ArteScienza
DEMETRIO STRATOS. “ESSERE VOCE”, di Shelly Bisirri. Anno 2021
DEMETRIO STRATOS. “ESSERE VOCE”
Shelly Bisirri
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Foto di Roberto Masotti
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Da adulto riconobbe che l'infanzia vissuta ad Alessandria d’Egitto, gli aveva permesso di arricchirsi di esperienze sonore, al pari di un viaggiatore che si lascia attraversare dal traffico di culture in quel Mediterraneo ricco di diverse etnie e crocevia di intense pratiche musicali. Subito dopo la crisi di Suez, nel 1957, la famiglia lo mandò a studiare presso il Collegio di Terra Santa a Nicosia, Cipro, dove Efstràtios ottenne anche il passaporto cipriota.
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Nel 1973, Stratos partecipò alla 8° Biennale di Parigi con gli Area in rappresentanza dell’Italia, portando il loro primo album, Arbeit macht frei ("Work Brings Freedom”- “Il lavoro porta libertà”), frase ripresa da un’iscrizione su di un cancello nel campo di concentramento di Auschwitz.
Nel 1974, con gli Area, prese parte a diverse tournée e festival in diverse parti d’Europa come Francia, Portogallo, Svizzera e del mondo arrivando fino a Cuba. Durante la tournée ricevette l'invito dal Ministero della Cultura ad incontrarsi con la Delegazione di musicisti della Mongolia per partecipare a un dibattito sulla vocalità dell'Estremo oriente. Demetrio Stratos si era progressivamente inoltrato nell'affascinante mondo dei suoni riprendendo e ampliando un vasto discorso sul significato della voce nelle diverse civiltà orientali e mediorientali. Egli diceva che le triplofonie e quadrifonie usate nella cultura dei monaci tibetani era un modo di usare la voce come rito e mise questo concetto alla base della sua ricerca sonora. Sempre facendo riferimento alla cultura tibetana sosteneva che la ripetizione era la strada per allontanarsi dall’usuale, per distaccarsi dal proprio ego ed entrare in una visione sociale della voce.
Sempre nel 1974 a Milano lavorò con Gianni Emilio Simonetti, Juan Hidalgo e Walter Marchetti, fondatori del gruppo Zaj sin dal 1959 e basato sulla sperimentazione musicale e performativa, all’interno dell’esperienza Fluxus. Questa era uno strumento di collegamento internazionale fra artisti di origine culturali e discipline completamente diverse: dalla danza alla pittura, al design. Fu in questa circostanza che Demetrio si avvicina al pensiero e all’opera del compositore statunitense John Cage che lo invitò a tenere una serie di concerti al Roundabout Theatre di New York. Nello stesso periodo collaborò con la Merce Cunningham Dance Company, sotto la direzione artistica di Jasper Johns, quella musicale di Cage e la collaborazione di Andy Warhol per i costumi. Inoltre Interpreta i Sixty-Two Mesostics Re Merce Cunningham per voce non accompagnata e microfono, di John Cage, che inaugura la collana “Nova Musicha”. Alla Festa del Proletariato Giovanile al Parco Lambro di Milano, Stratos presenta i Mesostics di Cage davanti a oltre 15.000 spettatori. Nello stesso periodo con gli Area realizza il secondo album Caution Radiation Area.
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Foto di Silvia Lelli / Lelli e Masotti Archivio
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Demetrio Stratos si interessò di psicanalisi e svolse una ricerca sul rapporto tra linguaggio e psiche. Tenne corsi e seminari nelle scuole, formulando una vera e propria pedagogia della voce. Introdusse il concetto di voce-musica, dove la voce è considerata nella sua individualità e non vincolata unicamente ed esclusivamente alla parola e al suo discorso di significato verbale. Si ribellava alla “voce bella e pronta” dei giorni nostri, combattendola con una strategia ed una pratica liberatoria. Affermava con decisione che si stesse vivendo un periodo di appiattimento, di distanziamento e indifferenza rispetto al senso della voce umana: la voce come veicolo del significato della parola rubava spazio alla voce-musica, quindi al significante, privandola delle sue sfumature istintive, grezze, rumorose, man mano che ci si avvicinava all’età adulta e ad una vocalità dominata dai meccanismi culturali di controllo e dagli imperativi della società di mercato. La voce era, d’altronde da secoli subordinata agli imperativi della ‘buona tecnica’ considerata come uno strumento, una macchina perfettamente addomesticabile al servizio di un’estetica armoniosa e in nessun momento anarchica. Il rumore e la stonatura dovevano essere banditi da un mondo che aveva stabilito una particolare ‘morale’ della voce. Demetrio Strato arrivò a scardinare questi meccanismi con la sua voce pronta ad essere emessa nella sua materialità, nella sua esecrabile sgradevolezza e rivoluzionaria indecorosi, portando avanti una sua personale critica, in un contesto rivoluzionario come quello di allora in cui la vocalità assumeva un profondo ruolo contestatore. La voce soffocata rappresentava per lui il proletariato sfruttato che cercava la sua forza liberatrice; con la voce egli sapeva fare cose inimmaginabili al punto che giustamente è stato definito: artista/strumento umano irripetibile.
Liberare la naturalità nascosta della propria voce, per Demetrio significava elaborare ed esprimere pensieri contro il potere, deridendo e intrattenendo, insegnando ed imparando sempre dalle emozioni del pubblico. Si dice che il termine esatto delle situazioni di avanguardia presentate da Demetrio Stratos fosse ‘performance’, perché con questo termine si intendeva dare una corporeità plurale alle arti che innescava nei suoi spettacoli: fusione di mimo e voce, canto e recitazione, recitazione di un corpo in grado di dare dimensioni difficilmente collocabili nelle normali geografie artistiche.
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Proprio come scrivono entrambi (Demetrio nel suo libro “Essere Voce” e Tomatis ne “L’orecchio e la voce”) per cantare non bisogna fare niente. Alfred Tomatis sostiene che il corpo accoglie i suoni dell’Universo per entrarvi in risonanza e la voce stessa diventa espressione di questa capacità. Infatti il raggiungere frequenze impensabili è dovuto ad una grande rilassatezza e disponibilità di tutto il corpo all’unisono di entrare in risonanza con i suoni dell’Universo.
È per questo che poi il prof. Franco Ferrero non sapeva spiegarsi come mai le corde vocali di Demetrio non vibrassero durante l’emissione vocale, la voce non è data solo dalla vibrazione delle corde vocali, ma dalla ricettività del corpo di accogliere e risuonare.
Demetrio Stratos afferma che “La voce è oggi nella musica un canale di trasmissione che non trasmette più nulla” e ancora: “L'ipertrofia vocale occidentale ha reso il cantante moderno pressoché insensibile ai diversi aspetti della vocalità, isolandolo nel recinto di determinate strutture linguistiche”.
All’inizio del 1979 Demetrio Stratos tenne un corso di semiologia della musica contemporanea sulla voce presso il Conservatorio “G. Verdi” di Milano e il 30 marzo fece il suo ultimo concerto presso il Teatrino della Villa Reale di Monza. Colpito da una forma di anemia aplastica, dapprima fu ricoverato a Milano poi trasferito presso il Memorial Hospital di New York.
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La notizia della sua malattia si diffuse in breve tempo nell'ambiente musicale italiano e Gianni Sassi, fondatore della Cramps e già paroliere degli Area, organizzò un concerto allo scopo di raccogliere i fondi per garantire al cantante la costosa degenza, in attesa del necessario trapianto di midollo osseo. Furono molti gli artisti che aderirono all’iniziativa, a conferma di quanto Demetrio Stratos fosse amato. Ma le condizioni tuttavia si aggravarono più rapidamente del previsto ed egli morì all'età di 34 anni il 13 giugno 1979, il giorno prima della data fissata per l'evento benefico, che divenne così un tributo alla sua memoria, il primo di una lunga serie.
Dalle registrazioni del concerto di Milano, al quale intervennero circa sessantamila spettatori, la Cramps trasse il doppio album 1979 Il concerto - Omaggio a Demetrio Stratos; lo speciale televisivo dedicato all'evento, a cura di Renato Marengo e, in occasione del trentennale (2009), uscì su un DVD prodotto dalla Cramps assieme a Rai Trade, allegato a La Repubblica e L'Espresso.
Demetrio Stratos fu tumulato nel cimitero del borgo di Scipione Castello, frazione del comune di Salsomaggiore Terme che, dal 2000, organizza tutti gli anni una manifestazione musicale a lui dedicata.
SITOGRAFIA
Le informazioni biografiche su Demetrio Stratos sono tratte dai seguenti siti internet:
https://en.wikipedia.org/wiki/Demetrio_Stratos
http://www.demetriostratos.org/cronologia
http://www.progarchives.com/artist.asp?id=3046#videos
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IL CORPO DELLA VOCE: C'È DICOTOMIA TRA SCIENZA E ARTE. L’Equipaggio. Anno 2019
IL CORPO DELLA VOCE: C'È DICOTOMIA TRA SCIENZA E ARTE
L’Equipaggio – Filippo Paoli, Cinzia Sersante, Concetta Turchi
In questa mostra gli scienziati si occupano del corpo della voce,
per fortuna gli artisti si occupano del corpo nella voce.
Una domanda sorge spontanea: può esserci il corpo della voce quando a mancare è il corpo nella voce?
per fortuna gli artisti si occupano del corpo nella voce.
Una domanda sorge spontanea: può esserci il corpo della voce quando a mancare è il corpo nella voce?
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La scala vocale di Concetta Turchi
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• “Not I” di Samuel Beckett con Billy Weithlaw nella parte di “Bocca” (1973) dove la bocca è prigioniera nella “ripetizione ossessivamente rapida di frasi apparentemente prive di senso”: scopriamo che c’è qualcuno dentro quella bocca che cerca di uscire fuori e la voce viene intesa come frutto di questo movimento verso l’esterno. Dov’è la messa in vibrazione della nostra struttura ossea? Passa così il messaggio di una voce intesa “come pura sonorità” con un corpo che non è nel corpo. In questo senso ci piace rileggere quanto riportato in una didascalia che accompagna il video “Not I” di Matthieu Galey: “Della Voce morta della nostra Bocca d’ombra”. Ci rendiamo conto che la nostra lettura è un po’ diversa dalla intenzione di chi ha redatto il testo, ma non possiamo fare altrimenti per restituire corpo alla voce: quando la voce viene spinta all’esterno, mancando la risonanza corporea, la bocca diventa l’ombra del corpo che può produrre solo voce morta.
Sehnsucht nach dem Frühlinge (W. A. Mozart) - Video di Anna-Maria Hefele
• Nel video si dà rilievo all’apparato fonatorio e alle strutture muscolari che lo sostengono senza alcun commento sulla postura assolutamente perfetta di quello che possiamo vedere della cantante. Finiamo di registrare con una crescente indignazione l’assenza del corpo e l’assenza della relazione, scientificamente accertata da oltre 60 anni, tra ascolto e voce. Ma questo non ci sorprende! Perché davvero il piccolo mondo della otorinolaringoiatria ritiene che l’ascolto abbia a che fare solo con l’orecchio (confondendolo con l’udito). Noi sappiamo invece che, proprio come la voce, l’ascolto riguarda tutto il corpo. Ascoltiamo con il corpo e parliamo e cantiamo con il corpo.
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• Nel video si dà rilievo all’apparato fonatorio e alle strutture muscolari che lo sostengono senza alcun commento sulla postura assolutamente perfetta di quello che possiamo vedere della cantante. Finiamo di registrare con una crescente indignazione l’assenza del corpo e l’assenza della relazione, scientificamente accertata da oltre 60 anni, tra ascolto e voce. Ma questo non ci sorprende! Perché davvero il piccolo mondo della otorinolaringoiatria ritiene che l’ascolto abbia a che fare solo con l’orecchio (confondendolo con l’udito). Noi sappiamo invece che, proprio come la voce, l’ascolto riguarda tutto il corpo. Ascoltiamo con il corpo e parliamo e cantiamo con il corpo.
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“Nel greco antico il termine phoné indica la voce in quanto suono, prima di articolarsi nel linguaggio. Indica un luogo originario che precede qualsiasi intenzione di voler dire, di significare. Sulla scia delle sperimentazioni linguistiche delle avanguardie del ‘900 la voce intesa come phoné infrange nel secondo dopo guerra il legame indissolubile, radicato nella cultura occidentale, tra il significato delle parole e la sua dimensione sonora. I tre grandi artisti al centro di questa mostra si sono serviti dell’avvento delle allora nuove tecniche elettroniche di registrazione, manipolazione e montaggio del suono, per restituirlo alla sua entità di fatto sonoro. Non è un caso se la cantante mezzo soprano americano di origini armene Cathy Berberian e l’attore regista Carmelo Bene, muovendo da una ricerca sulla musicalità della parola, si siano riferiti all’Ulisse di James Joyce, rivoluzionaria opera letteraria in cui l’elemento linguistico-fonico prevale prepotentemente sul semantico, e se per ragioni analoghe, Demetrio Stratos, musicista e cantante di origine greca, non è rimasto insensibile alle ricerche sul linguaggio del poeta e drammaturgo Antonin Artaud e del drammaturgo irlandese Samuel Beckett. (…) Nonostante ambiti del tutto diversi, della performance e della poesia sonora per Stratos, della sperimentazione musicale e dell’opera classica per Berberian, del teatro per Bene, le ricerche dei tre artisti muovono nella stessa direzione, verso la messa in opera di una nuova vocalità pensata oltre i limiti dell’impossibile”. (Tratto da una didascalia della mostra).
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Demetrio Stratos soffia in una bambolina di porcellana
durante la registrazione di Metrodora
durante la registrazione di Metrodora
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O TZITZERAS O MITZERAS - live 1978
Video Demetrio Stratos
Video Demetrio Stratos
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“Se, come affermano gli antropologi, è l’atto di lasciare e non quello di afferrare che ci distingue dai nostri amici animali, questo lasciare il sentiero della parola per tornare indietro là dove la sua mancanza continua a testimoniare l’amore per Euterpe, segna un punto a favore dell’intelligenza dell’uomo nel reclamare un mondo a sua immagine” (G. E. Simonetti).
Demetrio risponde: “Sono d’accordo ‘in ogni caso, amorevolmente progredire, amorevolmente regredendo’”.
Demetrio risponde: “Sono d’accordo ‘in ogni caso, amorevolmente progredire, amorevolmente regredendo’”.
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DIPLOFONIA, TRIPLOFONIA, INVESTIGAZIONI - live 1978
Video Demetrio Stratos
Video Demetrio Stratos
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• scientifico, per conoscere lo strumento che si suona e come funziona;
• psicoanalitico-filosofico-antropologico per il lavoro sulla voce e sulla linguistica che è fondamentalmente un lavoro di pensiero;
• etnomusicologico, per sapere come cantano gli altri popoli, che tipo di linguaggio utilizzano, come utilizzano la voce e il proprio corpo.
• psicoanalitico-filosofico-antropologico per il lavoro sulla voce e sulla linguistica che è fondamentalmente un lavoro di pensiero;
• etnomusicologico, per sapere come cantano gli altri popoli, che tipo di linguaggio utilizzano, come utilizzano la voce e il proprio corpo.
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CANTO DEI PASTORI - live 1978
Video Demetrio Stratos
Video Demetrio Stratos
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Cathy Berberian posa con il vestito di scena di Stripsody (ca. 1966)
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OMAGGIO A JOYCE 1958
Video Luciano Berio
Video Luciano Berio
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STIPSODY
Cathy Berberian - Solo voce
Cathy Berberian - Solo voce
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SEQUENZA III
Luciano Berio, per voce femminile
Luciano Berio, per voce femminile
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DA MONTEVERDI AI BEATLES
Concerto di Cathy Berberian
Teatro Elfo, Milano 24 Gennaio 1981
Concerto di Cathy Berberian
Teatro Elfo, Milano 24 Gennaio 1981
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PINOCCHIO
Video, Carmelo Bene - 1981
Video, Carmelo Bene - 1981
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“Là dov’era in quell’istante, là dov’era per un poco, fra quell’estinzione che ancora brilla e questo schiudersi che s’arresta, io posso venire all’essere con lo sparire del mio detto”. J. Lacan
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“I significati li lascio ai significati; io mi occupo dei significanti”.
“Il grande teatro è quanto non è comprensibile”.
“Il linguaggio crea dei guasti, anzi è fatto solo di buchi neri”.
“Non posso dare appuntamenti con l’ovvio, con il reale, con il logico, con il razionale”.
A una quindicenne napoletana che gli chiede cosa deve fare per non esistere risponde: “Deporre in primo luogo la volontà, che ha a che fare con la coscienza, non con la coscienza in sé, il sé non ha coscienza. Lei non ha che da essere incosciente, cerchi l’abbandono ma non si può nemmen trovarlo perché quando noi siamo nell’abbandono non ce ne avvediamo: noi siamo l’abbandono ma essendo noi l’abbandono non siamo più noi”.
“Mi interessa il linguaggio patologico”.
“Il grande teatro è quanto non è comprensibile”.
“Il linguaggio crea dei guasti, anzi è fatto solo di buchi neri”.
“Non posso dare appuntamenti con l’ovvio, con il reale, con il logico, con il razionale”.
A una quindicenne napoletana che gli chiede cosa deve fare per non esistere risponde: “Deporre in primo luogo la volontà, che ha a che fare con la coscienza, non con la coscienza in sé, il sé non ha coscienza. Lei non ha che da essere incosciente, cerchi l’abbandono ma non si può nemmen trovarlo perché quando noi siamo nell’abbandono non ce ne avvediamo: noi siamo l’abbandono ma essendo noi l’abbandono non siamo più noi”.
“Mi interessa il linguaggio patologico”.
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MACBETH HORROR SUITE
Video Carmelo Bene
Video Carmelo Bene
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La nascita della ‘macchina attoriale’
“In soccorso giunge, dunque, la musica, non per riavvalorare il potere musicale della parola quanto piuttosto per evocare l’alone poetico della Voce, accogliendo il senso conferito da Heidegger alla poesia, intesa come “la parola pura del parlare mortale”, laddove il parlare quotidiano sarebbe una poesia “dimenticata e come logorata, nella quale a stento è dato ancora percepire il ‘suono di un autentico chiamare’”. Al suono di questo “autentico chiamare” si potrebbero riferire le origini di una vocalità che si forma attraverso l’ascolto di quei richiami, per l’appunto, che abitavano il proprio territorio di origine, il Salento, che ne stabilivano le coordinate spaziali in termini economici quando, in tempi non così remoti, attraverso il canto ci si annunciava da lontano per farsi riconoscere o quando si usava il cantare per farsi intendere tutte le volte in cui le parole del racconto non erano più sufficienti a farsi comprendere. Il canto così inteso fa prendere forma agli affetti, si fa epos, e “quello che canta nell’Epos” afferma Bene con Pierre Klossowski, è la risonanza, cioè l’Eco dei fatti: “Sono le parole che lacrimano, non i sentimenti, non i fatti”. Questo concetto fondamentale Bene lo trasferisce nel suo teatro producendo sulla scena una Eco che precede la Voce, la qual cosa avviene quando tecnicamente nella registrazione della voce sul nastro magnetico si “destampa” sulle frequenze alte. Così viene espropriato l’io-parlo, il Sé-dicente, dal corpo dell’attore e così affrancata dalla mediazione linguistica “la Voce cerca il suo ascolto” e lo trova, senza pericoli di rimando a un codice comune, in un androide, inanimato, oltreumano, sordomuto”. (Tratto dall’articolo Carmelo Bene: Ah soltanto esser solo una voce! di Francesca Rachele Oppedisano, pubblicato sul catalogo della mostra).
