concomitanza con la dissolvenza della forma nei suoi quadri.
Tutto nella casa ruota attorno all’attività del pittore, i tempi sembrano scanditi dalla preparazione del materiale e dal dipingere. In questo il regista fa la scelta radicale di non raccontare tutta la vita di Turner ma solo la sua quotidianità andando a scovare le radici del suo cambiamento stilistico. In realtà il film raccoglie gli ultimi venticinque anni della vita di Turner e la storia parte da un anno prima della morte del padre, che fin da quando il figlio aveva dieci anni ne aveva esposto i lavori nella vetrina del barber shop di Covent Garden dove lavorava.
La casa è uno spazio di lavoro e di vita vissuto al contempo come una sorta di teatro sempre pronto ad accogliere diversi scenari: la cucina, l’atelier, e quell’affascinante anticamera che viene sempre opportunamente oscurata e preparata dal padre prima che i visitatori siano introdotti nel luminoso spazio espositivo. In quale sbornia di colori siamo proiettati attraverso questo rito!
Il regista sottolinea la capacità di Turner di scegliere gli spazi e, da un punto in poi della sua vita, le donne che gli corrispondono. La ex amante, e madre delle sue due figlie illegittime, viene respinta in un passato da dimenticare: per loro Turner non ha che silenzi e grugniti. Ben diverso è il dialogo musicale con Miss Coggins che ascolta incantato mentre suona la Patetica di Beethoven, e con la quale poi intona con voce tremula “Forget my fate. Remember me, but...ah! Forget my fa ... my fate” sulle note di Henry Purcell: presta commosso la voce a Didone per esprimere il lamento di un amore perduto. O quando parla con Mrs. Somerville “matematica, astronoma, geologa, filosofa della natura” nel suo atelier mentre lei gli dimostra le proprietà magnetiche della luce viola, proprio a lui che è ricercatore della luce e non solo di quella visibile. O come quando tenta di disegnare la giovane ragazza del bordello ma non ci riesce perché è sopraffatto dal dolore: piange senza ritegno di fronte al corpo di quell’angelo caduto che già parla di una devastazione interna (sarà forse lei la donna che vediamo suicida alla fine del film, quando per la seconda volta non riuscirà a disegnarla?). Della governante Hannah, la sua damigella, coglie una grazia tra le piaghe della pelle e tra le pieghe del bozzolo di seta in cui rimane chiusa, lei, fedele custode della sua arte, delle sue tele e dei suoi grugniti a cui risponde ogni volta con una particolare espressione del volto oppure con un bofonchiare a sua volta. Rispetta la libertà dell’uomo ma non anela alla propria. Ed è per questo che il loro rapporto rimane confinato tra le pareti domestiche, fucina di un divenire per entrambi seppure con tempi e prospettive differenti. Loro sono uniti nel non essere convenzionali, nell’essere ruvidi, curiosi, ironici, irriverenti, al pari di alcuni personaggi della Londra di Dickens. Come lo scrittore, Turner odia l’analfabetismo e ogni forma di sopraffazione.
È forse il tempo nuovo che avanza? Allo sfondo tranquillo della campagna si contrappone lo sferragliare delle carrozze e il vociare della città: è una Londra indaffarata e dal passo svelto che accoglie il pittore. Il brulicare vivo e creativo si acquieta oltre la soglia della porta di casa; la silenziosa ed elegante dimora è pronta ad accogliere lui e la sua borsa da viaggio. L’ampia vetrata illumina l’atelier dell’artista che si precipita a dipingere mentre l’aria vaporosa di colori accoglie quel ritorno ricco d’immagini che emergeranno dalla tela bianca. In questa grande casa compaiono le due figure di riferimento: Hannah, la governante dalla mente semplice e sensibile che si aspetta le attenzioni sensuali di Turner, nonostante il loro punto d’incontro abbia le caratteristiche di un rapporto animalesco; e il padre con il materiale appena comprato - la vescica di blu oltremare, il giallo ocra e la biacca, le tele da lui richieste. È un padre così corporeo nel suo essere affettuoso, come una madre di cui ha preso il posto, dedito a tutto ciò di cui il figlio necessita, e non solo per la realizzazione della sua arte. Divertente la scelta del regista di mettere in sequenza le due scene in cui il padre fa la barba prima alla testa del maiale, che sarà opportunamente cucinata da Hannah, e poi al volto del figlio: sarà un’allusione alla curiosità sessuale di Turner? Sarà un’assonanza con i suoi grugniti che sottolineano spesso il suo disappunto rispetto alle convenzioni sociali (ma anche un riserbo nel proteggere la sua intimità)? Questi suoni diventeranno sempre più frequenti nel corso del film in concomitanza con la dissolvenza della forma nei suoi quadri.