“In soccorso giunge, dunque, la musica, non per riavvalorare il potere musicale della parola quanto piuttosto per evocare l’alone poetico della Voce, accogliendo il senso conferito da Heidegger alla poesia, intesa come “la parola pura del parlare mortale”, laddove il parlare quotidiano sarebbe una poesia “dimenticata e come logorata, nella quale a stento è dato ancora percepire il ‘suono di un autentico chiamare’”. Al suono di questo “autentico chiamare” si potrebbero riferire le origini di una vocalità che si forma attraverso l’ascolto di quei richiami, per l’appunto, che abitavano il proprio territorio di origine, il Salento, che ne stabilivano le coordinate spaziali in termini economici quando, in tempi non così remoti, attraverso il canto ci si annunciava da lontano per farsi riconoscere o quando si usava il cantare per farsi intendere tutte le volte in cui le parole del racconto non erano più sufficienti a farsi comprendere. Il canto così inteso fa prendere forma agli affetti, si fa epos, e “quello che canta nell’Epos” afferma Bene con Pierre Klossowski, è la risonanza, cioè l’Eco dei fatti: “Sono le parole che lacrimano, non i sentimenti, non i fatti”. Questo concetto fondamentale Bene lo trasferisce nel suo teatro producendo sulla scena una Eco che precede la Voce, la qual cosa avviene quando tecnicamente nella registrazione della voce sul nastro magnetico si “destampa” sulle frequenze alte. Così viene espropriato l’io-parlo, il Sé-dicente, dal corpo dell’attore e così affrancata dalla mediazione linguistica “la Voce cerca il suo ascolto” e lo trova, senza pericoli di rimando a un codice comune, in un androide, inanimato, oltreumano, sordomuto”. (Tratto dall’articolo Carmelo Bene: Ah soltanto esser solo una voce! di Francesca Rachele Oppedisano, pubblicato sul catalogo della mostra).
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Testamento vocale
Mi sento cadere
nella profonda tana del coniglio
dentro la terra meravigliosa della musica
da quando ho sette anni.
Mi imbattei in una pila di 78 giri
accanto ad un Victrola inutilizzato (come accade per le parole datate?)
e per prima cosa ricordo fra tutte la voce di Tito Schipa
cantare la Cavatina de "Il barbiere di Siviglia",
e fui rapita! Da allora la musica volle dire principalmente canto, e all’inizio prevalentemente Opera.
Più o meno nello stesso momento ho promesso a me stessa di essere una cantante.
La musica era l'unico modo per potere sfuggire alla banalità di una esistenza medio-borghese di bassa lega.
Nel privato della mia stanza potevo essere una principessa africana,
o una fiera gitana, o una cortigiana con un cuore d'oro (non ditelo a mia madre!).
Più tardi, quando iniziai a cantare insieme con le stelle dell'Opera, era la mia occasione per esprimere quei sentimenti sfumati, ma primordiali che avevo represso in un corpo sottile e indefinito.
Poco a poco, la musica mi ha dato un'identità - tutta mia - non come figlia di qualcuno, sorella o nipote. La musica mi ha dato una professione. Mi ha portato al grande amore e quando è finito, ha riempito il vuoto con una spinta a vivere più pienamente come persona, e non come un'appendice. Mi ha liberato come donna, ha forgiato la mia indipendenza di mente e spirito. La musica ha stimolato la mia creatività e mi ha dato un senso di fiducia e serenità interiore.
La musica è l'aria che respiro e il pianeta che abito. Il solo modo
in cui posso pagare il mio debito con la musica è portarla agli altri,
con tutto il mio amore.
Cathy Berberian
(Febbraio 1983)
Mi sento cadere
nella profonda tana del coniglio
dentro la terra meravigliosa della musica
da quando ho sette anni.
Mi imbattei in una pila di 78 giri
accanto ad un Victrola inutilizzato (come accade per le parole datate?)
e per prima cosa ricordo fra tutte la voce di Tito Schipa
cantare la Cavatina de "Il barbiere di Siviglia",
e fui rapita! Da allora la musica volle dire principalmente canto, e all’inizio prevalentemente Opera.
Più o meno nello stesso momento ho promesso a me stessa di essere una cantante.
La musica era l'unico modo per potere sfuggire alla banalità di una esistenza medio-borghese di bassa lega.
Nel privato della mia stanza potevo essere una principessa africana,
o una fiera gitana, o una cortigiana con un cuore d'oro (non ditelo a mia madre!).
Più tardi, quando iniziai a cantare insieme con le stelle dell'Opera, era la mia occasione per esprimere quei sentimenti sfumati, ma primordiali che avevo represso in un corpo sottile e indefinito.
Poco a poco, la musica mi ha dato un'identità - tutta mia - non come figlia di qualcuno, sorella o nipote. La musica mi ha dato una professione. Mi ha portato al grande amore e quando è finito, ha riempito il vuoto con una spinta a vivere più pienamente come persona, e non come un'appendice. Mi ha liberato come donna, ha forgiato la mia indipendenza di mente e spirito. La musica ha stimolato la mia creatività e mi ha dato un senso di fiducia e serenità interiore.
La musica è l'aria che respiro e il pianeta che abito. Il solo modo
in cui posso pagare il mio debito con la musica è portarla agli altri,
con tutto il mio amore.
Cathy Berberian
(Febbraio 1983)
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LA BELLEZZA DELLA STORIA DI TERRAMARE. RAPITA DALL’INDICIBILE BELLEZZA di Concetta Turchi. Anno 2008
LA BELLEZZA DELLA STORIA DI TERRAMARE
RAPITA DALL’INDICIBILE BELLEZZA
Concetta Turchi
“La mia felicità non ha bisogno
di uno scopo più elevato che la giustifichi.
La mia felicità non è il mezzo per alcun fine.
È essa stessa il fine”.
Ayn Rand
di uno scopo più elevato che la giustifichi.
La mia felicità non è il mezzo per alcun fine.
È essa stessa il fine”.
Ayn Rand
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Possessione di Concetta Turchi
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In realtà, ogni spazio umano rimanda a un dentro e ad un fuori, tanto da poter dire che in questo risieda la sua specificità, umana appunto. Il dentro... luogo intimo del sentire e del forgiare immagini, trova il suo completamento nel fuori... luogo vagabondo dove mettere in comune i giochi della nostra fantasia; luogo dove nulla può essere trattenuto, pena il difetto di conoscenza.
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L’uno immagine dell’altra, essi fanno della ricerca il senso del loro vivere grazie alla presenza di una donna, mai divenuta moglie, in grado di tenere il rapporto con l’uomo, senza legarlo a sé in un eterno ritorno. Una donna la cui bella pretesa è che Lui esca dentro, nell’interiorità di Lei, nello stesso istante in cui Lei può entrare fuori nel movimento audace di Lui. È quanto va accadendo nelle loro realtà psichiche, durante la materialità dell’amplesso, allorquando i loro incontri diventano possibilità di trasformazione.
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L’essere “presi” o “colpiti” da un dio equivale a essere portati nel gioco erotico del rapporto uomo-donna. Zeus prende le sembianze degli animali più strani per possedere le donne che desidera, come a dire che la conoscenza è legata alla necessità - desiderio o esigenza che sia - di trovare un modo, per entrare in relazione, che passi direttamente per il corpo saltando ogni livello di razionalità.
Cercare questo modo e... trovarlo: in questo la possessione diventa la suprema forma di conoscenza; una conoscenza che rimanda immediatamente alla felicità dell’Essere.
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Abitatrici dei luoghi umidi, le fonti “dalle belle acque”, le Ninfe agivano la loro potenza improvvisamente, catturando e trasformando la loro preda. Nella loro duplice funzione possibile, salvifica e distruttiva, esse andavano a segnare la linea di confine tra l’età fanciulla e il divenire donna: è la “fanciulla pronta alle nozze”, materia fluida che fa agire ed è agita, sorgente attraverso cui la potenza di chi possiede si esprime.
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Conoscenza liquida, quella oracolare, così intimamente legata alla scoperta della sessualità, in più di una occasione l’opportunista Apollo tenterà di usurpare per apporvi il metro, ciò che scandisce e separa. Controllo sulla Ninfa, che è sì fonte di vita, ma anche sorgente di un possibile pericolo perché nel provocare l’agitazione dei sensi, può fare emergere un’oscuro delirio, fino a far precipitare nella mania erotica. Ma... “... colui che ha ferito guarirà”, questo l’oracolo di Apollo, quando si appropria del sapere fluido delle Ninfe. A ribadire che la possessione, come trasformazione che genera la conoscenza, può essere al servizio della cura psichica. Prepotente si affaccia l’immagine dei tarantolati che escono dal loro stato di invasamento guidati dal ritmo indiavolato imposto dai musici: la musica, che esce dentro ed entra fuori, riporta all’interno il ritmo naturale del tempo allineando gli eventi interni con quelli esterni. Ecco ciò che può accadere quando la conoscenza si riappropria della sapienza del corpo.
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Divenute pericolose per questa facoltà di condurre fuori di sé chi presta loro ascolto, esse furono relegate ai confini del mondo, portate altrove... e quindi rimosse... e nascoste allo sguardo... e quindi negate. Da quei luoghi il loro canto continua ad irradiarsi per incantare quei cercatori d’oro che reclamano la felicità come occasione di conoscenza.
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Anche la Ninfa vive ai margini di un passaggio biologico e psichico insieme, l’adolescenza, e in quanto tale incarna la fanciulla indomita. Essa è portatrice non solo di richieste, ma, se validamente nutrita, di fluida conoscenza: può perdere la sua vitalità con invidiosi uomini-vampiro che hanno bisogno di svuotare l’altro per arricchirsi.
Ma se una Sirena e una Ninfa incontrano il vero Eroe, in grado di ascoltarle e trarle fuori dalla seduzione sterile dell’immobilismo, l’Eroe può diventar poeta nell’accettazione di farsi possedere da queste donne ai margini del mondo, trasformandole in donne-ispiratrici. Saranno proprio queste Muse di Terramare ad operare la trasformazione.
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Ed è di fronte al dono che può scattare la volontà della bellezza: le possibilità di mutamento che si attivano diventano l’anticamera dell’arte magica delle trasformazioni. La magia è un potere, ma se questo potere viene esercitato per rimanere dentro, diventa mero fatto personale e quindi esercizio di potere. L’etica della bellezza pretende che l’arte magica sia fatta per essere portata fuori, in uno spazio temporale dove il dono attiva quel volere che dà luogo a conseguenze... altre.
Ed è allora che la bellezza può esprimersi attraverso la capacità di dare forma ad una pluralità di immagini, come se fossero capitoli di un unico libro o lembi di terra emersi in un unico grande mare calmo.
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Quando il controllo viene meno, la conoscenza può farsi strada in quell’intervallo tra terra e mare che è ponte silenzioso teso tra le diversità. In questa storia di terramare si può incontrare il silenzio pieno della parola e con esso la musica, fluttuante e in perenne viaggio con il divenire umano, senza alcuna necessità di addomesticamento.
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Tracce, a volte evidenze, di una differenza che espone gli uomini alla disperazione nera di non poter com-prendere cotanta diversità.
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Terramare di Concetta Turchi
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Kandinsky. LA CORALITA’ DEI COLORI E DELLE FORME di Valeria Amato. Anno 2015
KANDINSKY. LA CORALITA’ DEI COLORI E DELLE FORME
Valeria Amato
“L’arte non è una questione di elementi formali,
ma di un desiderio, un contenuto interiore
che determina prepotentemente la forma”.
ma di un desiderio, un contenuto interiore
che determina prepotentemente la forma”.
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Mosca I, 1916
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Senza titolo, 1923
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Composizione X, 1939
BIBLIOGRAFIA
E. DI STEFANO, Kandinsky, Giunti Ed., Firenze 1993.
M. CHINI, Kandisky, Giunti Ed., Firenze 1998.
M. M. MOELLER E T. SPARAGNI, Il Cavaliere Azzurro. Kandinsky, Marc e i loro amici, Mazzotta Ed., Milano 2003.
N. KANDINSKY, Kandinsky e io, Abscondita Ed., Milano 2006.
V. KANDINSKY, Sguardi sul passato, SE Ed., Milano 1999.
V. KANDINSKY, Lo spirituale nell’arte, SE Ed., Milano 1989.
V. KANDINSKY - F. MARC, Il cavaliere azzurro, SE Ed., Milano 1988.
V. KANDINSKY, Il suono giallo e altre composizioni sceniche, Abscondita Ed., Milano 2002.
V. KANDINSKY, Sounds, New Haven and London Yale University Ed., Londra 1981.
V. KANDINSKY, Punto, linea, superficie, Adelphi Ed., Milano 1993.
V. KANDINSKY, Tutti gli scritti, Feltrinelli Ed., Milano 1989.
V. KANDINSKY - A. SCHÖNBERG, Musica e pittura, SE Ed., Milano 2002.
U. BECKS-MALORNY, Kandinsky, Taschen Ready-made Ed., Milano 1993.
S. DAVIDSON (a cura di), Kandinsky e l’avventura astratta, Catalogo della Mostra, Villa Manin Arte Ed., Passariano (UD), dal 29 Marzo al 27 Luglio 2003.
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MATISSE E LO STUPORE DELLA VISIONE INASPETTATA
di Claudia Amato, Shelly Bisirri, Cinzia Sersante, ANNO 2015
MATISSE E LO TUPORE DELLA VISIONE INASPETTATA
Claudia Amato, Shelly Bisirri, Cinzia Sersante
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H.É.B. Matisse, Il paravento moresco, 1921.
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Grazie alla ricerca di uno stile personale e alla voglia continua di esplorare nuove forme espressive, passa anche attraverso l’Impressionismo e il Puntinismo, arricchendo quest’ultimo di pennellate più ampie, fino a divenire uno dei principali esponenti del Fauvismo.
Matisse, definito il pittore del colore, si rivolge al lato espressivo delle tinte e racconta come per dipingere una scena autunnale non si affidi al ricordo delle tonalità bensì alla sensazione che esse gli hanno ispirato, quindi l’azzurro pungente di un cielo gelido e limpido potrà rappresentare l’autunno tanto quanto le sfumature del fogliame. La tendenza dominante del colore è di rendersi mezzo per raggiungere l’espressione, e ciò si realizza attraverso l’accordo cromatico, analogo a quello della composizione musicale.
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Il percorso della mostra ha reso evidente come le varie forme espressive sperimentate dall’artista si siano tradotte in uno stile assolutamente originale in continua evoluzione, proponendo in apertura opere caratterizzate da accostamenti di colori vivaci, come Gigli, Iris e Mimose (1913), per poi proseguire con quelle in cui si coglie la ricerca costante della semplicità delle forme che si allontanano sempre più dalla verosimiglianza. Un esempio è L’Italienne (1916), in cui i colori si scuriscono, i contrasti si fanno meno netti e la figura di donna bruna, dai tratti semplificati in poche pennellate, emerge con la sua veste chiara dall’ampio sfondo scuro. Potente è l’incontro con il Ritratto di Yvonne Landsberg (1914) dove i chiaroscuri e le linee geometriche traducono l’impatto delle maschere africane nella pittura.
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Matisse subisce fortemente l’influenza dell’arte dei popoli primitivi rimanendo affascinato dalle loro forme espressive incontaminate e semplici, come i motivi della cultura marocchina che si possono riconoscere nei ritratti per i quali Matisse dimostra una forte passione. In particolare non si allontana dalla costituzione anatomica del viso pur facendo nascere la somiglianza dalla particolare asimmetria di un volto, come nel Rifano in piedi (o Marocchino in verde 1912), Zohra in piedi (1912) e Zohra sulla terrazza (1912), dove gli sfondi sono assolutamente uniformi e gli arabeschi si concentrano rispettivamente sugli abiti, sul capo e sulla boule dei pesci, mentre è il colore a definire la forma a scapito della profondità, semplificando ulteriormente l’immagine. L’artista rappresenta anche il paesaggio marocchino, come nella particolare prospettiva de Lo stagno a Trivaux (1916), e contemporaneamente arricchisce gli interni con i motivi decorativi tipici del Nord Africa (sia nelle pareti come nei tappeti e nei tessuti) senza mai appesantire la composizione e in perfetta armonia con le figure umane. Meraviglioso esempio ne è Il paravento moresco (1920).
I quadri di Matisse divengono sempre più ricchi di particolari, che raccontano di una pienezza non ridondante ma collegata alla dimensione armoniosa delle linee e delle prospettive; ne Il paravento moresco infatti, le immagini delle due donne è come se fossero in primo piano rispetto agli altri elementi rappresentati, e questo grazie alla capacità dell’artista di mettere a fuoco ciò che parte dal suo sentire.
Queste vivide atmosfere ci hanno condotto sino alle sensuali odalische, di ispirazione araba, dipinte dopo il trasferimento dell’artista da Parigi a Nizza (1917). Riferendosi alla cospicua produzione a loro dedicata, al centro di una prolifica attività tra il 1919 e il 1929, Matisse le definisce:
“I frutti abbondanti di una nostalgia felice, di un bel sogno vivente e, insieme, di un’esperienza vissuta nell’estasi quasi completa dei giorni e delle notti, nell’incanto di quel clima straordinario”.
I quadri di Matisse divengono sempre più ricchi di particolari, che raccontano di una pienezza non ridondante ma collegata alla dimensione armoniosa delle linee e delle prospettive; ne Il paravento moresco infatti, le immagini delle due donne è come se fossero in primo piano rispetto agli altri elementi rappresentati, e questo grazie alla capacità dell’artista di mettere a fuoco ciò che parte dal suo sentire.
Queste vivide atmosfere ci hanno condotto sino alle sensuali odalische, di ispirazione araba, dipinte dopo il trasferimento dell’artista da Parigi a Nizza (1917). Riferendosi alla cospicua produzione a loro dedicata, al centro di una prolifica attività tra il 1919 e il 1929, Matisse le definisce:
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Particolare risalto è stato dato, nella mostra, ai bozzetti dei costumi e delle scene che Matisse realizza nel 1920 per il Balletto Russo Le Chant du rossignol di Sergej Diaghilev, unitamente ad alcuni costumi portati in scena.
Sul finire del percorso espositivo sono state proposte alcune tele in cui l’ambiente interno è in rapporto diretto col mondo esterno attraverso la raffigurazione di finestre aperte. Matisse non rifiuta la relazione tra interiorità soggettiva ed esteriorità oggettiva ma stabilisce una circolazione ‘interno-esterno’: “Se ho potuto riunire nel mio dipinto quel che è esterno, per esempio il mare, e quel che è interno, è perché l’atmosfera del paesaggio e quella della mia camera formano un tutt’uno... Non ho bisogno di avvicinare interno ed esterno, i due sono riuniti nella mia sensazione. Ho potuto associare la sedia che ho accanto nello studio alla nuvola in cielo, al fremito della palma sul bordo dell’acqua, senza sforzarmi di distinguere i luoghi, senza dissociare i diversi elementi del mio motivo che sono un tutt’uno nella mia mente”. Mediante un attento lavoro cromatico, Matisse attenua l’opporsi di ‘interno-esterno’, facendoci venire incontro il paesaggio che pare espandersi all’interno, attraverso la diffusione della luce, divenendo un tutt’uno con la tela. Bellissimi esempi ne sono Interno a Etretat (1920) con le sue molteplici tonalità di azzurro e Interno con fonografo (1934).
Chiude l’esposizione il famoso quadro I pesci rossi del 1911 (acquistato all’epoca dall’imprenditore russo Sergej Ivanovic Šuskin, che commissionò nel 1909 i celebri pannelli decorativi raffiguranti La danza e La musica) dove il punto di fuoco è sull’immagine centrale dei pesci che non riempiono l’insieme ma rendono la tela ricca di particolari pregnanti.
La mostra non segue un ordine cronologico, ma spazia in modo ‘disordinato’ da opere del 1903 fino al 1954, passando per numerosi studi a matita, carboncino e china, (come quelli dedicati a l’Ulisse di Joyce: Itaca del 1940 e al poema di Mallarmé L’Après-midi d’un faune del 1932) fino a giungere ai lavori in grafite su carta.
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Chiude l’esposizione il famoso quadro I pesci rossi del 1911 (acquistato all’epoca dall’imprenditore russo Sergej Ivanovic Šuskin, che commissionò nel 1909 i celebri pannelli decorativi raffiguranti La danza e La musica) dove il punto di fuoco è sull’immagine centrale dei pesci che non riempiono l’insieme ma rendono la tela ricca di particolari pregnanti.
La mostra non segue un ordine cronologico, ma spazia in modo ‘disordinato’ da opere del 1903 fino al 1954, passando per numerosi studi a matita, carboncino e china, (come quelli dedicati a l’Ulisse di Joyce: Itaca del 1940 e al poema di Mallarmé L’Après-midi d’un faune del 1932) fino a giungere ai lavori in grafite su carta.
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H.É.B. Matisse, I pesci rossi, 1911.
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Nel filmato assistiamo ancora alle molteplici versioni di un soggetto per giungere a quella definitiva: si tratta di versioni a tratti estremamente differenti tra loro, ma che costituiscono i numerosi e necessari passaggi per giungere alla rappresentazione finale, quella di un’architettura corporea fatta di forme che si incastrano e si sostengono l’un l’altra proprio come le componenti di un edificio in cui le parti hanno ciascuna la propria funzione specifica e fondamentale.
È il lavoro di amalgama degli elementi, attraverso un’attenta riflessione, a raggiungere l’effetto ultimo. Il dipingere e il creare sono per Matisse un lungo lavorìo di osservazione iniziale del modello o soggetto, che porta alla decisione dello schema cromatico da seguire. Dopo aver immaginato il quadro, l’artista si mette all’opera tenendo queste caratteristiche, insieme con la messa a fuoco, come tratti predominanti da seguire per indicare nell’immediato ciò che desidera trovare nell’opera compiuta, rappresentando il soggetto e non copiandolo: “Chiudete gli occhi e immaginate il quadro; poi mettetevi al lavoro... Dovete indicare immediatamente quel che vorreste trovare nell’opera compiuta. Durante il lavoro, tutto dev’essere rapportato a questa prima decisione, e nulla può esservi aggiunto”.![](http://arcoacrobata.it/e107_images/custom/rientro_B.gif)
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Matisse disegna le foglie via via che delinea i rami, facendosi pervadere e guidare dal sentimento (privo di ogni connotazione romantica): in tal modo inventa un proprio linguaggio in cui lo spessore dell’artista si misura con la quantità di nuovi segni plastici inseriti nell’opera. Per l’artista “l’espressione plastica” deve essere il fine della sua pittura, al pari dell’espressione lirica per il poeta: essa gli consente di raggiungere le proprie visioni interiori e dare loro vita con mezzi semplici e diretti. Questa concezione si collega all’estetica di Baudelaire condividendo con quest’ultimo anche la preferenza verso il colore, l’esigenza di rappresentare il reale mediante la memoria, l’importanza attribuita all’arabesco, la predominanza dell’esecuzione dell’insieme e un non-apprezzamento per il ‘finito’, elemento che lo avvicina a Cézanne da lui ammirato per aver aperto la strada verso la modernità “costruendo l’immagine su una materia saporosa di colore e di mestiere”.
Organizzando lo spazio della tela, Matisse dà piena voce all’espressione: “L’espressione secondo me risiede più nell’organizzazione del quadro che nella disposizione del soggetto”, facendola scaturire da un rapporto continuo tra il soggetto, le proporzioni offerte dalla tela e i rapporti cromatici. La sua è un’arte in continuo divenire, una sorta di ‘work-in-progress’. D’altra parte lo stesso artista più volte afferma di non ripudiare nessuno dei suoi quadri anche se sottolinea che, se dovesse rifarli, non seguirebbe mai la strada già percorsa poiché è alla perenne ricerca di quella potenza espressiva, raggiungibile di volta in volta attraverso le vie più disparate.
Ci avviciniamo in tal modo alla sua azione creativa intesa non come un dono innato ma il frutto di un lavoro assiduo per organizzare un insieme di emozioni, gesti, pennellate, suoni e parole da cui risulta l’opera d’arte. L’artista inizia la sua creazione mediante la ‘visione’, atto che richiede un grande impegno alla presenza, accompagnato dal coraggio necessario per liberarsi da quegli orpelli che impediscono di vedere le cose come se fosse la prima volta. Siamo grati a Matisse per averci riportato alla necessità di ‘vedere’ tutta la vita come quando si era bambini e ci si abbandonava alla meraviglia e allo stupore... un po’ come quello che si prova uscendo pregni da un bellissimo palazzo romano per sentire suonare una banda, tricolore, festosa e... appassionata.
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H.É.B. Matisse, Interno con fonografo, 1934.
BIBLIOGRAFIA
E. COEN (a cura di), Matisse. Arabesque, Catalogo della Mostra, Roma, Scuderie del Quirinale, 5 marzo al 21 giugno 2015, Skira Ed., Ginevra-Milano 2015.
G. CREPALDI, Matisse. Lo splendore abbagliante del colore dei fauves, Collana: Art Book, Leonardo Arte Elemond Editori Associati, Milano 1998.
D. FOURCADE (a cura di), Henri Matisse. Scritti e Pensieri sull’Arte, Collana: Carte D’artisti, traduzione di M.M. Lamberti, Abscondita Srl Ed., Milano 2003.
E. COEN (a cura di), Matisse. Arabesque, Catalogo della Mostra, Roma, Scuderie del Quirinale, 5 marzo al 21 giugno 2015, Skira Ed., Ginevra-Milano 2015.
G. CREPALDI, Matisse. Lo splendore abbagliante del colore dei fauves, Collana: Art Book, Leonardo Arte Elemond Editori Associati, Milano 1998.
D. FOURCADE (a cura di), Henri Matisse. Scritti e Pensieri sull’Arte, Collana: Carte D’artisti, traduzione di M.M. Lamberti, Abscondita Srl Ed., Milano 2003.
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Ruthy Alon e “L’Intelligenza del Movimento”® L’AMICO RITROVATO... di Concetta Turchi. Anno 2014.
“Ossa per la Vita”®... che passione! LA LINEA NEL MOVIMENTO di Concetta Turchi. Anno 2014
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L’AMICO RITROVATO...
... sulla via delle “possibilità delle possibilità”
... sulla via delle “possibilità delle possibilità”
Concetta Turchi
“This is the nature of the organic logic:
if we don’t use our full potential,
even the limited part we do becomes difficult”.
(Ruthy Alon)
if we don’t use our full potential,
even the limited part we do becomes difficult”.
(Ruthy Alon)
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Melange di colori e odori da Gerusalemme di Concetta Turchi
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1) Il confronto con la forza di gravità (che ci attrae verso il centro della Terra) si riepiloga ad ogni passo: la pressione sul terreno data dal nostro peso corporeo evoca infatti una contropressione che solleva il corpo spingendolo in avanti. Tanto più unifichiamo tutto il corpo secondo una organizzazione che permette l’articolazione progressiva delle varie parti che cooperano tra loro secondo una proporzione armoniosa - cosa che è garantita dallo scheletro - più facile sarà questo movimento che scorrerà agevolmente da una polarità all’altra secondo un effetto domino.
2) Al centro di questo lavoro c’è dunque il concetto di pressione efficace per attivare l’effetto domino. Il linguaggio della pressione, tale da determinare il segnale per il rafforzamento osseo, ha una sua grammatica e sintassi che passa attraverso le caratteristiche quantitative e qualitative della forza: da un punto di vista quantitativo essa deve corrispondere al 20 per cento della capacità soggettiva di produrre pressione; da un punto di vista qualitativo la pressione deve essere data secondo quei criteri di ritmo ed elasticità in grado di riecheggiare il movimento biologico della vita proprio di ogni pulsazione e dettata da una alternanza di contrazione e rilasciamento: “L’alternanza tra il forte e il leggero è la natura del movimento organico”. Il rimbalzo ritmico dei talloni sul pavimento (chiamato affettuosamente PAM-PAM) con una modalità che richiama il battito cardiaco è uno dei processi più semplici ed efficaci per ottenere questo... ed è ogni volta sorprendente nei suoi effetti. “La pressione rafforza ogni contesto nella quale la applichiamo: per questo è importante come organizziamo il nostro allineamento quando riceviamo la pressione”: solo la pressione elastica che si propaga attraverso un corpo ben allineato determina un rinforzo delle ossa perché attraversa tutto lo scheletro coinvolgendo in progressione le varie parti (secondo l’effetto domino, appunto). Riportare questo apprendimento nel nostro modo abituale di camminare fa sì che la spinta del piede che fa il passo venga trasportata fino alla testa in modo uniforme, senza disperdersi in qualche punto non allineato, provocandone l’erosione.
3) Il concetto di pressione rimanda ad un altro cardine del programma Ossa per la Vita
: l’attivazione delle strategie di sicurezza, adottate per proteggere le articolazioni più vulnerabili, permette al corpo di sostenere senza alcun pericolo i movimenti dinamici. Ogni movimento, dal più semplice al più complesso, deve essere fatto in totale sicurezza perché solo quando il corpo si sente al sicuro può esplorare, apprendere da questa esplorazione e trarne gioia. L’utilizzo in vari modi di un telo morbido lungo 7 metri e largo 1, è una delle strategie più divertenti, efficaci... e anche suggestive, grazie alle onde di colore che si intersecano nell’aria.
4) Quindi il corpo in totale sicurezza può attivare quelle strategie di apprendimento proprie del metodo Feldenkrais
, la base formativa da cui Ruthy è partita. Non a caso i singoli lavori corporei vengono chiamati “processi” e non esercizi: nel “processo” si attiva un apprendimento che fa scoprire l’intelligenza del movimento e la sua innata capacità di trovare le soluzioni più efficienti per affrontare il mondo. Messo di fronte a diverse opzioni il nostro cervello sceglierà sempre la soluzione più efficiente possibile in quel dato momento. Ricordo ancora la meraviglia suscitata in me dalla conoscenza del concetto di “diplomazia neurologica”: con un piccolo stratagemma si mette in crisi il lato del corpo più competente per risvegliare conoscenze impensabili nel lato più problematico; insomma mettere in crisi quel saputello accentratore che è dentro ciascuno di noi per liberare capacità impensabili. Mi ha sempre colpito l’assonanza con il malato di mente come pecora nera (in quanto a competenze) circondato da un contesto familiare e/o sociale ipercompetente fino a diventare noiosamente saccente. O ancora il principio della “inibizione selettiva”, in cui si inibisce il movimento della parte in difficoltà per costringere... “il resto della famiglia” a cooperare.
5) Portare tutti gli aspetti sopramenzionati nella nostra camminata abituale vuol dire inserirli in un movimento naturale, con delle configurazioni che la Natura capisce: questo non solo apporta un valido nutrimento per le nostre ossa ad ogni passo, ma permette di riconoscere i due modi fondamentali che ha il nostro scheletro di organizzarsi ogni qual volta facciamo un passo nel terreno affondando il piede (asse), e nel momento in cui solleviamo il piede da terra per avanzare (onda). L’asse, che rinsalda la colonna vertebrale come una unità, permette tutti i movimenti antigravitazionali che raccolgono le sfide dinamiche sul piano verticale (camminare, saltare, alzarsi da seduti, salire le scale); l’onda garantisce l’effetto domino attraverso l’attivazione proporzionale di tutte le articolazioni. I “processi” delle tre camminate africane sono l’espressione di questa ricerca: non a caso le donne africane non conoscono l’osteoporosi.
2) Al centro di questo lavoro c’è dunque il concetto di pressione efficace per attivare l’effetto domino. Il linguaggio della pressione, tale da determinare il segnale per il rafforzamento osseo, ha una sua grammatica e sintassi che passa attraverso le caratteristiche quantitative e qualitative della forza: da un punto di vista quantitativo essa deve corrispondere al 20 per cento della capacità soggettiva di produrre pressione; da un punto di vista qualitativo la pressione deve essere data secondo quei criteri di ritmo ed elasticità in grado di riecheggiare il movimento biologico della vita proprio di ogni pulsazione e dettata da una alternanza di contrazione e rilasciamento: “L’alternanza tra il forte e il leggero è la natura del movimento organico”. Il rimbalzo ritmico dei talloni sul pavimento (chiamato affettuosamente PAM-PAM) con una modalità che richiama il battito cardiaco è uno dei processi più semplici ed efficaci per ottenere questo... ed è ogni volta sorprendente nei suoi effetti. “La pressione rafforza ogni contesto nella quale la applichiamo: per questo è importante come organizziamo il nostro allineamento quando riceviamo la pressione”: solo la pressione elastica che si propaga attraverso un corpo ben allineato determina un rinforzo delle ossa perché attraversa tutto lo scheletro coinvolgendo in progressione le varie parti (secondo l’effetto domino, appunto). Riportare questo apprendimento nel nostro modo abituale di camminare fa sì che la spinta del piede che fa il passo venga trasportata fino alla testa in modo uniforme, senza disperdersi in qualche punto non allineato, provocandone l’erosione.
3) Il concetto di pressione rimanda ad un altro cardine del programma Ossa per la Vita
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4) Quindi il corpo in totale sicurezza può attivare quelle strategie di apprendimento proprie del metodo Feldenkrais
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5) Portare tutti gli aspetti sopramenzionati nella nostra camminata abituale vuol dire inserirli in un movimento naturale, con delle configurazioni che la Natura capisce: questo non solo apporta un valido nutrimento per le nostre ossa ad ogni passo, ma permette di riconoscere i due modi fondamentali che ha il nostro scheletro di organizzarsi ogni qual volta facciamo un passo nel terreno affondando il piede (asse), e nel momento in cui solleviamo il piede da terra per avanzare (onda). L’asse, che rinsalda la colonna vertebrale come una unità, permette tutti i movimenti antigravitazionali che raccolgono le sfide dinamiche sul piano verticale (camminare, saltare, alzarsi da seduti, salire le scale); l’onda garantisce l’effetto domino attraverso l’attivazione proporzionale di tutte le articolazioni. I “processi” delle tre camminate africane sono l’espressione di questa ricerca: non a caso le donne africane non conoscono l’osteoporosi.
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LA FORMAZIONE
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Vista di Gerusalemme dal Monte degli Ulivi di Concetta Turchi
LA POSTURA ERETTA E IL CAMMINO VERSO L’ASCOLTO
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INSEGNARE E FORMARE
Insegnare
Come ho già detto, ho cominciato l’insegnamento di Bones for Life
nel 2001, ma solo nel 2003, insegnando da sola, ho potuto integrare i vari livelli della mia ricerca. In quei primi anni, in parallelo alla mia formazione personale, ho allevato un gruppo di lavoro che mi ha seguito nel tempo e ho potuto verificare l’importanza di una alfabetizzazione psicocorporea attraverso la quale il corpo scopre la possibilità di un apprendimento naturale legato alla intelligenza del nostro Sistema Nervoso che semplicemente, messo di fronte a più opzioni, sceglie quella più funzionale, naturalmente collegata a quel principio evolutivo insito nella vita stessa: tuttavia ho anche avuto modo di verificare più e più volte che l’accettazione psicologica di tale semplicità è tutta un’altra storia.
Andavo scoprendo come le caratteristiche fondamentali di questo metodo si accordassero perfettamente con la mia ricerca sulla integrazione psicocorporea, concretizzatasi con il metodo Tomatis
ma iniziata anni prima quando avevo scoperto che all’interno del lavoro psicoterapeutico era più importante come dicevo le cose (con che voce) piuttosto che quello che dicevo. Negli anni ho collegato il lavoro di Bones for Life
con il lavoro dell’AudioPsicoFonologia ed è nato il corso annuale “Ossa per Cantare”: alla fine di ogni processo c’era non solo il momento di ascolto sul modo di stare in piedi e/o camminare, ma di come questo modo potesse riverberare sulla voce. A volte la continuità dell’emissione vocale poneva l’accento sulla raggiunta continuità di un movimento e la facilitava: straordinario a questo proposito la ricerca della continuità del filo sonoro nel venire in piedi da sdraiati. Quando cominciai nel 2005 il corso Ossa per Cantare, la locandina di presentazione del Corso così recitava:
“Il corso Ossa per Cantare nato dall'incontro del metodo Tomatis
con quello di Ruthy Alon Ossa per la Vita
, si sviluppa dall'assunto che lo scheletro è uno strumento di armonia e la voce ne è l'espressione. Attraverso il miglioramento della postura e della capacità di ascolto è possibile ritrovare una voce che danza all'interno di un armonioso e potente gesto globale: quando il movimento e il suono creano l'immagine, il camminare diventa un incedere e il parlare può diventare canto”.
Ovviamente non apportavo alcuna modifica ai “processi”, ma mi limitavo ad inserire qui e là delle emissioni vocali a bocca chiusa per rinforzare il lavoro fatto e poi dei vocalizzi alla fine di ogni sessione: ascoltare il cambiamento delle sonorità con lo scheletro liberato era davvero peculiare. Il rimbalzo sui talloni (PAM-PAM) accompagnato dalla emissione sonora secondo le scale armoniche è una fonte di grande vitalità: mentre la pressione dei piedi contro la terra al ritmo del battito cardiaco genera una contropressione che cerca l’allineamento, il suono fa i suoi giri ampliando il senso di questo allineamento e potenziando quanto raggiunto attraverso i processi. È questo doppio movimento, ritmico e sonico al contempo, a determinare a mio parere quello che Ruthy chiama “ottimismo biologico”: quella risposta cellulare attiva sempre pronta a rispondere alla vita.
I risultati sono stati sempre significativi sia a livello individuale che di gruppo. Sul piano individuale mi piace per prima cosa parlare di una donna e un uomo, entrambi sulla cinquantina. Patrizia, donna assai affermata nel suo lavoro di archeologa, era costantemente divisa tra una efficiente cerebralità e una emozionalità scomoda; qualche anno prima aveva avuto una brutta caduta da cavallo che aveva comportato la frattura composta di una vertebra dorsale. Dopo soli due anni di lavoro con Bones, quando aveva portato all’ortopedico il nuovo esame radiologico, questi non aveva creduto ai suoi occhi: “Non è possibile! Sembra lo scheletro di una ventenne”, aveva detto. Non solo erano scomparse le tracce della lesione, ma anche i segni di osteoporosi presenti nelle radiografie precedenti. Patrizia aveva raccontato all’ortopedico del lavoro corporeo fatto con me, ma lui si era chiuso all’ascolto: accade sovente che i medici si chiudano nell’empireo dei loro studi accademici. La cosa più bella per me è stata la scelta successiva di Patrizia di dare spazio ad un desiderio che aveva inseguito da molti anni: fare un corso non professionale di danza classica. Ebbene, trovò una insegnante che non si spaventava di fronte ad allieve non proprio di primo pelo e la gioia di quella possibilità rimase impressa nel suo corpo. Patrizia ha continuato a frequentare i miei corsi per diversi anni. Francesco era venuto per la prima volta con una grave compromissione del tratto cervicale della colonna legata ad una “ernia del disco” che gli provocava una evidente limitazione della escursione dei movimenti cui si aggiungeva un grande dolore. Uomo estremamente razionale, portava dentro di sé un sentimento profondo di ineluttabilità di fronte agli eventi. Quando lavorava a terra era costretto a mettere numerosi cuscini sotto la testa e procedeva con grande cautela anche perché un ortopedico lo aveva spaventato intimandogli la eventualità di un intervento chirurgico. Dopo appena un anno di lavoro era riuscito a poggiare la testa a terra senza alcun cuscino, i movimenti erano diventati più ampi e sicuri e aveva ripreso addirittura ad andare in moto; anche il suo tono dell’umore era decisamente migliorato. Non l’ho più rivisto dopo quell’anno, ma questa scelta non mi ha sorpreso affatto: nella sua vita era stato costretto a scegliere numerose volte (e tra l’altro, come attivista politico, di questa costrizione aveva fatto un baluardo), ma in fondo non era mai stato abituato a scegliere con il corpo per il corpo. A volte non si è pronti per essere liberi. Sia con Patrizia che con Francesco l’utilizzo attento delle strategie di sicurezza e la estrema accortezza nella proposizione di tutte le sequenze dei processi proposti, hanno permesso di tracciare le vie dell’apprendimento.