Tutto nella casa ruota attorno all’attività del pittore, i tempi sembrano scanditi dalla preparazione del materiale e dal dipingere. In questo il regista fa la scelta radicale di non raccontare tutta la vita di Turner ma solo la sua quotidianità andando a scovare le radici del suo cambiamento stilistico. In realtà il film raccoglie gli ultimi venticinque anni della vita di Turner e la storia parte da un anno prima della morte del padre, che fin da quando il figlio aveva dieci anni ne aveva esposto i lavori nella vetrina del barber shop di Covent Garden dove lavorava.
La casa è uno spazio di lavoro e di vita vissuto al contempo come una sorta di teatro sempre pronto ad accogliere diversi scenari: la cucina, l’atelier, e quell’affascinante anticamera che viene sempre opportunamente oscurata e preparata dal padre prima che i visitatori siano introdotti nel luminoso spazio espositivo. In quale sbornia di colori siamo proiettati attraverso questo rito!
Il regista sottolinea la capacità di Turner di scegliere gli spazi e, da un punto in poi della sua vita, le donne che gli corrispondono. La ex amante, e madre delle sue due figlie illegittime, viene respinta in un passato da dimenticare: per loro Turner non ha che silenzi e grugniti. Ben diverso è il dialogo musicale con Miss Coggins che ascolta incantato mentre suona la Patetica di Beethoven, e con la quale poi intona con voce tremula “Forget my fate. Remember me, but...ah! Forget my fa ... my fate” sulle note di Henry Purcell: presta commosso la voce a Didone per esprimere il lamento di un amore perduto. O quando parla con Mrs. Somerville “matematica, astronoma, geologa, filosofa della natura” nel suo atelier mentre lei gli dimostra le proprietà magnetiche della luce viola, proprio a lui che è ricercatore della luce e non solo di quella visibile. O come quando tenta di disegnare la giovane ragazza del bordello ma non ci riesce perché è sopraffatto dal dolore: piange senza ritegno di fronte al corpo di quell’angelo caduto che già parla di una devastazione interna (sarà forse lei la donna che vediamo suicida alla fine del film, quando per la seconda volta non riuscirà a disegnarla?). Della governante Hannah, la sua damigella, coglie una grazia tra le piaghe della pelle e tra le pieghe del bozzolo di seta in cui rimane chiusa, lei, fedele custode della sua arte, delle sue tele e dei suoi grugniti a cui risponde ogni volta con una particolare espressione del volto oppure con un bofonchiare a sua volta. Rispetta la libertà dell’uomo ma non anela alla propria. Ed è per questo che il loro rapporto rimane confinato tra le pareti domestiche, fucina di un divenire per entrambi seppure con tempi e prospettive differenti. Loro sono uniti nel non essere convenzionali, nell’essere ruvidi, curiosi, ironici, irriverenti, al pari di alcuni personaggi della Londra di Dickens. Come lo scrittore, Turner odia l’analfabetismo e ogni forma di sopraffazione.