Altri aspetti più particolari per le loro connessioni psicosomatiche, e ancora in corso di elaborazione, si sono presentati alla mia attenzione: come quello di una giovane donna balbuziente, Debora, che riusciva a migliorare sensibilmente la balbuzie ogni volta che, grazie al rimbalzo sui talloni, riprendeva il contatto con la terra; oppure quello di una ragazza, Valeria, che aveva sempre crisi di asma quando faceva “processi che attivavano l’onda” e scoprire che era necessario riportarla all’asse per permettere al suo corpo di trovare da solo una via di uscita da quella costrizione. O ancora il caso di Shelly, colpita da un improvviso calo dell’udito all’orecchio sinistro, probabilmente su eziologia virale, con la comparsa di un certo numero di acufeni particolarmente assordanti che suonavano a frequenze differenti. Abbiamo scoperto come in particolare il lavoro sulle anche e il loro riallineamento determinasse una riduzione drastica degli acufeni: già dopo pochi mesi di lavoro si erano ridotti stabilmente sia di numero che di intensità e questo ha comportato di riflesso anche un certo recupero della funzione uditiva. Sarà stato per questa ricerca condotta insieme, o per i suoi trascorsi di sportiva estremamente vivace e curiosa (ha fatto per anni ciclismo a livello agonistico), ha poi scelto di diventare una Insegnante Ossa per la Vita
(come Valeria e molti altri, del resto).
Per non parlare poi dei cambiamenti profondi dell’intero gruppo nel modo di camminare, di correre, di stare in piedi, dei livelli di energia ritrovati: anno dopo anno il movimento dei loro corpi diventava più libero e proprio tale liberazione sembrava reclamare costantemente qualcosa di nuovo che mi costringeva a cercare nel mio lavoro di insegnante prospettive continuamente diverse.
È solo da un anno che ho cominciato l’insegnamento di Chairs-Sedie
, ma già ne sto vedendo gli effetti sia sul piano individuale che di gruppo. La possibilità di navigare nella trasmissione della forza anche da seduti, data dall’impatto dei piedi in continuo contatto con il pavimento, conferisce una potenza difficile da dimenticare. Grazie ai piedi lo scheletro si trova in una costante traiettoria dinamica che permette di far passare le linee di forza, cariche di potere dinamico, in modo tale da evitare il collassamento dei corpi vertebrali in punti nevralgici e da promuovere l’allineamento dell’asse rafforzandolo: è in questo modo che la passività del sedere su una sedia si trasforma in una incredibile opportunità di restaurare l’armoniosa coordinazione del movimento.
Formare
Nel momento in cui, nel 2007, divenni Trainer Training di Bones for Life
, decisi da una parte di continuare ad insegnare nel mio corso annuale Ossa per Cantare (diviso in tre step di venti ore di insegnamento ciascuno); dall’altra di fare una volta all’anno i Corsi di Formazione intensivi Bones for Life
(organizzati in tre giorni consecutivi oppure in due week-end) aperti a coloro che volevano diventare insegnanti del metodo. Un piccolo plotone di persone che mi aveva seguito in quegli anni, con mia grande gioia, decise di fare la formazione. Negli anni sono venute persone con formazioni assai diverse (laureati in Scienze Motorie e in Psicologia, sportivi, Insegnanti Feldenkrais, ecc.) e fino a questo momento ho formato una ventina di Insegnanti. Ho potuto verificare come alcuni aspiranti, pur venendo da esperienze formative importanti ed affini (Feldenkrais), non avessero ancora integrato bene nel camminare la coordinazione gambe-braccia, o muovessero assai poco il loro torace che continuava ad essere per lo più una gabbia che chiudeva il loro respiro e i loro pensieri. È stato davvero interessante lavorare con loro perché mi ha consentito di mettere ancora più a fuoco l’importanza di quella parte del lavoro di Bones for Life
che si fa in piedi: portare il lavoro fatto a terra (nel laboratorio di apprendimento) alla stazione eretta e nei movimenti naturali, ha una funzione, per la sua dinamicità, fortemente integrativa... talmente integrativa che in poco più di un anno soprattutto una di loro, Luisa, ha trovato naturalmente la tanto agognata camminata controlaterale, cosa mai raggiunta nei lunghi anni di formazione Feldenkrais
. Grazie a questi corsi di formazione ho scoperto come l’insegnamento abbia una funzione fortemente attivante per il corpo, e quindi la psiche, di chi insegna: costruire la intelligibilità del processo attraverso il piano verbale equivale a fare quel processo... e a gustarne sottilmente gli effetti!
In questa ottica è stato davvero molto importante decidere di fare il mio primo Didattico come Trainer Training nel 2012. Quando ho scritto a Ruthy per annunciarle questa decisione lei mi ha incoraggiato in modo semplice ed efficace: “This is an exciting part for the creativity of the trainers...” (“Questa è una parte davvero eccitante per la creatività dei Trainers”). Aveva ragione. Ho dovuto pensare ad un modo intrigante per mettere insieme l’insegnamento, la formazione, la serietà e il divertimento legato all’apprendimento e nel mentre facevo questo scorgevo nuovi livelli e nuove modalità di sintesi. E in quel momento ho compreso una volta di più perché Movement Intelligence
non poteva che essere un lavoro in continuo rimaneggiamento, come la architettura organica di Wright: la creatività del Maestro si sviluppa grazie alla continua interazione con gli allievi.
Alcuni degli Insegnanti che si sono formati con me hanno cominciato a lavorare nel mio studio (Musicalificio Grande Blu) con l’idea comune di costituire un gruppo attivo di ricerca sui possibili campi di applicazione di questo metodo. Abbiamo avuto così la possibilità di riflettere insieme su come seguire situazioni molto complesse. Un esempio fra tutti è quello di una donna colpita da metastasi ossee: Maria si muoveva inizialmente solo grazie all’aiuto di un tutore e non riusciva, seduta su una sedia, neppure a poggiare il piede a terra dal lato colpito. Dopo tre anni di lavoro corporeo integrato con l’alimentazione, Maria cammina senza alcun tutore e, soprattutto non è più claudicante; le ultime risonanze hanno rilevato che le metastasi sono state circoscritte. Ha iniziato anche un percorso psicoterapeutico.
Non è stato facile costruire un gruppo di lavoro omogeneo che considerasse l’umiltà dell’insegnamento come un valore, ma ora questi Insegnanti stanno iniziando a portare avanti le loro ricerche in modo più autonomo: l’approfondimento sui metodi di valutazione degli effetti di Ossa, l’apertura di gruppi di lavoro specifici (per il momento con le donne in gravidanza e con i preadolescenti) ...e chissà quant’altro ancora sarà realizzato in un prossimo futuro. Si sta anche aprendo la possibilità di far conoscere questo metodo alla Facoltà di Scienze Motorie dell’Università dell’Aquila... Proprio in questi giorni si parla di costituire una associazione nazionale nell’ottica di dare spazio ad una formazione continua... Staremo a vedere dove l’intelligenza del movimento ci porterà!
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Formare
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E LA RICERCA CONTINUA......
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LA LINEA NEL MOVIMENTO
Concetta Turchi
“Dimmi, disegnatore del deserto, geometra delle sabbie mobili,
possibile che l’impeto delle linee sia più forte del soffiare del vento?
Nel balbettio scalpella l’esperienza, dall’esperienza succhia il balbettio”.
(Mandel’ stam, 1933)
possibile che l’impeto delle linee sia più forte del soffiare del vento?
Nel balbettio scalpella l’esperienza, dall’esperienza succhia il balbettio”.
(Mandel’ stam, 1933)
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Verso... di Concetta Turchi
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CELLULE DEL TESSUTO OSSEO
1. Le cellule osteoprogenitrici, o preosteoblasti, derivano dalla differenziazione in senso osteogenico, delle cellule mesenchimali pluripotenti del tessuto connettivo;
2. Gli osteoblasti, derivati dalla maturazione delle cellule osteoprogenitrici, sono le cellule giovani primariamente responsabili della sintesi della sostanza intercellulare dell’osso e della sua mineralizzazione;
3. Gli osteociti, derivati dalla maturazione degli osteoblasti, sono le cellule tipiche dell’osso maturo, responsabili del suo mantenimento e anche capaci di avviarne il rimaneggiamento. Rappresentano la parte terminale di un ciclo evolutivo cellulare, la cui autonomia di vita è finemente regolata da meccanismi endocrini;
4. Gli osteoclasti, derivati da precursori immigrati nel tessuto osseo dal sangue, i cosiddetti preosteoclasti che si differenziano a partire da cellule staminali del midollo osseo ematopoietico (linea differenziativa di una categoria di globuli bianchi, i monociti), sono le cellule preposte al riassorbimento del tessuto osseo ormai invecchiato; essi vengono trasportati dal torrente circolatorio fino alle sedi del tessuto osseo dove devono avvenire i processi di riassorbimento osseo, dove si fondono insieme a formare gli osteoclasti attivi, vale a dire elementi sinciziali capaci di disciogliere la componente minerale e di digerire le componenti organiche del tessuto osseo grazie a degli enzimi specifici.
2. Gli osteoblasti, derivati dalla maturazione delle cellule osteoprogenitrici, sono le cellule giovani primariamente responsabili della sintesi della sostanza intercellulare dell’osso e della sua mineralizzazione;
3. Gli osteociti, derivati dalla maturazione degli osteoblasti, sono le cellule tipiche dell’osso maturo, responsabili del suo mantenimento e anche capaci di avviarne il rimaneggiamento. Rappresentano la parte terminale di un ciclo evolutivo cellulare, la cui autonomia di vita è finemente regolata da meccanismi endocrini;
4. Gli osteoclasti, derivati da precursori immigrati nel tessuto osseo dal sangue, i cosiddetti preosteoclasti che si differenziano a partire da cellule staminali del midollo osseo ematopoietico (linea differenziativa di una categoria di globuli bianchi, i monociti), sono le cellule preposte al riassorbimento del tessuto osseo ormai invecchiato; essi vengono trasportati dal torrente circolatorio fino alle sedi del tessuto osseo dove devono avvenire i processi di riassorbimento osseo, dove si fondono insieme a formare gli osteoclasti attivi, vale a dire elementi sinciziali capaci di disciogliere la componente minerale e di digerire le componenti organiche del tessuto osseo grazie a degli enzimi specifici.
Tab.1
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FATTORI ENDOCRINI E METABOLICI CHE AGISCONO SUL CALCIO EMATICO
Fattori ormonali
- Il paratormone (PTH), prodotto dalle paratiroidi, promuove la differenziazione e la proliferazione degli osteoblasti; stimola inoltre il riassorbimento dello ione calcio a livello renale contribuendo all’effetto ipercalcemizzante. Attraverso gli OAF (Osteoclast Activating Factors) osteoblastici stimola anche l’attivazione degli osteoclasti per promuovere l’innalzamento della calcemia;
- La calcitonina, prodotta dalle cellule C, o parafollicolari, della tiroide, ha una azione ipocalcemizzante poiché agisce sugli osteoclasti inibendone la funzione;
- L’ormone della crescita (Growth Hormone o GH), prodotto dall’ipofisi, agisce sul fegato inducendo la produzione di somatomedine le quali stimolano la crescita e il metabolismo della cartilagine proliferante, promuovendo l’accrescimento osseo nel periodo dello sviluppo corporeo. Questo ormone ha una azione ipercalcemizzante poiché stimola il riassorbimento di calcio a livello renale;
- Gli ormoni tiroidei (T3 e T4), prodotti dalle cellule follicolari della tiroide, promuovono il metabolismo cellulare e pertanto giocano un ruolo importante per stimolare la maturazione dell’osso. Hanno un effetto ipocalcemizzante;
- Gli ormoni sessuali (estrogeni, testosterone) prodotti dalle gonadi al momento della pubertà svolgono una funzione di attivazione sugli osteoblasti come pure sugli osteoclasti; al termine dell’accrescimento esercitano un’azione inibitoria sulla crescita dei condrociti della cartilagine proliferante, promuovendo la saldatura delle epifisi e l’arresto dell’accrescimento scheletrico. Nell’adulto controllano a livello renale l’enzima che attiva la vitamina D.
Fattori vitaminici
- La vitamina D è una vitamina liposolubile che viene in parte assunta con la dieta (D2) e in parte sintetizzata per via endogena con l’ausilio dei raggi ultravioletti. Essa promuove la differenziazione degli osteoblasti in osteociti e ha una azione ipercalcemizzante perché a livello intestinale stimola l’assorbimento di calcio e a livello renale ne inibisce la escrezione.
- La vitamina C, idrosolubile, è un coenzima per la sintesi del collagene, precursore del tessuto osseo.
- La vitamina A, liposolubile, è capace di sviluppare la differenziazione degli osteoblasti in osteociti.
Fattori metabolici
L’ossigeno molecolare è indispensabile come fattore di stimolo sulle cellule ossee infatti, in ogni tipo di ossificazione, la differenziazione delle cellule progenitrici in osteoblasti avviene in stretta concomitanza con la genesi di nuovi vasi sanguigni che possono assicurare una elevata pressione parziale di ossigeno nelle sedi in cui avviene la formazione di tessuto osseo. Per questo si prescrive la ossigenoterapia iperbarica nei ritardi di consolidamento delle fratture e nell’osteoporosi grave.
- Il paratormone (PTH), prodotto dalle paratiroidi, promuove la differenziazione e la proliferazione degli osteoblasti; stimola inoltre il riassorbimento dello ione calcio a livello renale contribuendo all’effetto ipercalcemizzante. Attraverso gli OAF (Osteoclast Activating Factors) osteoblastici stimola anche l’attivazione degli osteoclasti per promuovere l’innalzamento della calcemia;
- La calcitonina, prodotta dalle cellule C, o parafollicolari, della tiroide, ha una azione ipocalcemizzante poiché agisce sugli osteoclasti inibendone la funzione;
- L’ormone della crescita (Growth Hormone o GH), prodotto dall’ipofisi, agisce sul fegato inducendo la produzione di somatomedine le quali stimolano la crescita e il metabolismo della cartilagine proliferante, promuovendo l’accrescimento osseo nel periodo dello sviluppo corporeo. Questo ormone ha una azione ipercalcemizzante poiché stimola il riassorbimento di calcio a livello renale;
- Gli ormoni tiroidei (T3 e T4), prodotti dalle cellule follicolari della tiroide, promuovono il metabolismo cellulare e pertanto giocano un ruolo importante per stimolare la maturazione dell’osso. Hanno un effetto ipocalcemizzante;
- Gli ormoni sessuali (estrogeni, testosterone) prodotti dalle gonadi al momento della pubertà svolgono una funzione di attivazione sugli osteoblasti come pure sugli osteoclasti; al termine dell’accrescimento esercitano un’azione inibitoria sulla crescita dei condrociti della cartilagine proliferante, promuovendo la saldatura delle epifisi e l’arresto dell’accrescimento scheletrico. Nell’adulto controllano a livello renale l’enzima che attiva la vitamina D.
Fattori vitaminici
- La vitamina D è una vitamina liposolubile che viene in parte assunta con la dieta (D2) e in parte sintetizzata per via endogena con l’ausilio dei raggi ultravioletti. Essa promuove la differenziazione degli osteoblasti in osteociti e ha una azione ipercalcemizzante perché a livello intestinale stimola l’assorbimento di calcio e a livello renale ne inibisce la escrezione.
- La vitamina C, idrosolubile, è un coenzima per la sintesi del collagene, precursore del tessuto osseo.
- La vitamina A, liposolubile, è capace di sviluppare la differenziazione degli osteoblasti in osteociti.
Fattori metabolici
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Tab.2
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FASI PSICOLOGICHE E ORGANIZZAZIONE DEI MOVIMENTI
Jader Tolja (medico e psicoterapeuta) identifica quattro fasi psicologiche che si riflettono nella organizzazione dei movimenti di un individuo.
1. La Fase della Appartenenza, caratterizzata dalla possibilità di abbandonarsi.
“Così come il neonato sa dare il suo peso, stare sdraiato, abbandonarsi tra le braccia della madre e farsi nutrire, diventando tutt’uno col corpo di chi lo sostiene, anche nell’adulto possiamo far risalire a una modalità di questa fase la capacità di abbandono, la grazia di chi sa sfruttare la gravità per farsi sostenere dalla terra, anche quando sta in piedi. (...) In termini di movimento la fase dell’appartenenza è caratterizzata da una peculiare libertà sul piano orizzontale, ovvero dei movimenti di rotazione, i primi presenti nel neonato, che gira la testa in cerca del seno”.
2. La Fase della Differenziazione, caratterizzata dalla possibilità di dire ‘no’.
“Corrisponde alla fase del movimento caratterizzata dallo spingere, ovvero dalla possibilità di differenziarsi dal piano d’appoggio. Nel bambino piccolo è evidente questo passaggio: basta toccargli il piedino perché subito cominci a spingere con tutta la gamba. È questa spinta a permettergli di cominciare a stare in piedi, di dire ‘no’ all’appoggio totale alla terra, di darsi una spinta che lo condurrà nella posizione verticale. (...) Si osserverà una maggiore libertà sul piano verticale, per esempio nelle flessioni laterali”.
3. La Fase della Affermazione, caratterizzata dalla movimentazione del desiderio.
“Coincide con ‘l’andare verso’ e con una maggiore libertà di movimento sul piano sagittale (ovvero sull’asse antero-posteriore), implicato nelle flessioni in avanti e indietro. L’epoca dell’affermazione corrisponde alla fase del movimento in cui il bambino comincia a raggiungere le cose che vuole, a cercarle con il movimento delle braccia e delle mani”.
4. La Fase della Scelta, caratterizzata dalla realizzazione del desiderio.
“Corrisponde alla fase in cui, una volta raggiunto ciò che interessa, lo si può anche prendere. (...) Rispetto al movimento si osserva una buona integrazione dei movimenti su tutti e tre i piani”.
1. La Fase della Appartenenza, caratterizzata dalla possibilità di abbandonarsi.
“Così come il neonato sa dare il suo peso, stare sdraiato, abbandonarsi tra le braccia della madre e farsi nutrire, diventando tutt’uno col corpo di chi lo sostiene, anche nell’adulto possiamo far risalire a una modalità di questa fase la capacità di abbandono, la grazia di chi sa sfruttare la gravità per farsi sostenere dalla terra, anche quando sta in piedi. (...) In termini di movimento la fase dell’appartenenza è caratterizzata da una peculiare libertà sul piano orizzontale, ovvero dei movimenti di rotazione, i primi presenti nel neonato, che gira la testa in cerca del seno”.
2. La Fase della Differenziazione, caratterizzata dalla possibilità di dire ‘no’.
“Corrisponde alla fase del movimento caratterizzata dallo spingere, ovvero dalla possibilità di differenziarsi dal piano d’appoggio. Nel bambino piccolo è evidente questo passaggio: basta toccargli il piedino perché subito cominci a spingere con tutta la gamba. È questa spinta a permettergli di cominciare a stare in piedi, di dire ‘no’ all’appoggio totale alla terra, di darsi una spinta che lo condurrà nella posizione verticale. (...) Si osserverà una maggiore libertà sul piano verticale, per esempio nelle flessioni laterali”.
3. La Fase della Affermazione, caratterizzata dalla movimentazione del desiderio.
“Coincide con ‘l’andare verso’ e con una maggiore libertà di movimento sul piano sagittale (ovvero sull’asse antero-posteriore), implicato nelle flessioni in avanti e indietro. L’epoca dell’affermazione corrisponde alla fase del movimento in cui il bambino comincia a raggiungere le cose che vuole, a cercarle con il movimento delle braccia e delle mani”.
4. La Fase della Scelta, caratterizzata dalla realizzazione del desiderio.
“Corrisponde alla fase in cui, una volta raggiunto ciò che interessa, lo si può anche prendere. (...) Rispetto al movimento si osserva una buona integrazione dei movimenti su tutti e tre i piani”.
Tab.3
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“Una volta vidi la scultura di un antico faraone, era una scultura d’oro in cui il faraone è rappresentato su una barca in una scena di caccia: tiene con una mano una lunga lancia e la sua schiena dal tallone alla testa è un unico arco scorrevole. L’inarcamento di quella schiena esprime forza, ma allo stesso tempo una forza che scorre lungo una linea che non ha interruzioni” (Citazione di Ruthy Alon in uno dei seminari Bones for Life
tenuti a Firenze nel 2001).
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BIBLIOGRAFIA
R. ALON, Guida pratica al metodo Feldenkrais, Red Ed., Como 1992.
L. BERTELÉ, Il tuo corpo ti parla, Baldini & Castoldi, Milano 1995.
F. DOLTO, L’immagine inconscia del corpo, Bompiani Ed., 1998
M. FAGIOLI, Istinto di morte e conoscenza, Nuove Edizioni Romane, Roma 2000.
M. FELDENKRAIS, La base del metodo per la consapevolezza dei processi motori, Astrolabio Ed., 1999.
M. FELDENKRAIS, Il metodo Feledenkrais. Conoscere sé stessi attraverso il movimento, Red Ed., Novara 2003.
J. LE BOULCH, Verso la scienza del movimento umano, Armando Ed., Roma 1978.
W. JENSEN, La casa gotica e Gradiva, SugarCo Ed., Milano 1990.
V. ONORATO, Ossa, Alfa Omega Ed., Roma 2000.
J. TOLIA F. SPEZIANI, Pensare col corpo, Zelig Editore, Milano 2003.
A. TOMATIS, L’orecchio e la voce, Baldini & Castoldi, Milano 2000.
A. TOMATIS, Come nasce e si sviluppa l’ascolto umano, Red Ed., Como 2001.
A. TOMATIS, Ascoltare l’universo, Baldini & Castoldi, 1998.
S. WILFART, Il canto dell’essere, Servitium Editrice, Bergamo 2000.
Il presente lavoro è nato molti anni fa (nel 2003) dalle prime esperienze dei corsi Bones for Life
fatti con Ruthy Alon e dai corsi di integrazione psicocorporea (“Lo scheletro come strumento di armonia”) tenuti dall’autrice. La prima versione è stata pubblicata nella sezione “La Passione nelle Ossa” su L’ArcoAcrobata, Rivista di Scienze Umane ed Arte, Anno II, n. 3, Associazione Musicalificio Grande Blu Ed., Roma 2003.
R. ALON, Guida pratica al metodo Feldenkrais, Red Ed., Como 1992.
L. BERTELÉ, Il tuo corpo ti parla, Baldini & Castoldi, Milano 1995.
F. DOLTO, L’immagine inconscia del corpo, Bompiani Ed., 1998
M. FAGIOLI, Istinto di morte e conoscenza, Nuove Edizioni Romane, Roma 2000.
M. FELDENKRAIS, La base del metodo per la consapevolezza dei processi motori, Astrolabio Ed., 1999.
M. FELDENKRAIS, Il metodo Feledenkrais. Conoscere sé stessi attraverso il movimento, Red Ed., Novara 2003.
J. LE BOULCH, Verso la scienza del movimento umano, Armando Ed., Roma 1978.
W. JENSEN, La casa gotica e Gradiva, SugarCo Ed., Milano 1990.
V. ONORATO, Ossa, Alfa Omega Ed., Roma 2000.
J. TOLIA F. SPEZIANI, Pensare col corpo, Zelig Editore, Milano 2003.
A. TOMATIS, L’orecchio e la voce, Baldini & Castoldi, Milano 2000.
A. TOMATIS, Come nasce e si sviluppa l’ascolto umano, Red Ed., Como 2001.
A. TOMATIS, Ascoltare l’universo, Baldini & Castoldi, 1998.
S. WILFART, Il canto dell’essere, Servitium Editrice, Bergamo 2000.
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“ALL’INIZIO FU IL SUONO”. Alfred Tomatis e la nascita dell’AudioPsicoFonologia di Concetta Turchi. Anno 2013
FORMARE I RAGAZZI ALL’ASCOLTO di Concetta Turchi. Anno 2013
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“ALL’INIZIO FU IL SUONO”
Alfred Tomatis e la nascita dell’AudioPsicoFonologia
Alfred Tomatis e la nascita dell’AudioPsicoFonologia
Concetta Turchi
“L’uomo diventa l’umano quando offre il suo corpo al linguaggio
che vuole penetrarlo per modellarlo sul proprio dire
e scolpirlo neuronicamente”.
(Alfred Tomatis)
che vuole penetrarlo per modellarlo sul proprio dire
e scolpirlo neuronicamente”.
(Alfred Tomatis)
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La partenza di don Chisciotte di Marco Mortillaro
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LE LEGGI FONDAMENTALI DELL’AUDIOPSICOFONOLOGIA
1. La voce emessa da una persona contiene solo quelle frequenze che il suo orecchio è in grado di ascoltare;
2. Se si interviene correggendo le frequenze alterate migliora istantaneamente l’emissione vocale;
3. È possibile trasformare la fonazione attraverso una stimolazione uditiva e mantenerla stabile nel tempo. La correzione delle frequenze alterate può avvenire attraverso una stimolazione specifica data da un Orecchio Elettronico (legge di rimanenza);
4. L’orecchio destro e quello sinistro non sono identici: solo l’orecchio destro è direttivo (lateralità) e svolge una azione di controllo dei vari parametri del linguaggio (intensità, timbro, intonazione, inflessione, semantica).
5. Il corollario della quarta legge è che un individuo non necessariamente è in grado di riprodurre tutti i suoni che sente e questo dipende dalla selettività, cioè dalla capacità di analizzare i suoni e differenziarli.
Fig. 1
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Albero Primo di Marco Mortillaro
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Dulcinea e don Chisciotte cavalcano tra le stelle di Marco Mortillaro
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Airobaleno di Marco Mortillaro
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DALLA SENSAZIONE ALLA PERCEZIONE E ALLA RECETTIVITÀ:
IL CAMMINO VERSO L’ ASCOLTO
IL CAMMINO VERSO L’ ASCOLTO
Concetta Turchi* e Marco Mortillaro**
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Roma, 25 gennaio 2000
*Concetta Turchi, Medico, Specialista in Psichiatria e AudioPsicoFonologia. Psicoterapeuta psicanalitico.
**Marco Mortillaro, Musicista e Didatta musicale, Specializzato in AudioPsicoFonologia.
**Marco Mortillaro, Musicista e Didatta musicale, Specializzato in AudioPsicoFonologia.
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Viale di mare di Marco Mortillaro
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CAMPI DI APPLICAZIONE DELL’AUDIOPSICOFONOLOGIA
Patologie dell’orecchio
- nei disturbi dell’equilibrio, nella sindrome di Ménière e nelle altre sindromi vertiginose.
- negli acufeni e in tutte le forme di ipersensibilità ai suoni e rumori.
- nelle sordità professionali (legate ad una alterazione funzionale) e nelle ipoacusie, o sordità parziali, di origine organica (nelle sordità parziali si riscontra spesso una caduta dell’udito in entrambe le orecchie anche quando in realtà è uno solo ad essere danneggiato; la rieducazione oltre a ripristinare la funzionalità residua dell’orecchio colpito, permette di recuperare l’altro orecchio che si appiattisce sulla funzione di quello danneggiato).
- nelle otiti ricorrenti e nei disturbi a carico dell’apparato fonatorio (polipi alle corde vocali, afonie frequenti).
Disturbi del linguaggio e dell’apprendimento
- nelle difficoltà di apprendimento del linguaggio del bambino.
- nelle difficoltà di apprendimento scolare.
- nella balbuzie e nella dislessia (si tratta in entrambi i casi di una turba evolutiva della funzione di ascolto che impedisce lo stabilizzarsi della lateralizzazione uditiva a destra: all’orecchio destro si deve il controllo e la regolazione del sistema audiofonatorio in quanto orecchio direttivo).
- nelle difficoltà di comprensione, concentrazione e memoria.
- nell’apprendimento delle lingue straniere (attraverso lo stimolo a percepire le frequenze che caratterizzano la banda passante di ogni lingua).
Disturbi psicomotori e del comportamento dei bambini e degli adulti
- nelle forme di iperattività e ipercinesia.
- nel ritardo dello sviluppo psicomotorio del bambino e nelle difficoltà di coordinazione motoria.
- nell’autismo.
Patologie psichiche e psicosomatiche
- depressione, ansia e crisi di panico, angoscia, spossatezza.
- asma, gastriti, tachicardie, ipertensione labile, cefalee muscolo-tensive.
Dinamizzazione e rilassamento
- nel riequilibrio delle energie psicocorporee (come nelle depressioni della terza età).
- nella preparazione al parto.
Voce, canto, creatività
Poiché l’ascolto rappresenta l’apertura della persona al mondo esterno in continuo rapporto dinamico con il proprio mondo interiore, ogni espressione creativa della propria identità personale ed artistica viene favorita da una rieducazione all’ascolto (cantanti, attori, musicisti, strumentisti, sportivi e danzatori).
- nei disturbi dell’equilibrio, nella sindrome di Ménière e nelle altre sindromi vertiginose.
- negli acufeni e in tutte le forme di ipersensibilità ai suoni e rumori.
- nelle sordità professionali (legate ad una alterazione funzionale) e nelle ipoacusie, o sordità parziali, di origine organica (nelle sordità parziali si riscontra spesso una caduta dell’udito in entrambe le orecchie anche quando in realtà è uno solo ad essere danneggiato; la rieducazione oltre a ripristinare la funzionalità residua dell’orecchio colpito, permette di recuperare l’altro orecchio che si appiattisce sulla funzione di quello danneggiato).
- nelle otiti ricorrenti e nei disturbi a carico dell’apparato fonatorio (polipi alle corde vocali, afonie frequenti).
Disturbi del linguaggio e dell’apprendimento
- nelle difficoltà di apprendimento del linguaggio del bambino.
- nelle difficoltà di apprendimento scolare.
- nella balbuzie e nella dislessia (si tratta in entrambi i casi di una turba evolutiva della funzione di ascolto che impedisce lo stabilizzarsi della lateralizzazione uditiva a destra: all’orecchio destro si deve il controllo e la regolazione del sistema audiofonatorio in quanto orecchio direttivo).
- nelle difficoltà di comprensione, concentrazione e memoria.
- nell’apprendimento delle lingue straniere (attraverso lo stimolo a percepire le frequenze che caratterizzano la banda passante di ogni lingua).
Disturbi psicomotori e del comportamento dei bambini e degli adulti
- nelle forme di iperattività e ipercinesia.
- nel ritardo dello sviluppo psicomotorio del bambino e nelle difficoltà di coordinazione motoria.
- nell’autismo.
Patologie psichiche e psicosomatiche
- depressione, ansia e crisi di panico, angoscia, spossatezza.
- asma, gastriti, tachicardie, ipertensione labile, cefalee muscolo-tensive.
Dinamizzazione e rilassamento
- nel riequilibrio delle energie psicocorporee (come nelle depressioni della terza età).
- nella preparazione al parto.
Voce, canto, creatività
Poiché l’ascolto rappresenta l’apertura della persona al mondo esterno in continuo rapporto dinamico con il proprio mondo interiore, ogni espressione creativa della propria identità personale ed artistica viene favorita da una rieducazione all’ascolto (cantanti, attori, musicisti, strumentisti, sportivi e danzatori).
Fig.3
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Aeroalbero di Marco Mortillaro
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Lo spartito della fantasia di Marco Mortillaro
BIBLIOGRAFIA
A. TOMATIS, L’orecchio e la vita, Baldini & Castoldi Dalai Ed., Milano 1999 (prima edizione 1992).
A. TOMATIS, L’orecchio e la voce, Baldini & Castoldi Dalai Ed., Milano 2000 (prima edizione 1993).
A. TOMATIS, Dalla comunicazione intrauterina al linguaggio umano. La liberazione di Edipo, Ibis Edizioni, Como, 1993.
A. TOMATIS, L’orecchio e il linguaggio, Ibis Edizioni, Como, 1995.
A. TOMATIS, Educazione e dislessia, Omega Ed., Torino 1996.
A. TOMATIS, Perché Mozart?, Ibis Edizioni, Como 1996.
A. TOMATIS, Come nasce e si sviluppa l’ascolto umano, Red Edizioni, Milano 2001.
A. TOMATIS, Ascoltare l’universo, Baldini & Castoldi Dalai Ed., Milano 2003 (prima edizione 1998).
A. TOMATIS, Siamo tutti nati poliglotti, Ibis Edizioni, Como 2003.
A. TOMATIS, Nove mesi in paradiso, Ibis Edizioni, Como-Pavia 2007.
A. TOMATIS e W. PASSERINI, Management dell’ascolto, Franco Angeli Ed., Roma 2007.
A. TOMATIS, La notte uterina. La vita prima della nascita e il suo universo sonoro, Red Edizioni, Milano 2009.
A. TOMATIS, Vertigini, Ibis Edizioni, Como-Pavia 2009.
A. TOMATIS, Le difficoltà scolastiche, Ibis Edizioni, Como-Pavia 2011.
Da tenere presente che il primo libro comparso in lingua francese è L'Oreille et le Langage, Èdition du Seuil, Parigi 1963, e l’ultimo è Ecouter l’Univers, Èditions Robert Laffont, 1995.
A. TOMATIS, L’orecchio e la voce, Baldini & Castoldi Dalai Ed., Milano 2000 (prima edizione 1993).
A. TOMATIS, Dalla comunicazione intrauterina al linguaggio umano. La liberazione di Edipo, Ibis Edizioni, Como, 1993.
A. TOMATIS, L’orecchio e il linguaggio, Ibis Edizioni, Como, 1995.
A. TOMATIS, Educazione e dislessia, Omega Ed., Torino 1996.
A. TOMATIS, Perché Mozart?, Ibis Edizioni, Como 1996.
A. TOMATIS, Come nasce e si sviluppa l’ascolto umano, Red Edizioni, Milano 2001.
A. TOMATIS, Ascoltare l’universo, Baldini & Castoldi Dalai Ed., Milano 2003 (prima edizione 1998).
A. TOMATIS, Siamo tutti nati poliglotti, Ibis Edizioni, Como 2003.
A. TOMATIS, Nove mesi in paradiso, Ibis Edizioni, Como-Pavia 2007.
A. TOMATIS e W. PASSERINI, Management dell’ascolto, Franco Angeli Ed., Roma 2007.
A. TOMATIS, La notte uterina. La vita prima della nascita e il suo universo sonoro, Red Edizioni, Milano 2009.
A. TOMATIS, Vertigini, Ibis Edizioni, Como-Pavia 2009.
A. TOMATIS, Le difficoltà scolastiche, Ibis Edizioni, Como-Pavia 2011.
Da tenere presente che il primo libro comparso in lingua francese è L'Oreille et le Langage, Èdition du Seuil, Parigi 1963, e l’ultimo è Ecouter l’Univers, Èditions Robert Laffont, 1995.
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FORMARE I RAGAZZI ALL’ASCOLTO
Concetta Turchi
Concetta Turchi
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Onde di frequenza di Marco Mortillaro
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INTRODUZIONE GENERALE
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PROGETTO
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1.
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2.
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PROCEDIMENTO PER LA SPERIMENTAZIONE VOCALE
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L’esperienza delle tirocinanti sulle vie del suono
(a cura di Alexandra Iafolla, Cinzia Sersante, Silvia Stocchi)
Abbiamo collaborato alla realizzazione del progetto in qualità di psicologhe tirocinanti durante gli anni della specializzazione. Quando siamo state coinvolte venivamo da esperienze molto diverse e ognuna di noi stava vivendo momenti critici all’interno della propria formazione: la Dott.ssa Cinzia Sersante, che ha partecipato nei primi due anni del progetto, si stava formando in AudioPsicoFonologia ed aveva partecipato ad altri progetti sull’ascolto già in corso presso altri istituti superiori; per la Dott.ssa Alexandra Iafolla e la Dott.ssa Silvia Stocchi, coinvolte negli anni successivi, il contenuto stesso del progetto era completamente nuovo.
Nei cinque anni di lavoro, pur essendoci inserite in tempi diversi ed avvicendate nel tempo, abbiamo potuto vivere con continuità il percorso di crescita della classe grazie agli incontri di supervisione clinica tenuti dalla Dott.ssa Concetta Turchi presso la ASL RM/C. Per avventurarci in questo progetto siamo state invitate a lasciare i bagagli ingombranti delle vetuste teorie psicologiche, unico modo per fare spazio a quella nuova esperienza. Non abbiamo accolto quell’invito tutte allo stesso modo e le differenze emerse dal confronto hanno messo ancora più in evidenza le grandi potenzialità che questo lavoro offriva non solo ai ragazzi, che ne erano ovviamente i protagonisti, ma anche a noi.
Il primo approccio con la classe non è stato semplice da sostenere. I ragazzi si rapportavano come se venisse loro proposta una delle attività scolastiche in cui si ritrovavano a essere i soliti contenitori passivi di una presunta conoscenza travasata da un adulto. Questo preconcetto si allargava al concetto stesso di ascolto, da cui il tentativo di teorizzarlo ed istituzionalizzarlo prima ancora di averlo vissuto direttamente. Come corollario di questo atteggiamento, i ragazzi cercavano di costruire l’appartenenza al gruppo uniformandosi nel modo di esprimersi, sia in termini verbali che non verbali: erano compatti in questo loro impedirsi di ascoltare e conoscere ciò che di nuovo veniva loro proposto. Ottenere un silenzio attento e spontaneo rivolto a chiunque avesse la parola in quel momento sembrava un’impresa davvero titanica. Rispetto a tali atteggiamenti noi tirocinanti eravamo sempre tentate di intervenire - e a volte lo abbiamo anche fatto - chiedendo il silenzio come fanno gli insegnanti, ma la Dott.ssa Turchi ci riprendeva sempre spiegandoci che muoversi in quel modo aveva il significato di chiedere il rispetto a partire da uno dei tanti schemi rigidi imposti dall’educazione. Diceva: “Il rispetto ce lo dobbiamo guadagnare”. Noi sopportavamo tacendo perché, in quelle circostanze era arduo anche solo immaginare come sarebbe stato possibile trovare un canale per avviare un cambiamento. Di conseguenza, all’impatto con le resistenze dei ragazzi, tendevamo a metterci difensivamente nella posizione marginale di osservatrici, piuttosto che partecipare attivamente. A distanza di tempo ci accorgiamo che abbiamo messo in atto le stesse modalità difensive di quei ragazzi; e infatti, come loro, siamo state coinvolte nelle varie attività proposte sperimentandole insieme con gli allievi. Solo questo ci ha permesso di superare lo stallo iniziale immergendoci completamente nella realtà che stavamo vivendo.