Solo dopo la morte del padre è pronto per Mrs. Booth, una donna matura che gestisce una locanda a Margate: si tratta di un luogo di mare in cui lui era stato all’età di undici anni, in concomitanza con le prime manifestazioni di instabilità psichica della madre in seguito alla morte della sorella. Sappiamo nel letto di morte del padre che questa malattia psichica si era aggravata nel tempo a tal punto da rendere necessario il ricovero della madre in manicomio. “Le abbiamo fatto un torto, povera donna”, dice il padre con grande rammarico. E Turner: “Non avevamo scelta, papà. Ci rendeva la vita un inferno”. Ecco un nuovo angelo caduto... il primo della sua vita. Per contrastare la follia della madre lui aveva cominciato a disegnare. Margate era il luogo dove aveva iniziato a dipingere ed anche il primo lembo d’Inghilterra ad essere raggiunto dal sole; forse è per tale motivo che questo villaggio del Kent aveva per Turner una qualità di luce davvero particolare. Ed è proprio lì che torna per elaborare il suo lutto, quello recente come quello antico. Lo ritroviamo nella locanda di Mrs. Booth a dialogare con la calorosa signora e con il marito di lei: si crea un’atmosfera di tale intimità che Turner supera la sua ritrosia e ascolta con grande interesse i racconti marinareschi di lui, maestro d’ascia sulle navi negriere. Curioso destino quello di Mrs. Booth! Aveva perso il primo marito, “il salvatore di vite” nel corso di un eroico tentativo di salvataggio durante un naufragio. E ora perderà a breve anche il secondo marito, portatore di un dolore profondo per quello a cui di disumano aveva dovuto assistere e in qualche modo partecipare. Turner coglie la luce interiore di Sophie Caroline: “Mrs. Booth... siete una donna di profonda bellezza”. Nella danza sulla scala della casa, una stanza di fronte all’altra, si compie il passaggio: il moto selvaggio di lui che l’afferra per baciarla, nel ritrarsi trova la mano di lei che lo conduce nella sua camera da letto. Ha inizio la loro bella storia d’amore, fatta di dialoghi, passeggiate, cose fatte insieme di un’intensità e intimità mai conosciute prima. Lo stile di Turner per la prima volta si arricchisce di un conflitto con il femminile che non è più: si rompono le forme e i colori descrivono nuove dissolvenze. Realizza in questo modo pienamente il suo essere cercatore di luce, perché è la luce che dà le forme ai corpi e agli oggetti, sfumandoli. Sul letto della propria morte dirà ridendo: “La luce è Dio”. Come suona profondamente laica questa frase!
A queste frange intimistiche del vivere si contrappongono le immagini dei momenti istituzionali dove cambiano le atmosfere e i dialoghi diventano convenzionali. Vengono descritti in modo magistrale i pittori contemporanei di Turner: spesso pittori di corte o squattrinati destinati alla rovina che non hanno una visione globale come invece lui ha. Lo vediamo entrare alla Royal Academy of Arts, di cui era un membro importante e riconosciuto, e dare consigli benevoli come pure sferzanti suggerimenti. A questo proposito davvero divertente è lo scontro con John Constable, assai ammirato in quel tempo, che ossessivamente applica pittura rossa alla sua tela con una microscopica spatolina. Senza proferir parola, armato di un pennello capace, Turner va davanti alla sua opera più bella e con un fare ardito e deciso solca il centro del quadro con una pennellata verticale rossa... e poi se ne va tra i commenti sbigottiti dei presenti. Torna di lì a poco, e di quella pennellata con un dito ne fa una boa. Ecco come si muove Joseph Mallord William Turner dentro il mondo della ufficialità artistica: facendosene beffe. Come accade nel salotto aristocratico della famiglia Ruskin, dove i dialoghi inutili ruotano intorno all’uva spina e annoiano i pittori che sono costretti ad ascoltare perché si trovano davanti ai loro possibili compratori. Il ram-pollo di famiglia, borioso critico d’arte in erba, nel mezzo di quel parlar di niente ha un atteggiamento denigratorio nei confronti del pittore Claude Lorrain, che Turner non esita a definire un genio. Per poi riportare con sagacia il giovane Ruskin su quel niente da cui era partito l’attacco all’artista. D’altra parte, lui stesso verrà denigrato da molti contemporanei, dai reali come dagli altri pittori e infine anche dalle masse: proprio non riescono a comprendere quel passaggio ardito in cui le forme si dissolvono. L’artista amato dei naufragi e del conflitto vibrante tra luce e tenebra lascia il passo al cronista del suo tempo che filma in modo creativo i cambiamenti della sua epoca: steel and steam.
A questo proposito vediamo Turner su una barca con due rematori mentre chiacchiera amabilmente con altri due uomini. Nessuno di loro è indifferente allo spettacolo della nave da guerra che dopo aver vinto numerose battaglie, tra cui quella di Trafalgar, viene trainata da un rimorchiatore a vapore lungo il Tamigi. La eroica Temeraire, raffigurazione dell’antica potenza navale inglese, sotto un cielo dalle tinte fiammeggianti, viene condotta in porto per essere distrutta e trasformata in legna da ardere e sedie. È sfumata, come evanescente, rispetto al rimorchiatore che la traina in questa transizione verso la Rivoluzione Industriale che avanza. “Stiamo vedendo il passato” dice uno dei due uomini. E Turner: “No, il passato è passato. Stiamo osservando il futuro. Fumo. Ferro. Vapore...”. Con questa frase sancisce il suo essere artista e non solo pittore: è sempre stato solo ma per questa visione verrà sempre più isolato.