Per superare le difficoltà vissute nel rapporto con la classe, è stato fondamentale avere la possibilità di osservare e tentare di comprendere il modo di porsi e di condurre il lavoro della Dott. Turchi che inizialmente ci appariva indecifrabile: il suo movimento non era mai prevedibile né riconducibile ad alcun ruolo sia per noi che per i giovani alunni. Nell’attesa di trovare un modo diverso per rapportarci ai ragazzi, stavamo imparando che potevamo crescere insieme solo lasciando il bagaglio di rapporti codificati che facevano parte della nostra vita professionale come di quella personale.
Per quante tra noi non avevano nessuna conoscenza del metodo Tomatis, e neanche la più pallida idea di cosa significasse lavorare sull’ascolto e sulla voce, l’impatto con le attività proposte è stato spiazzante almeno quanto lo era per i ragazzi. Nel raggiungimento della postura d’ascolto, ad esempio, eravamo tutti invitati a sederci sui banchi per cercare, a occhi chiusi, i suoni provenienti dall’interno della classe e poi perfino dall’esterno dell’edificio: l’invito era quello di immaginare di intrecciare le orecchie sul vertice della testa e portare questa specie di chignon sulla mano destra, mentre il corpo poteva oscillare liberamente alla ricerca dei suoni come una antenna. Tutto questo ovviamente poteva essere fatto solo in un silenzio totale. Come capivamo le risatine, le battute e il chiacchiericcio dei ragazzi! Anche noi, come loro, non riuscivamo proprio a comprendere a cosa potesse servire immaginare di avere le orecchie collocate in un’altra zona del corpo e altre cose strane di questo tipo: sembrava proprio un’esperienza bizzarra e in alcuni momenti era perfino imbarazzante viverla con la classe. Eravamo talmente disorientate che in quei momenti avremmo preferito essere dei piccoli insetti per osservare senza essere viste e, per quanto tentassimo con ostinazione di aggrapparci a spiegazioni razionali, era proprio impossibile riuscire nell’intento… e questo ci incuriosiva moltissimo. Sicuramente incuriosiva anche i ragazzi.
Nelle prime sperimentazioni proposte, dopo la fase dei suoni a bocca chiusa per giungere a sentire come il suono della voce facesse vibrare il corpo, dovevano leggere ad alta voce e, coadiuvati dalla Dott. Turchi, assumere le posizioni più strane per permettere il passaggio del suono in tutto il corpo. Era incredibile - anche per noi! – come, una volta lasciate anche solo per un momento le tensioni corporee e/o il pensiero del giudizio dei compagni, la voce emergesse dapprima timidamente e poi via via in modo più determinato chiedendo il diritto ad esistere: nello stupore generale il suono cominciava a ritrovare la via del corpo e i pensieri cambiavano con il mutare delle voci. Nel corso del tempo accadeva sempre più spesso che il suono autentico e vibrante della voce sgorgasse improvvisamente: era come assistere alla nascita di un bambino che con i primi vagiti sente il proprio corpo che vibra e fa vibrare tutto l’ambiente intorno a lui per annunciare il suo arrivo. I muscoli del corpo ed in particolare quelli del volto ne beneficiavano, distendendosi, cosicché i ragazzi trovavano contemporaneamente una postura più eretta e dei lineamenti più rilassati. Il piacere di queste scoperte li rendeva spontaneamente sempre più presenti, e mentre partecipavamo alle varie attività con loro, anche noi vivevamo quella stessa gioia. La potenza di quei momenti ci permetteva di iniziare a intuire quanto fosse profondo il rapporto tra il suono autentico della propria voce e l’essere vivi: era ormai chiaro come lavorare con la voce andasse a toccare corde profonde e delicate.
Al secondo anno di lavoro avevamo l’impressione che la classe fosse in bilico tra due strade: quella della curiosità per qualcosa di nuovo che stavano scoprendo e la paura che questo li portasse troppo lontani dal conosciuto. Quel vissuto apparteneva anche a noi che, pur avendo iniziato a mettere in discussione le vecchie certezze, eravamo ancora in bilico tra il conosciuto rassicurante e l’ignoto destabilizzante. Curiosa posizione la nostra: se da una parte eravamo lì proprio per attivare un processo di cambiamento, dall’altra dovevamo noi per prime fare i conti con le nostre difese. Il passaggio tra il secondo e il terzo anno è stato particolarmente delicato perché ciascuno di loro era chiamato a scegliere il proprio indirizzo di studi dopo il biennio: ci hanno così chiesto di riservare una parte dell’ultimo incontro ad un confronto tra loro e con noi. Evidentemente cominciava ad affiorare l’esigenza di un ascolto reciproco rispetto ai propri vissuti e le voci erano in grado di esprimere esattamente le emozioni collegate alle proprie incertezze e timori, come quelle relative agli interessi e alle passioni.
Al terzo anno la classe era cambiata: alcuni avevano scelto altri indirizzi e altri si erano aggiunti. I nuovi arrivati dovevano cimentarsi con l’esperienza in corso e tra questi c’era un ragazzo decisamente prepotente di 16 anni che andava assumendo il ruolo di leader negativo della classe (tra l’altro frequentava un gruppo di ragazzi più grandi del suo quartiere con i quali aveva compiuto i primi furti): nel mettersi in gioco era divertito e spaesato, regalando un’immagine di sé assai diversa da quella che fino a quel momento si era ostinato a costruire. Dovevamo arrenderci all’evidenza: era proprio il lavoro sull’ascolto a condurre ognuno ad entrare in contatto con una dimensione profonda di sé. In quell’anno e nel successivo i ragazzi hanno continuato a giocare con i suoni lasciandosi coinvolgere sempre di più e riuscendo a tenere il filo della propria voce più facilmente. La ricerca di un’espressione sonora rendeva possibile non solo suonare i disegni personali che ognuno sceglieva accuratamente per l’occasione, ma persino di realizzare delle immagini a partire dal suono. Anche i Test dell’albero nel tempo acquisivano un significato particolare per la classe: realizzarli diventava sempre più semplice e piacevole, ed erano sempre interessati a quanto ne emergeva. L’armonia che avevano trovato insieme si rifletteva nelle loro opere, che raccontavano il percorso di crescita e di sviluppo delle proprie capacità creative. D’altra parte anche noi scoprivamo insieme con i ragazzi come fosse possibile col solo suono della voce rendere esattamente il senso di un dialogo; come determinate frequenze sonore potessero mettere in vibrazione specifiche aree del corpo e come fosse possibile dare un suono ad ogni colore, disegno e perfino opera d’arte.
All’inizio del quinto anno li abbiamo trovati veramente cresciuti: erano molto attenti e curiosi, desiderosi di trovare nuove forme di espressione personale. Questo si traduceva in un rinnovato interesse per quanto gli andavamo proponendo e soprattutto nella voglia di divertirsi e sperimentare. Quando gli è stato proposto di ideare un’opera che fosse espressione di quanto realizzato insieme negli anni, loro hanno scelto di reinterpretare con le proprie voci i personaggi de I Simpson. Abbiamo studiato insieme le caratteristiche corporee e vocali dei singoli personaggi ed è stato molto emozionante assistere alla loro messa in scena, cosa che ha trasformato in modo indelebile per noi il ricordo di quel cartone animato. Cercare con il proprio corpo le posture collegate alle voci dei personaggi è stata una autentica sperimentazione: scoprivano che alla relazione postura-voce si aggiungeva quella dell’atteggiamento nei confronti della vita. Tutto ciò ci confermava quanto fosse importante questa esperienza nell’ambito della professione per la quale ci stavamo preparando.
All’incontro conclusivo di questo percorso erano presenti tutti i tirocinanti che avevano partecipato nel quinquennio alla realizzazione del progetto. Per chi non aveva avuto modo di seguire i ragazzi negli ultimi anni, è stato molto emozionante e sorprendente ritrovarli così cambiati. Erano quasi irriconoscibili tanto erano cresciuti umanamente e nel modo in cui, disinvolti e appassionati, giocavano col suono. Erano ora capaci di proporre la loro identità nell’interazione, di confrontarsi tra loro e con noi in modo diverso. Tutto il lavoro fatto gli aveva permesso di recuperare la capacità di ascolto ritrovando un livello di fantasia importante. Nel mentre ripercorrevamo l’esperienza vissuta insieme, attraverso la rivisitazione dei Test dell’albero realizzati negli anni, l’emozione era palpabile e trovava nei ragazzi una piena espressione corporea e verbale.
Quell’esperienza, che ci aveva all’inizio schiaffeggiate e poi rapite, aveva tracciato la strada per una ricerca personale tesa ad iniziare, o approfondire, il lavoro sull’ascolto e sulla voce, benché esso avrebbe continuato a scardinare - lo sapevamo! - qualsiasi forma di certezza precostituita, in primis le conoscenze “nozionistiche” apprese sui libri in tanti anni di studi e forse anche l’idea stessa che ognuna di noi aveva di sé. Lavorare con quei ragazzi, vedere la loro crescita, ci aveva fatto sentire i confini angusti delle nostre credenze come dei reali impedimenti ad una comunicazione profonda. Questo lungo viaggio ci ha dato modo di scoprire che mettere l’ascolto al centro della propria esistenza significa viverla, essere presenti nel rapporto con sé e con l’altro, e potersi mettere nella condizione di fare scelte sempre più libere. Cominciavamo a comprendere quanto questo fosse indispensabile per costruire una identità umana prima ancora che professionale. Poter affiancare la Dott. Turchi in tutto il percorso ci ha insegnato come soltanto una prassi centrata sull’ascolto consente di poter essere agenti del cambiamento, o perfino della trasformazione, indispensabile per svolgere qualsivoglia funzione terapeutica.
(a cura di Alexandra Iafolla, Cinzia Sersante, Silvia Stocchi)
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Per superare le difficoltà vissute nel rapporto con la classe, è stato fondamentale avere la possibilità di osservare e tentare di comprendere il modo di porsi e di condurre il lavoro della Dott. Turchi che inizialmente ci appariva indecifrabile: il suo movimento non era mai prevedibile né riconducibile ad alcun ruolo sia per noi che per i giovani alunni. Nell’attesa di trovare un modo diverso per rapportarci ai ragazzi, stavamo imparando che potevamo crescere insieme solo lasciando il bagaglio di rapporti codificati che facevano parte della nostra vita professionale come di quella personale.
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DISCUSSIONE FINALE
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Ulivi d'estate di Paola Bindi
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MATERIALI SPECIFICI ED ELABORAZIONI
(con la collaborazione della Dott. Cinzia Sersante)
(con la collaborazione della Dott. Cinzia Sersante)
RISULTATI DEI QUESTIONARI
Elaborazione del primo questionario (nella classe sono presenti 23 alunni).
Percezione dei vari contesti sonori. Le risposte fornite rispetto alla capacità, all’interno di un contesto sonoro, di riuscire a tenere il filo vocale, delle idee e l’espressione verbale di queste ultime, non è correlata alla capacità di mantenere l’assetto posturale (mediamente i SI nelle prime tre rappresenta il doppio dei NO); mentre per quanto riguarda la voce collegata al mantenimento della postura troviamo una netta prevalenza dei NO, con un rapporto di 3:1. Per quanto riguarda gli eventuali bisogni che possono insorgere all’interno di un contesto sonoro (fame, sete, ecc.) si evidenzia che i NO rispetto al senso della fame sono assolutamente prevalenti; sul fumo c’è una prevalenza dei NO, mentre per la voglia di bere riscontriamo una prevalenza dei SI (3:1). Da sottolineare che la funzione dei muscoli masticatori ostacola l’ascolto, mentre tutti i movimenti del volto paragonabili al movimento di suzione (quale il bere) lo favoriscono. Andando a valutare i contesti sonori specifici si coglie una differenza tra la prevalenza del contesto “tranquillo” della famiglia (4:1), i contesti degli amici abituali che sono prevalentemente “rumorosi” (2:1) e infine della classe che viene percepita come rumorosa nella quasi assoluta totalità.
Autopercezione ed eteropercezione. I ragazzi non mostrano particolari difficoltà a memorizzare o a prestare attenzione (3:1), però si rilevano lievi difficoltà a prendere decisioni (prevalenza dei SI): quest’ultimo aspetto potrebbe essere collegato alla mancanza di abitudine nel leggere ad alta voce, anche se la prevalenza (19 persone su 23) dice di avere una relazione positiva con la propria voce (quest’ultimo dato non coincide con quanto emerso durante la sperimentazione vocale, dove nella quasi totalità hanno dichiarato di non amare la propria voce). Nel dettaglio è come se fosse presente un desiderio di avere una voce piacevole che non corrisponde alla realtà e questo dato è confermato dal fatto che tutti i ragazzi amano ascoltare la musica (il volume utilizzato in tale ascolto musicale è nel 50% dei casi elevato e nel restante 50% medio: pertanto il desiderio di ascoltare la musica viene in parte vanificato dal volume alto che notoriamente porta a una chiusura difensiva dell’orecchio). C’è contrapposizione tra la voglia di ascoltare la musica e la difficoltà ad ascoltare le persone: esiste un rapporto di 5:1 tra quelli che devono chiedere agli altri di ripetere ciò che hanno appena detto e quelli che non ne hanno bisogno. Peraltro solo per un quarto dei ragazzi è importante ascoltare una bella voce.
Due terzi dei ragazzi ha l’abitudine di masticare gomme (che sappiamo chiudere l’ascolto) e circa un terzo presenta disturbi neurovegetativi generici (nausea, vertigine). Poco più della metà dei ragazzi non riesce ad esprimersi con la voce come vorrebbe. I ragazzi si percepiscono irritabili in un rapporto di 3:1. Si sentono flessibili nel corpo nel rapporto di 2:1, anche se quando si tratta di focalizzare l’attenzione su dolori o tensioni nelle varie parti del corpo il rapporto scende a 1:1 (la zona più colpita è quella delle gambe). Tenere presente a questo proposito che sempre nel rapporto di 2:1 i ragazzi fanno molta attività fisica, ben oltre le ore scolastiche dedicate all’educazione fisica. In riferimento a come il ragazzo si sente percepito dagli altri compagni, il 50% sostiene che gli altri lo riprendono perché parla a voce troppo alta e perché assume una postura scorretta.
Percezione di sé rispetto alla classe. Il 50% dei ragazzi percepisce il contesto sonoro della classe come “aggressivo”, mentre l’altro 50% si muove nell’ambito del rassicurante-armonioso. Questi dati in percentuale concordano con la capacità che i ragazzi sentono di potere esprimere con la voce, ma non con le idee (scende da 2:1 a 1:1). In un rapporto di 2:1 i ragazzi non vogliono modificare il contesto sonoro della classe e quelli che lo vogliono migliorare è perché lo ritengono troppo “rumoroso”. Se paragoniamo questo dato con quello precedente in cui 20 ragazzi avevano detto che la loro classe era rumorosa, evidentemente meno della metà sente questo contesto dannoso. Il 50% dei ragazzi riesce a seguire i loro compagni e tra questi soltanto due persone su 13 collegano questa capacità di attenzione a ciò che l’altro dice e a come viene detto (timbro della voce). Nel 40% dei casi i ragazzi si sentono abbastanza ascoltati dai professori, nel 40% non si sentono ascoltati e solo il 20% si sente pienamente ascoltato; solo un 50% vuole migliorare il rapporto con gli insegnanti. Le due immagini prevalenti sono quelle del pistolero e dell’atleta che occupano rispettivamente il 30% delle risposte; è interessante notare il dato che 8 persone prediligono l’immagine dell’atleta e lo stesso numero di persone, non necessariamente le stesse, vorrebbero migliorare il contesto sonoro della classe. Il colore prediletto (2/3) è il rosso e questo si collega alla spiccata corporeità (il rosso si colloca in una banda di frequenza tra i 250 e i 1000Hz). Tra gli alimenti si evidenzia in modo particolare il cioccolato e il pomodoro cotto che per la loro reazione acida determinano un disturbo della capacità di ascolto.
Elaborazione del secondo questionario (la classe è composta da 14 alunni).
Percezione dei vari contesti sonori. Rispetto alla capacità dei ragazzi di riuscire a tenere il filo della voce, il filo delle idee e ad esprimerle verbalmente all’interno di un contesto sonoro, l’80% della classe ha risposto SI; anche riguardo alla capacità di mantenere la postura la proporzione dei SI cresce rispetto al primo anno, infatti più della metà della classe risponde positivamente (ad essere maggiormente in difficoltà sono le ragazze). Riguardo all’insorgere di bisogni all’interno di un contesto sonoro (come la fame, la sete ed il fumare), la metà della classe risponde SI al senso della fame e gli alimenti prediletti sono costituiti dai carboidrati, sia dolci che salati; mentre per quanto riguarda la voglia di bere e di fumare le risposte dei NO sono prevalenti in un rapporto di circa 2:1. Quindi i ragazzi in prevalenza attivano più facilmente i muscoli implicati nella masticazione che interferiscono negativamente con l’ascolto, a differenza dei movimenti che rimandano alla suzione (come il bere) che invece lo agevola. Nel distinguere la percezione di specifici contesti sonori, anche la famiglia è considerata “rumorosa” dalla metà dei ragazzi, questa proporzione aumenta lievemente rispetto al gruppo di amici abituali e la classe viene percepita “rumorosa” dal 70% degli allievi.
Autopercezione ed eteropercezione. Pur vivendo in contesti sonori prevalentemente rumorosi, i ragazzi non hanno difficoltà a memorizzare le cose nel 90% dei casi e non hanno difficoltà a prestare attenzione in un rapporto di circa 2:1; mentre poco più della metà della classe dichiara di avere difficoltà nel prendere decisioni. In un rapporto di 4:1 i ragazzi non hanno l’abitudine di leggere ad alta voce, ma quasi tutti danno una voce interna a ciò che leggono. Quasi la totalità della classe dice di avere un rapporto positivo con la propria voce e questo potrebbe collimare con il fatto che a tutti piace ascoltare la musica (a basso volume per il 20%, a volume medio per il 30%), ma il volume alto che utilizza la metà della classe rende ragione della chiusura difensiva all’ascolto: inoltre in un rapporto di 2:1 utilizzano le cuffie che risultano ulteriormente dannose. C’è ancora una parziale contrapposizione tra la voglia di ascoltare la musica e la difficoltà ad ascoltare le persone, infatti, il 50% dei ragazzi chiede alle persone di ripetere ciò che hanno appena detto proprio nella stessa percentuale di chi ascolta musica ad alto volume ed ha l’abitudine di masticare gomme provocando la chiusura dell’orecchio. Solo 1/3 della classe ha disturbi neurovegetativi (nausea, vertigine). Il desiderio di mettersi in ascolto trova riscontro nel dato che più della metà della classe riesce ora ad esprimere con la propria voce esattamente ciò che vorrebbe, inoltre la prevalenza dei ragazzi da importanza all’ascolto di una bella voce (75%), e tra questi il 25% lo ritiene “molto” importante. Gli allievi si percepiscono irritabili con un indice medio alto in un rapporto di 3:1, si sentono flessibili nel corpo in rapporto di 4:1, anche se andando a specificare le zone di tensione corporea i 2/3 della classe dichiara di avere tensioni o dolori prevalentemente nella zona cervicale o nella schiena. Questo può essere collegato alle ore di attività fisica svolta al di fuori del contesto scolastico a cui si dedicano durante la settimana che, in un rapporto di 2:1, va dalle 4 ore a oltre 5 ore. Rispetto a come i ragazzi si ritengono percepiti dagli altri, poco meno della metà di questi viene ripreso perché parla a voce troppo alta, mentre in un rapporto di 2:1 vengono richiamati perché assumono una postura scorretta.