Solitudine e isolamento non sono la stessa cosa… e poi c’è il sublime! L’artista che tocca il sublime deve mettere in conto il penoso isolamento e infatti Turner paga la sua scelta artistica nel corpo: forse a questo allude il regista con la scena ripresa da lontano del primo mancamento su una scalinata del porticciolo di Margate, in quella che sembra una danza con la morte fatta da un Satiro. Per Turner, uomo profondamente calato nel suo tempo, cominceranno gli attacchi di cuore. E nonostante questo egli manterrà in modo caparbio la sua visione nel colore: “Il colore è contraddittorio... sublime ma contraddittorio, eppure armonioso”. E Mrs. Somerville risponderà: “Lei è un uomo che ha una grande visione. L’universo è caotico e lei ce lo fa vedere”. Il sublime è dato dall’incontro della luce con ciò che non si conosce e che per i più è facilmente comprensibile con la trasposizione pittorica dell’oscurità. Ricerca comune quella fra Turner e il regista: partono dalla descrizione dei fatti per arrivare al sublime. Il regista è un cercatore di luce nella quotidianità del pittore, il pittore è inondato dall’oscurità e dal colore. Il regista cerca l’uomo nel pittore, il pittore cerca l’artista nella luce che illumina tutte le cose: entrambi ci fanno sentire l’oscurità dell’essere umano in cui c’è crudeltà e bellezza, e dove la stessa bellezza diventa crudele, senza per questo essere “cattiva”. Proprio come la Natura e i suoi scenari: maremoti, nubifragi, tempeste, frane... passaggi epocali. E mentre l’artista si confronta con la Natura e con sé stesso, con le luci e le ombre interne di ognuno, è possibile toccare la piccolezza dell’uomo di fronte alla grandiosità selvaggia della Natura. Qualsiasi cosa accada all’uomo, la Natura prosegue la sua vita. Questo è il mondo di Turner e questa è la maestria del regista che riesce ad entrarvi e a mostrarci i chiarori e le oscurità.
Il film si apre con i titoli di testa che si rincorrono come scie di fumo o flutti salati, mentre sul fondo appaiono immagini delle opere di Turner. Subito questo movimento mutevole si lascia prendere da una musica ardente, intensa e acuta, che risuonerà nelle scene del film al pari dei colori del pittore. La profondità delle note e i suoni della natura sono quelli giusti per accompagnare le storie di mare che l’artista racconta nei dipinti. Nei suoi tanti viaggi, ascolta i racconti degli uomini e sperimenta egli stesso le sensazioni – ad esempio facendosi legare all’albero maestro di una nave nel cuore di una impietosa tempesta - e vivendo sul corpo le sferzate delle intemperie che fendono l’aria e si abbattono sui naviganti e sulle imbarcazioni. I suoni legati tra loro come cime alle bitte nei porti, narrano di esseri umani che percorrono in solitudine gli oceani, anche i più sconosciuti e infidi, e riecheggiano atmosfere coinvolgenti, a tratti stridenti, quasi sinistre, su cui si infrangono marinai e naufraghi, uomini segnati dai venti e dal rimorso, angeli caduti... La musica, al pari dei dipinti di Turner non è descrittiva e neppure accademica.
La splendida fotografia di Dick Pope ci nutre per tutto il film, facendoci immergere in una natura che pulsa e si irradia ovunque riportandoci alla passione presente nello sguardo dell’artista; l’ottimo montaggio di Jon Gregory sciorina una serie di sequenze in cui tele e realtà, da elementi separati, divengono un tutt’uno senza mai confondersi tra loro; la mirabile scenografia di Dan Taylor ci porta in luoghi mai vissuti prima, vivi e presenti come se li conoscessimo da tempo.
Sublime la prova attoriale di Timothy Spall che si è fatto talmente coinvolgere dal personaggio da voler imparare a dipingere lui stesso. Racconta in una intervista: “Insieme a Mike Leigh abbiamo improvvisato per ore ogni giorno, sui nostri personaggi. Non c’era copione: dovevamo solo vivere i nostri personaggi. Il copione lo ha scritto poi al momento di girare”. Dal nostro punto di vista egli è riuscito ad incarnare con la sua fisicità il tormento artistico della ricerca dell’immagine attraverso il colore fino a farla diventare testimonianza storica. Allo stesso modo il regista riesce a fare del film la personificazione di Turner, al contempo primitivo ed elegante, solitario e comunicativo, oscuro e luminoso; sempre nel presente, ci fa vedere l’apertura sfumata verso il futuro.
Ringraziamo Mike Leigh e tutti coloro che hanno lavorato in questo splendido film per averci regalato questa immersione totale nella realtà artistica.
A queste frange intimistiche del vivere si contrappongono le immagini dei momenti istituzionali dove cambiano le atmosfere e i dialoghi diventano convenzionali. Vengono descritti in modo magistrale i pittori contemporanei di Turner: spesso pittori di corte o squattrinati destinati alla rovina che non hanno una visione globale come invece lui ha. Lo vediamo entrare alla Royal Academy of Arts, di cui era un membro importante e riconosciuto, e dare consigli benevoli come pure sferzanti suggerimenti. A questo proposito davvero divertente è lo scontro con John Constable, assai ammirato in quel tempo, che ossessivamente applica pittura rossa alla sua tela con una microscopica spatolina. Senza proferir parola, armato di un pennello capace, Turner va davanti alla sua opera più bella e con un fare ardito e deciso solca il centro del quadro con una pennellata verticale rossa... e poi se ne va tra i commenti sbigottiti dei presenti. Torna di lì a poco, e di quella pennellata con un dito ne fa una boa. Ecco come si muove Joseph Mallord William Turner dentro il mondo della ufficialità artistica: facendosene beffe. Come accade nel salotto aristocratico della famiglia Ruskin, dove i dialoghi inutili ruotano intorno all’uva spina e annoiano i pittori che sono costretti ad ascoltare perché si trovano davanti ai loro possibili compratori. Il ram-pollo di famiglia, borioso critico d’arte in erba, nel mezzo di quel parlar di niente ha un atteggiamento denigratorio nei confronti del pittore Claude Lorrain, che Turner non esita a definire un genio. Per poi riportare con sagacia il giovane Ruskin su quel niente da cui era partito l’attacco all’artista. D’altra parte, lui stesso verrà denigrato da molti contemporanei, dai reali come dagli altri pittori e infine anche dalle masse: proprio non riescono a comprendere quel passaggio ardito in cui le forme si dissolvono. L’artista amato dei naufragi e del conflitto vibrante tra luce e tenebra lascia il passo al cronista del suo tempo che filma in modo creativo i cambiamenti della sua epoca: steel and steam.
A questo proposito vediamo Turner su una barca con due rematori mentre chiacchiera amabilmente con altri due uomini. Nessuno di loro è indifferente allo spettacolo della nave da guerra che dopo aver vinto numerose battaglie, tra cui quella di Trafalgar, viene trainata da un rimorchiatore a vapore lungo il Tamigi. La eroica Temeraire, raffigurazione dell’antica potenza navale inglese, sotto un cielo dalle tinte fiammeggianti, viene condotta in porto per essere distrutta e trasformata in legna da ardere e sedie. È sfumata, come evanescente, rispetto al rimorchiatore che la traina in questa transizione verso la Rivoluzione Industriale che avanza. “Stiamo vedendo il passato” dice uno dei due uomini. E Turner: “No, il passato è passato. Stiamo osservando il futuro. Fumo. Ferro. Vapore...”. Con questa frase sancisce il suo essere artista e non solo pittore: è sempre stato solo ma per questa visione verrà sempre più isolato.