Percezione di sé rispetto alla classe. La metà dei ragazzi percepisce il contesto sonoro della classe “armonioso”, mentre il restante 50% lo ritiene “aggressivo” o “noioso” e, nella medesima proporzione vorrebbero cambiare il contesto sonoro della classe. Questo dato, confrontato con la percentuale di chi ritiene tale contesto “rumoroso”, rivela che una buona parte di questi ragazzi sente l’esigenza di migliorarlo. Questo ultimo dato sembra concordare con il fatto che quasi la totalità degli allievi comunque dichiara di riuscire ad esprimersi con la propria voce, esprimere le proprie idee e seguire i compagni quando intervengono. La capacità di seguire gli interventi dei compagni per poco più della metà della classe si collega all’intenzione e all’interesse di ascoltare le opinioni altrui. Le immagini scelte per rappresentare la classe raccolgono complessivamente i 2/3 delle preferenze: l’immagine dell’atleta e del ballerino in un rapporto di 2:1. Anche in questo caso l’immagine dell’atleta viene scelta da un numero di persone che corrispondente a quello di coloro che non si pongono in una posizione passiva ma vorrebbero migliorare il contesto sonoro della classe. Il colore scelto per rappresentare la classe è per il 45% dei ragazzi il rosso che riguarda le frequenze gravi collegate alla corporeità (la cui banda di frequenza va dai 250 ai 1000 Hz), mentre un 25% indica il giallo che corrisponde alle frequenze medie, ed un restante 25% sceglie il nero che rappresenta l’insieme di tutti i colori e riguarda l’intera gamma frequenziale. In merito alla percezione dei ragazzi sulla disponibilità degli insegnanti ad ascoltarli i 2/3 della classe si sente “abbastanza” ascoltato, mentre 1/3 risponde pienamente SI. Quando gli si chiede se gli piacerebbe migliorare la comunicazione con i docenti, la proporzione di quelli che rispondono SI aumenta (3/4) includendo parte di coloro che precedentemente si erano espressi del tutto positivamente rispetto all’ascolto da parte dei loro insegnanti.
Elaborazione del terzo questionario (la classe è sempre composta da 14 alunni).
Percezione dei vari contesti sonori. Alle domande inerenti la capacità, all’interno di un contesto sonoro, di riuscire a tenere il filo della voce, delle idee e riuscire ad esprimerle verbalmente, il 90% dei ragazzi risponde di SI. Queste capacità sono maggiormente correlate alla capacità di mantenere la postura, infatti solo il 30% della classe risponde di non riuscire. Per quanto riguarda i bisogni che possono insorgere all’interno del contesto sonoro (come fame, sete e fumare) si ha una prevalenza dei NO rispetto a tutte e tre le voci: sia per la fame che per il fumo il rapporto è di 3:1, mentre per la voglia di bere è lievemente maggiore (2:1). È diminuita la tendenza ad attivare i muscoli masticatori che chiudono l’ascolto, a favore dei muscoli coinvolti nel bere che rimandano alla suzione e lo agevolano. Considerando i contesti sonori specifici, quello familiare viene definito “rumoroso” dalla metà della classe, gli amici abituali sono percepiti come rumorosi dal 40% dei ragazzi e nella stessa percentuale anche la classe viene percepita come rumorosa.
Autopercezione ed eteropercezione. I ragazzi non hanno particolari difficoltà a memorizzare o a prestare attenzione (5:1), mentre aumentano lievemente le risposte dei SI riguardo alla difficoltà a prendere decisioni (2:4). Solo i 2/3 della classe ha acquisito l’abitudine di leggere ad alta voce, e quasi tutti affermano di avere una relazione positiva con la propria voce. Tutti i ragazzi amano ascoltare la musica e il volume utilizzato è per il 40% elevato mentre per il restante 60% medio-basso. C’è un riscontro tra il desiderio di ascoltare la musica e quello di mettersi in ascolto delle persone, infatti solo 1/3 della classe si trova costretto a chiedere ad altri di ripetere quanto appena detto (che corrisponde in parte con la percentuale di coloro che ascoltano la musica ad alto volume provocando la chiusura difensiva dell’orecchio). Diviene sempre più importante per i ragazzi ascoltare una bella voce: per il 60% è “molto” importante mentre per il restante 40 % lo è “abbastanza”. Poco meno della metà degli allievi ha l’abitudine di masticare gomme (chiudendo l’ascolto) e in un rapporto di 1:4 presenta disturbi neurovegetativi (nausea, vertigine). Il 70% della classe ritiene di riuscire ad esprimere con la voce esattamente ciò che vorrebbe. I ragazzi si percepiscono irritabili in un rapporto di 3:1. Si sentono flessibili nel corpo nel 90% dei casi, anche se il 30% della classe riferisce dolori concentrati in alcune zone del corpo (in modo particolare la cervicale e la schiena). È da notare che gli allievi pur essendo al quinto anno, quindi impegnati con gli esami finali, continuano a fare molta attività fisica oltre a quella svolta a scuola (in rapporto di 3:1 più di 4 ore settimanali). Rispetto a come i ragazzi ritengono di essere percepiti dagli altri il 40% afferma di venire ripreso perché assume una postura scorretta ed il 20% perché parla a voce troppo alta.
Percezione di sé rispetto alla classe. Il 70% dei ragazzi percepisce il contesto sonoro della classe come “armonioso”, mentre per il 10% è “aggressivo” e per il restante 20% “noioso”, infine circa il 30% degli allievi vorrebbe migliorare tale contesto. Quest’ultimo dato, posto in relazione con la percentuale di chi inizialmente aveva definito “rumoroso” il contesto sonoro della classe (40%), evidenzia come siano quasi tutti motivati a produrre un cambiamento. La totalità degli allievi comunque dichiara di riuscire ad esprimersi con la propria voce, esprimere le proprie idee e seguire i compagni quando intervengono. La capacità di seguire gli interventi dei compagni, viene collegata all’interesse per l’opinione degli altri e alla capacità di questi ultimi di farsi ascoltare. L’immagine che più rappresenta la classe è per il 60% dei ragazzi quella dell’atleta, mentre l’immagine del ballerino trova il 20% delle preferenze. Il colore che più li rappresenta è il rosso (collegato alle frequenze gravi) che raccoglie il 40% delle preferenze, mentre un 30% sceglie il giallo (correlato alle frequenze medie) ed il restante 30% l’azzurro (che include le frequenze acute). In merito alla percezione dei ragazzi sulla disponibilità degli insegnanti ad ascoltarli il 60% si sente “abbastanza” ascoltato dai loro insegnanti, ed il restante 40% risponde di sentirsi ascoltato pienamente. Quando gli si chiede se gli piacerebbe migliorare la comunicazione con i docenti, circa il 30% risponde SI. L’abitudine più difficile da modificare è risultata quella alimentare, infatti il cioccolato e il pomodoro cotto continuano ad essere consumati regolarmente dal 50% dei ragazzi, pur essendo cibi acidi.
TEST DELL’ALBERO E RISULTATI
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Queste zone corrispondono alle differenti frequenze che mettono in vibrazione le diverse parti del corpo.
La prima zona detta Vestibolare o Somatica rivela lo schema corporeo, la motricità, il senso del ritmo, le relazioni spazio-temporali. Dal punto di vista psichico evidenzia la presenza di un temperamento pratico ed impulsivo; rispetto alla postura rivela le problematiche muscolo-scheletriche e viscerali dell’area che va dai piedi al dorso.
La seconda zona del Linguaggio è la zona dell’integrazione delle regole, della comprensione, della concentrazione, del pensiero razionale e del linguaggio. Può rilevare la presenza di una tendenza alla razionalizzazione come difesa dalle emozioni ed uno spirito analitico. A livello somatico evidenzia tensioni muscolo-scheletriche e problematiche viscerali a carico dell’area che va dalla zona dorsale a quella cervicale.
La terza zona della Creatività è correlata al desiderio di ascoltare, alla memoria affettiva, all’immaginazione e alla creatività come espressione della realizzazione di sé. Questa zona rileva tensioni a carico della cervicale (spesso causa di cefalee) e rivela possibili problematiche connesse soprattutto alla sfera psicoaffettiva.
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- Le radici rappresentano ciò che nel feto è la placenta: il nutrimento essenziale dato dalla accoglienza materna strutturale, che indica il livello di vitalità e quindi di sicurezza, fondamentale per avere una recettività salda. Attraverso le radici si legge la curiosità di comprendere, di sapere della vita e della morte, il livello di coscienza non cosciente.
- Il tronco corrisponde al cordone ombelicale e quindi al legame fondamentale con la madre sul piano emozionale e affettivo: ha a che fare con la conduzione energetica (direzione dal basso verso l’alto) e con la crescita psicologica da cui nasce la nozione del tempo.
- La chioma, di cui si valutano la dimensione e la direzione oltre che il tratto, corrisponde alla pelle che si dispiega per comunicare con il mondo: ha a che fare con la libertà di pensiero e creatività; con quella estensione della energia che permette di comunicare con l’intero universo.
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Le curve dell’orecchio destro descrivono la situazione attuale mentre quelle dell’orecchio sinistro riguardano più l’aspetto affettivo della storia personale. Il confronto tra le due orecchie indica l’equilibrio interno della persona e la simmetria/asimmetria del corpo: ad esempio, è importante la distanza tra curva aerea e ossea, sia nell’orecchio destro che in quello sinistro, poiché evidenzia quanto l’interiorità collima con ciò che emerge nella nostra relazione con il mondo; se si verifica la presenza di picchi (punte di particolare sensibilità e dolore) e/o scotomi (disinvestimento di aree particolari del corpo o del Sé). L’andamento ideale delle curve dovrebbe avere una prima parte progressivamente ascendente con l’apice della crescita intorno ai 4000Hz circa, con una lieve flessione successiva.
Elaborazione del primo Test dell’albero
- Struttura interna della classe: abbastanza definita, anche se ci sono livelli di angoscia attuale.
- Comunicazione: forte bisogno di comunicare.
- Personalità: fortemente improntata all’azione corporea.
- Creatività: stereotipata.
- Immagine corporea: strutturata ed elegante.
- Ascolto: buono, anche se l’angoscia per le situazioni attuali è una interferenza di rilievo.
- Tono dell’umore: sufficientemente stabile.
- Affettività: poco espressa.
Elaborazione del secondo Test dell’albero
- Struttura interna della classe: definita. Sono presenti livelli di angoscia collegati al corpo e di rabbia esplicitata.
- Comunicazione: è appena accennato il passaggio dal bisogno all’esigenza di comunicare.
- Personalità: una corporeità che cerca una definizione attraverso gli affetti e i pensieri espressi.
- Creatività: la ricerca di staccarsi da una ridondanza.
- Immagine corporea: strutturata ed elegante.
- Ascolto: buono.
- Tono dell’umore: stabile.
- Affettività: espressa.
Elaborazione del terzo Test dell’albero
- Struttura interna della classe: definita, anche se è presente un livello di irrequietezza legata ai passaggi futuri.
- Comunicazione: buona, con punte di rabbia sempre verbalizzate.
- Personalità: si sta definendo, anche se la paura di dire è legata alla paura di ferire.
- Creatività: ricca.
- Immagine corporea: definita e stabile.
- Ascolto: molto buono.
- Tono dell’umore: buono.
- Affettività: ben espressa.
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Albero fatto con la mano dominante, I anno
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Albero fatto con la mano dominante, III anno
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Albero fatto con la mano dominante, V anno
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Albero di fantasia, I anno
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Albero di fantasia, III anno
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Albero di fantasia, V anno
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Percorsi di cura in terapia psicodinamica.
SIAMO ANDATE NELLA TERRA DI NESSUNO di Claudia Amato e Concetta Turchi. Anno 2014
INTIMACY di Concetta Turchi. Anno 2010
SIAMO ANDATE NELLA TERRA DI NESSUNO
Claudia Amato e Concetta Turchi
“La vera consapevolezza non è quella che ci raccontano. No.
Essa sta in quel particolare stato della coscienza in grado di esprimere
la meravigliosa commistione tra possessione e lucida chiarezza.
Solo in quei momenti sappiamo… e sappiamo che siamo nati per conoscere”.
(Concetta Turchi)
Essa sta in quel particolare stato della coscienza in grado di esprimere
la meravigliosa commistione tra possessione e lucida chiarezza.
Solo in quei momenti sappiamo… e sappiamo che siamo nati per conoscere”.
(Concetta Turchi)
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Composizione di fuoco di Claudia Amato e Concetta Turchi
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BIBLIOGRAFIA DI BASE
G. BUZZATTI - A. SALVO, Il corpo-parola delle donne, Raffaello Cortina Ed., Milano 1998.
F. DOSTOEVSKIJ, Il giocatore, traduzione di B. Del Re, Einaudi Ed., Torino 1999.
M. FAGIOLI, Istinto di morte e conoscenza (prima ed. 1972), Nuove Edizioni Romane, Roma 2000.
M. FAGIOLI, La marionetta e il burattino (prima ed. 1974), Nuove Edizioni Romane, Roma 1999.
M. FAGIOLI, Psicoanalisi della nascita e castrazione umana, Nuove Edizioni Romane, Roma 1995.
M. FAGIOLI, Bambino Donna e trasformazione dell'Uomo, Nuove Edizioni Romane, Roma 2000.
N. LALLI, Manuale di Psichiatria e Psicoterapia, Liguori Ed., Napoli 2000.
E. USCIANI-PETRINI, Il suono incrinato, Einaudi Ed., Torino 2001.
S. MAZZOCCHI, Vite d'azzardo, Sperling & Kupfer Ed., Milano 2002.
C. OLIEVENSTEIN, Droga, traduzione di A. Serra, Raffaello Cortina Ed., Milano 2001.
C. PERT, Molecole di Emozioni, traduzione di L. Perria, Corbaccio Ed., Milano 2000.
F. RANIERI – C. CERBINI - P.E. DI MAURO, Nuove droghe e nuove etnie, Armando Ed., Roma 2002.
A. TOMATIS, L'orecchio e il linguaggio, traduzione di L. Merletti, Ibis Edizioni, Como-Pavia 1995.
A. TOMATIS, Come nasce e si sviluppa l'ascolto umano, traduzione di G. Cimino, Red Edizioni, Como 2001.
G. VERGANI - R. BERTOLLI - F. RAVERA, Un buco nell'anima, Libri Scheiwiller Ed., Milano 2002.
G. BUZZATTI - A. SALVO, Il corpo-parola delle donne, Raffaello Cortina Ed., Milano 1998.
F. DOSTOEVSKIJ, Il giocatore, traduzione di B. Del Re, Einaudi Ed., Torino 1999.
M. FAGIOLI, Istinto di morte e conoscenza (prima ed. 1972), Nuove Edizioni Romane, Roma 2000.
M. FAGIOLI, La marionetta e il burattino (prima ed. 1974), Nuove Edizioni Romane, Roma 1999.
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E. USCIANI-PETRINI, Il suono incrinato, Einaudi Ed., Torino 2001.
S. MAZZOCCHI, Vite d'azzardo, Sperling & Kupfer Ed., Milano 2002.
C. OLIEVENSTEIN, Droga, traduzione di A. Serra, Raffaello Cortina Ed., Milano 2001.
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F. RANIERI – C. CERBINI - P.E. DI MAURO, Nuove droghe e nuove etnie, Armando Ed., Roma 2002.
A. TOMATIS, L'orecchio e il linguaggio, traduzione di L. Merletti, Ibis Edizioni, Como-Pavia 1995.
A. TOMATIS, Come nasce e si sviluppa l'ascolto umano, traduzione di G. Cimino, Red Edizioni, Como 2001.
G. VERGANI - R. BERTOLLI - F. RAVERA, Un buco nell'anima, Libri Scheiwiller Ed., Milano 2002.
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INTIMACY
Concetta Turchi
“Rischiare per un sogno che nessuno vede”.
(da Million Dollar Baby di Clint Eastwood)
(da Million Dollar Baby di Clint Eastwood)
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Vicinanze nel nero di Shelly Bisirry
Requiem per un sogno mai sognato
Ci sono sogni che rivelano e sogni che nascondono
Ci sono sogni che parlano e altri che ci guardano
silenziosi
Ci sono strade nella notte che folgorano le stelle
per un amore mai tentato
forse... neppure mai sognato.
E quando i sogni volano
per trovare una inattesa vicinanza
torna il timore di sempre,
incontrare lo sguardo di Medusa e diventare
pietra.
Ci sono sogni che rivelano e sogni che nascondono
Ci sono sogni che parlano e altri che ci guardano
silenziosi
Ci sono strade nella notte che folgorano le stelle
per un amore mai tentato
forse... neppure mai sognato.
E quando i sogni volano
per trovare una inattesa vicinanza
torna il timore di sempre,
incontrare lo sguardo di Medusa e diventare
pietra.
Lo sguardo
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A conferma di questa doppia risonanza dello sguardo e della voce, il corpo si muoveva portandosi dietro il paradosso del tentativo di nascondersi nella impossibilità di farlo. Quando ti vidi per la prima volta entrare da quella porta piccola e fatiscente, la tua figura per un attimo la colmò completamente nel suo essere eretta, per poi richiudersi in un battibaleno annunciando una depressione da tempo portata sulle spalle. Tutto di te parlava di una presenza appena vagheggiata... e rimembravo: “Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea tornare ancor per uso a contemplarvi da queste finestre scintillanti, e parlar con voi dalle finestre di questo albergo ove abitai fanciullo, e delle gioie mie vidi la fine”...
“E delle gioie mie vidi la fine”... Ecco, era come se ti portassi sempre dietro, nelle tasche dei pantaloni dove spesso affondavi le mani, questa frase che era il requiem su cui si infrangeva ogni possibile sogno; dove la tua capacità di stupirti doveva lasciare il via libera ad ogni... stupefacente polverina. Stupefacente e seduttiva... proprio come la tua iniziale richiesta, portata avanti con sguardo ammiccante, di essere seguito fuori dal Ser.T.
Avevo risposto infastidita: “Non ne vedo il motivo. Il mio modo di lavorare non cambia, senza contare che non è mia abitudine portare i pazienti dal pubblico al privato”.
Ti era già capitato di “sedurre” una psicoterapeuta ultra blasonata e non ti aveva fatto per niente bene.
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“Perché non chiude tutto e se ne va qualche giorno al mare con la sua ragazza? La creatività mica può timbrare il cartellino!”.
Così ti avevo detto, e tu, dopo aver vomitato - scuotendo ripetutamente la testa - che la mia proposta era una follia e che sembrava proprio non mi rendessi conto della mole dei tuoi impegni, avevi accettato, mi avevi seguito “senza una ragione, come un ragazzo segue un aquilone”. Appena sbarcato a Ventotene (per una strana coincidenza il luogo da me scelto anni prima per sposarmi), avevi buttato quegli anfibi che serravano i tuoi piedi e i tuoi pensieri; quel gesto facile, accompagnato da un sorriso lieve, ti aveva fatto ritrovare la strada della composizione musicale. Da allora non ti ho più visto con gli anfibi.