Solitudine e isolamento non sono la stessa cosa… e poi c’è il sublime! L’artista che tocca il sublime deve mettere in conto il penoso isolamento e infatti Turner paga la sua scelta artistica nel corpo: forse a questo allude il regista con la scena ripresa da lontano del primo mancamento su una scalinata del porticciolo di Margate, in quella che sembra una danza con la morte fatta da un Satiro. Per Turner, uomo profondamente calato nel suo tempo, cominceranno gli attacchi di cuore. E nonostante questo egli manterrà in modo caparbio la sua visione nel colore: “Il colore è contraddittorio... sublime ma contraddittorio, eppure armonioso”. E Mrs. Somerville risponderà: “Lei è un uomo che ha una grande visione. L’universo è caotico e lei ce lo fa vedere”. Il sublime è dato dall’incontro della luce con ciò che non si conosce e che per i più è facilmente comprensibile con la trasposizione pittorica dell’oscurità. Ricerca comune quella fra Turner e il regista: partono dalla descrizione dei fatti per arrivare al sublime. Il regista è un cercatore di luce nella quotidianità del pittore, il pittore è inondato dall’oscurità e dal colore. Il regista cerca l’uomo nel pittore, il pittore cerca l’artista nella luce che illumina tutte le cose: entrambi ci fanno sentire l’oscurità dell’essere umano in cui c’è crudeltà e bellezza, e dove la stessa bellezza diventa crudele, senza per questo essere “cattiva”. Proprio come la Natura e i suoi scenari: maremoti, nubifragi, tempeste, frane... passaggi epocali. E mentre l’artista si confronta con la Natura e con sé stesso, con le luci e le ombre interne di ognuno, è possibile toccare la piccolezza dell’uomo di fronte alla grandiosità selvaggia della Natura. Qualsiasi cosa accada all’uomo, la Natura prosegue la sua vita. Questo è il mondo di Turner e questa è la maestria del regista che riesce ad entrarvi e a mostrarci i chiarori e le oscurità.
Il film si apre con i titoli di testa che si rincorrono come scie di fumo o flutti salati, mentre sul fondo appaiono immagini delle opere di Turner. Subito questo movimento mutevole si lascia prendere da una musica ardente, intensa e acuta, che risuonerà nelle scene del film al pari dei colori del pittore. La profondità delle note e i suoni della natura sono quelli giusti per accompagnare le storie di mare che l’artista racconta nei dipinti. Nei suoi tanti viaggi, ascolta i racconti degli uomini e sperimenta egli stesso le sensazioni – ad esempio facendosi legare all’albero maestro di una nave nel cuore di una impietosa tempesta - e vivendo sul corpo le sferzate delle intemperie che fendono l’aria e si abbattono sui naviganti e sulle imbarcazioni. I suoni legati tra loro come cime alle bitte nei porti, narrano di esseri umani che percorrono in solitudine gli oceani, anche i più sconosciuti e infidi, e riecheggiano atmosfere coinvolgenti, a tratti stridenti, quasi sinistre, su cui si infrangono marinai e naufraghi, uomini segnati dai venti e dal rimorso, angeli caduti... La musica, al pari dei dipinti di Turner non è descrittiva e neppure accademica.
La splendida fotografia di Dick Pope ci nutre per tutto il film, facendoci immergere in una natura che pulsa e si irradia ovunque riportandoci alla passione presente nello sguardo dell’artista; l’ottimo montaggio di Jon Gregory sciorina una serie di sequenze in cui tele e realtà, da elementi separati, divengono un tutt’uno senza mai confondersi tra loro; la mirabile scenografia di Dan Taylor ci porta in luoghi mai vissuti prima, vivi e presenti come se li conoscessimo da tempo.
Sublime la prova attoriale di Timothy Spall che si è fatto talmente coinvolgere dal personaggio da voler imparare a dipingere lui stesso. Racconta in una intervista: “Insieme a Mike Leigh abbiamo improvvisato per ore ogni giorno, sui nostri personaggi. Non c’era copione: dovevamo solo vivere i nostri personaggi. Il copione lo ha scritto poi al momento di girare”. Dal nostro punto di vista egli è riuscito ad incarnare con la sua fisicità il tormento artistico della ricerca dell’immagine attraverso il colore fino a farla diventare testimonianza storica. Allo stesso modo il regista riesce a fare del film la personificazione di Turner, al contempo primitivo ed elegante, solitario e comunicativo, oscuro e luminoso; sempre nel presente, ci fa vedere l’apertura sfumata verso il futuro.
Ringraziamo Mike Leigh e tutti coloro che hanno lavorato in questo splendido film per averci regalato questa immersione totale nella realtà artistica.
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