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“Quando la smetterà di utilizzare la musica per consolarsi e consolare?”, ti chiedevo provocatoriamente. Quando poi me la ridevo per certe tue rigidità mi guardavi di traverso e una volta, prendendo il coraggio a quattro mani, arrivasti a dire: “Mi dico spesso che cazzo ha da ridere?!... Ma poi... è così disarmante la sua risata!”.
Il mio ridere irriverente ti rasserenava nonostante le sempre tantissime questioni materiali che ti attanagliavano: nessuno prima di allora ti aveva riso in faccia mentre esponevi minuziosamente le tue lamentazioni per le fatiche inenarrabili che dovevi sostenere. La giovane psicoterapeuta con cui avevi lavorato fino al momento della partenza ti aveva abituato in altro modo eppure... un giorno, a proposito del rapporto con le donne, avevi osato una affermazione curiosa.
“Si possono amare due donne contemporaneamente. È la prima volta che penso questo”.
La cura poteva iniziare a trovare una pacifica convivenza dentro di te. A onor del vero c’era stata una “rivista galeotta”, con un articolo sulle dipendenze patologiche di cui ero coautrice: ti era piaciuta talmente tanto da comprare le copie residue da Feltrinelli per spedirne una alla tua terapeuta e l’altra alla Responsabile di Comunità (colei che ti aveva seguito inizialmente prima di ripudiarla a causa della sua presenza altalenante). Con la tua giovane terapeuta ti eri trovato bene anche perché l’avevi un po’ allevata.
“Con me si è fatta un nome. Ero un caso molto difficile”.
Questa frase uscì alla chetichella tra le maglie di un sorrisetto beffardo mentre guardavi me che, pur avendo un’aria da giovinetta, non ero esattamente di primo pelo: con me potevi mettere insieme l’immagine di ragazza da condurre con quella della donna da cui lasciarsi condurre.
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“Ho fatto un sogno. Ero in strada, forse inizialmente con la mia ragazza. Era una strada di città. Mi avvicino alla vetrina di un negozio per guardare qualcosa quando improvvisamente vedo riflessa sulla vetrina la mia immagine e quella di una ragazza che so essere mia sorella...”.
Poi, guardandomi dritto negli occhi: “Ma io non ce l’ho una sorella!”.
“Forse il suo inconscio l’ha trovata una sorella”, dico.
E tu, con la tua guizzante intelligenza: “Ah, sarebbe lei la sorella?”, con il tono spavaldo di chi è abituato a combattere la timidezza.
“Credo proprio di si”.
Non c’era altro da dire... quando nasce la fiducia non c’è mai molto da dire. Tu sorridevi quieto sorseggiando il silenzio e io ero con te mentre sfilavano le immagini risvegliate dal tuo racconto.
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C’era dell’altro: avevo visto in te una parte di me, la stessa che tu avevi colto col “sogno della sorella”, e non potevo proprio disinteressarmene. Sta di fatto che il nostro lavoro proseguì dopo l’estate perché questo film non riusciva a trovare la via della fine.
Ogni tanto col fare indagatore dello sguardo dicevi di volere rimanere a Roma, ma la mia risposta - “Vedremo!” - ti lasciava in mezzo alle tue menzogne. In realtà stavi meglio perché più naturalmente trovavi la strada del sorriso... e della musica.
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La volta successiva arrivò una telefonata in cui mi comunicavi che eri stato invitato ad un festival di musica da film; quel filo trasportò la mia risata sorniona mentre dicevo: “Va bene, ci vediamo la prossima settimana”. Al tuo ritorno mi raccontasti della bellissima esperienza vissuta: finalmente avevi potuto suonare il basso insieme con altri musicisti direttamente sulle immagini “senza avere in mezzo questi cazzo di registi”. Proprio non riuscii a trattenere le risate.
“Che si ride?”, fu la tua domanda curiosa e divertita, come a dire ‘Voglio proprio vedere dove va a parare!’.
“Beh, evidentemente ha sentito la mia interpretazione del film come un’opera di regia troppo forte, se non addirittura invadente, per la sua identità... Beh, accetto la critica, ma ribadisco l‘interpretazione”.
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“Lei deve ascoltarmi”, insistendo sul “deve”.
“Io non le devo niente. Io voglio, e sottolineo voglio, ascoltarla, ma non sono qui per subire passivamente la sua violenza”, risposi con veemenza. Mi guardavi trasecolato e senza parole mentre, schienato sulla poltrona, delineavo i confini della cura da quelli della assistenza consolatoria.
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Durante quelle vacanze avevi conosciuto il padre della tua ragazza e ti eri reso conto di come (il quanto già lo sapevi) la vostra relazione fosse malata: lei, che ti aveva seguito a Roma in quella avventura cinematografica, andava a rinforzare la tua onnipotenza a causa della sua giovane età e della dipendenza affettiva. In fondo avevi cresciuto anche lei, proprio come avevi fatto con la tua terapeuta!
Fu allora che arrivò la scelta di mollare il peso della “azione terapeutica” a qualcun altro che non fossi tu: anche lei aveva l’esigenza di una psicoterapia per combattere la sua passività che ti collocava costantemente in una posizione di “doverosa responsabilità” nei suoi confronti - esattamente quello che ti appesantiva la vita - anche se tu coattivamente la ricercavi per un silenzio orribile di cui ti eri fatto carico fin da quando tuo fratello più piccolo, ancora bambino, aveva tentato il suicidio. Non se ne era più parlato all’interno della famiglia - non se ne doveva più parlare! - e tutto aveva ripreso a funzionare come se nulla fosse: lui era diventato architetto... tu musicista... ed era sempre lui che ti veniva a riprendere dagli effetti delle tue intemperanze... stupefacenti, in silenzio... Tornava sempre quel maledetto silenzio.
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Andavi scoprendo la donna dietro la madre e se quest’ultima non poteva essere in alcun modo perdonabile, la donna sì: aveva patito per una perdita di cui il marito - tuo padre - forse non si era neppure accorto, andando a sancire la lacerazione sanguinante che alimentava la rabbia... e tu eri rimasto intrappolato tra loro a recitare la messa da requiem per un sogno... solo che questo sogno non era tuo... e neppure la messa da requiem.
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“Costringe gli altri ad occuparsi di lei”.
Ti tirasti indietro con il busto sollevando le braccia conserte così com’erano, come fossero un blocco unico, dalla scrivania.
“Qualcuno potrebbe pensare che è pazzesco ciò che dice!”, fu la tua esclamazione.
“Qualcuno... ma non lei”, risposi.
Sorridesti teneramente guardando di lato e un po’ in basso mentre dicevi che, anche se era pazzesco, da qualche parte sentivi del vero in quel che dicevo. Tempo dopo tua madre ti scrisse una lunga e bella lettera incrinando l’immagine univoca di quella donna ostile che da bambino ti pettinava con forza i capelli strappandoli e facendoti male ogni volta.
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“Ma chissà se era amore... lei era anoressica. Con le donne ci sono sempre tanti casini!”.
Poi, guardando in lontananza: “Ho lasciato qualcosa di importante lì”.
E ancora... “Non ce l’ho fatta!”.
Ascoltai con indicibile pena quel grumo d’angoscia e sentivo con tristezza le mie parole rimbalzare sorde mentre ti dicevo che era possibile andare a riprendersi quel qualcosa.
Ti vidi arretrare impercettibilmente e poi accadde davvero mentre dicevi distrattamente: “Forse... è possibile!”.
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Il panda e le sue brame
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‘Seppure il panda è a rischio di estinzione, anche le foreste di bambù hanno i loro diritti!?’, mi dicevo.
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Accadde così che i confini della realtà che stavi pericolosamente varcando fossero ritrovati anche se certamente quel mio movimento, lo sapevo fin troppo bene, esponeva il nostro rapporto alle rappresaglie della tua malattia: potevi interpretarlo come un cedimento alle tue manipolazioni di sempre, o peggio ancora come una mia manovra di seduzione. Questo rischio lo conoscevo... ed ero pronta ad affrontarlo.
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Continuavo a guardarti in un silenzio triste finché: “Ma che cosa ha da guardarmi?”.
E io: “La guardo... semplicemente... perché sento quanto è esasperato... e disperato”.
Avevi capito che avevo capito, ma il dire (come il non dire) era una tua scelta che, condivisibile o no, io accettavo. Mentre ti guardavo andare via alla chetichella come un ladro che ha rubato un’opera d’arte ad un Museo e non sa cosa farsene, ricordavo le frantumaglie disperate di quell’incontro: “Questo film non uscirà e non mi pagheranno... non riuscirò a completare la colonna sonora... forse ha ragione la Responsabile di Comunità quando dice che la musica mi ucciderà”.
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“Comprendo la sua preoccupazione, tuttavia è una libertà del suo ragazzo quella di raccontarsi come meglio crede, perché il dire o il non dire come stanno le cose ha a che fare con un livello di fiducia particolare, quello che può andare oltre la paura di deludere l’altro. Faccia la fidanzata e non la madre o la poliziotta! Ne parli con il suo terapeuta, così come il suo ragazzo avrà occasione, quando lo riterrà opportuno, di fare con me. Le auguro un buon lavoro... e, per favore, non mi cerchi più”.
Poi la tua domanda: “Lo aveva capito, vero?”.
“Si, sono rimasta molto dispiaciuta!”.
E tu, tirandoti indietro con il busto, sempre trascinandoti il monoblocco delle braccia conserte, con un tono vagamente trionfante: “Ecco... l’ho delusa... - scuotendo la testa col tono falsamente dimesso di chi ha l’asso nella manica - ... è arrabbiata perché l’ho delusa!”.
“Non ha capito proprio niente. Non sono delusa perché non ho aspettative nei suoi confronti... Non sarà una sua libertà, ma è certamente un suo diritto deludere chicchessia. Proprio non comprende che le aspettative degli altri, presunte o reali, sono una violenza?”.
“Non ha aspettative nei miei confronti?!... Ma... ma così... è disarmante!”, fu la tua incredula esclamazione.
Ti guardavo dritto negli occhi mentre continuavo con veemenza sotto il tuo sguardo fattosi interrogativo.
“Eppure è così, se ne faccia una ragione. Non ho aspettative, ho solo pretese... - sorridendo - ...e quello che pretendo in un rapporto è la presenza: poteva dirmi semplicemente come stavano le cose, ma questo è evidentemente molto difficile per lei perché ci tiene troppo a fare il “bravo” paziente”.
Mi guardavi sorpreso mentre sembravi contento e incazzato allo stesso tempo: contento perché - ne convenivi - non eri tenuto a comportarti bene, incazzato... per lo stesso motivo! Quel giorno vidi una leggerezza nuova e una espressione dolce del volto che certamente non ti era usuale.
‘Mi farà vedere i sorci verdi’, pensai sorridendo.
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“La mia ragazza mi sta lasciando. La sto perdendo! Proprio non ce la faccio a venire in terapia con la mia vita che va in pezzi”. Eri in lacrime.
Con quello sarebbe stato il terzo incontro mancato e sapevi bene che saltare quell’incontro avrebbe comportato l’interruzione “d’ufficio” del nostro lavoro psicoterapeutico: era una delle regole che ti avevo illustrato all’inizio.
“Se salta l’appuntamento di oggi perderà anche me”.
Arrivò un lamento inusitato: “Ma non ce la faccio! Proprio non capisce?”.
“Provi”, fu la mia laconica risposta.
Riuscisti a venire quel giorno e anche nelle settimane successive: “Ho sentito la sua determinazione”.
La mia determinazione era stata... determinante per il superamento della crisi nera. Ti proposi dieci colloqui per rinegoziare il nostro lavoro e aiutarti a superare quel momento difficile.
“Glielo devo... perché si sta impegnando molto”, ti dissi.
Qualsiasi altra decisione sul proseguio del lavoro si rinviava a fine estate, dopo la conclusione del film che ormai era imminente.
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“Avrei potuto fare meglio, se solo avessi ultimato a suo tempo gli studi di orchestrazione!”, avevi detto con disappunto.
“Beh, è sempre in tempo a ultimare quegli studi e a diventare sempre più indipendente nella sua espressione musicale”.
“È vero! Lo posso fare... magari da settembre”, sollevato.
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La porta d’Oriente
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Quando ne parlammo riuscisti a comprendere bene le dinamiche invidiose di quel regista e anche quelle di controllo della Grande Madre: d’altra parte non era lei che scuotendo l’aria con le lunghe maniche nere, come una novella Crudelia Demon, ti aveva detto che avresti dovuto lasciare la musica altrimenti ti avrebbe portato alla morte? E pensare che in occasione del nostro primo incontro ti avevo detto esattamente il contrario: dovevi salvare la musica per guarire.
‘È l’unico modo in cui riesce a tenere la speranza dell’amore per la madre... dell’amore per la vita’, avevo pensato.
C’era un tuo valore che si rendeva finalmente evidente ai tuoi occhi e... tu eri per la prima volta in grado di proteggerlo. Forse per questo la nostra coppia terapeutica doveva essere tenuta a bada! Poteva scuotere fin dalle fondamenta certi presupposti teorici collegati più all’adattamento che alla cura... e la vera arte, come forse il regista aveva subodorato, nulla ha a che fare con l’adattamento.
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“Voglio sapere cosa ne pensa. Ci tengo molto al suo giudizio...”. Eri calmo e sereno, evidentemente soddisfatto del tuo lavoro.
Quel giorno, tornata a casa, mi precipitai ad ascoltare quel CD... e fui travolta. In quella musica era scomparsa ogni forma di mestiere e per di più vi era qualcosa di mai sentito prima in altri tuoi pezzi: la durezza del rock si mescolava con un sound etnico di grande respiro che conferiva alla musica una sessualità e una gioiosità nuova, oltre la potenza e la tenerezza di sempre. Quella era la colonna sonora del nostro rapporto ed era bellissima.
“È talmente viva e bella che quando la ascolto mi viene un nome... Porta d’Oriente”.
‘Se mi viene di darle il nome, vuol dire che è una nascita’, pensavo mentre tu esclamavi:“Bello! Posso utilizzarlo?”.
Eri contento, lo sguardo era tenero come la tua voce. Ne avevi mandato una copia anche a quel regista e lui era rimasto tramortito: “Da dove è venuta fuori questa musica? Non sembra neppure la tua”, aveva detto astioso. E invece era proprio tua. Ce la ridemmo di gusto di fronte alle reazioni più disparate per quella tua realizzazione. A tua madre quella musica era piaciuta moltissimo; la giovane regista del film, “la matta” come amavi chiamarla, era addirittura entusiasta. La tua battaglia l’avevi vinta: la tua tossicodipendenza non poteva essere il parafulmine delle assenze degli altri. La capacità di arrivare al tuo valore aveva svelato la delinquenza e l’invidia dei più.
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La tua ragazza, da quando ti aveva lasciato, si era appoggiata in casa di un tuo amico e si era portata via la tua macchina come pegno per dei soldi che lei riteneva tu le dovessi restituire. Era evidentemente solo un pretesto e questa cosa ti dava un gran fastidio. Un giorno arrivasti in seduta con l’aria più sorniona del solito e...
“Ieri sera ero solo in casa ed ero incazzato perché proprio non riuscivo a capire il motivo per cui dovessi rinunciare alla mia macchina. Le questioni di denaro non c’entrano, perché da quando siamo a Roma ho sempre sostenuto io le spese di casa e le ho dato anche l’occasione di lavorare nel cinema e di guadagnare. Beh, ieri notte rimuginavo e camminavo avanti e indietro per la casa pensando che proprio non era giusto, quando, ad un certo punto, ho avuto l’impulso di prendere la moto e di andare sotto casa del mio ex-amico che la ospita. Ho cercato la mia, e sottolineo mia, macchina, l’ho trovata e con le seconde chiavi me la sono portata via. Poi tra mille palpitazioni sono tornato quatto quatto a riprendere la moto e ho guadagnato casa nel cuore della notte”.
“Meraviglioso!”, dissi ridendo.
“Lo sapevo che le sarebbe piaciuto!”, fu il tuo commento accompagnato da una sonora risata.
“Aspetti, non ho finito. Quando poi lei mi ha chiamato con la coda tra le gambe per dirmi che la macchina era stata rubata, non solo sono stato muto come un pesce, ma ho anche fatto finta di arrabbiarmi per la incuria evidente con cui aveva tenuto l’auto... Non avrò esagerato?”.
“Fantastico!”, fu il mio commento.
Qualche giorno dopo la invitasti a casa per sciogliere l’arcano, ma lei si arrabbiò moltissimo e se ne andò in preda al delirio, sotto i tuoi occhi che la guardavano con amore.
“Mi sono rivisto e avrei voluto fermarla... ma poi l’ho lasciata andare”.
Ti rassicurai perché era in buone mani sul piano psicoterapico e poi... forse lei doveva mettersi in una nuova posizione per potere comprendere ed accettare quel tuo movimento da fidanzato geloso. Quella “bella botta di sanità”, come la chiamai, fu l’occasione per te di rivisitare il nostro rapporto terapeutico e per me di rilanciare una nuova sfida. Ma andiamo con ordine...
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“La devo proprio ringraziare”. Ti guardai in modo interrogativo e rimasi in silenzio in attesa. “Se non ci fosse stata lei sarei impazzito”.
Rimasi di sasso per due motivi: perché me lo dicevi e perché... era terribilmente vero. Risposi che il nostro lavoro aveva solo messo a fuoco le tue capacità: quella fu l’unica cosa che dissi anche se da tempo andavo pensando che la decisione della Comunità di mandarti a Roma in una situazione emotiva ancora così aperta era stata estremamente pericolosa. Nella tua storia Roma si collegava ad un fallimento affettivo e professionale e una ricaduta avrebbe potuto compromettere per sempre il tuo rapporto con la musica.
“Ho pensato anche che il suo è un bel lavoro. Ci vuole creatività”.
“Esattamente come il suo”, risposi.
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Le risate
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“Si sente che c’è una storia in questa storia, a partire dal linguaggio. Non capisco molto, ma va bene”. Metti le parole in modo tale da evitare di darmi del tu, come avviene nell’Organismo. Ne approfitto per dire di quando il linguaggio si libera dalla identificazione con i padri. Le quattro ore scorrono lievi e alla fine sei l’ultimo ad uscire. Nel corridoio ti affacci nella piccola stanza del pianoforte bianco.
“Anche io da ragazzino avevo un pianoforte bianco. È tuo?”. Annuisco. Ci ritroviamo ancora una volta... come sempre.
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“Stavo uscendo dalle rovine di una casa devastata. Ci sono altre persone, ma mi accorgo in particolare di un uomo, sconosciuto. Ci allontaniamo dalle macerie seguendo un sentiero di terra e alla fine del sentiero l‘altro uomo trova una donna ad attenderlo. Li vedo allontanarsi insieme mentre io rimango solo. Nessuna donna aspetta me e mi sento uno sfigato”.
Entrare nell’Organismo era l’occasione per uscire una volta per tutte dalla casa del padre, quella delle identificazioni obbligate di cui riconoscevi la violenta devastazione, ma questo comportava affrontare l’abbandono da parte della madre che ti lasciava esposto a sostenere in solitudine, e senza amore, la differenza con gli altri.
“Una parte di te ritiene che non ci siano donne in grado di aspettarti. È una negazione che porti nel rapporto, un a priori che ti intossica. Ma è realmente un tuo pensiero oppure è il frutto avvelenato di una identificazione che ti impedisce di essere?”.
‘Ecco l’ostacolo più grande alla sua espressione creativa - pensavo - più si differenzia e più sente la solitudine come abbandono. Non è la musica a portarlo alla morte, è il pensiero ingannevole che tutto ciò che lo porta verso una originalità lo lascia inesorabilmente solo: ecco il perché della simbiosi!’, mi dicevo. La simbiosi quindi offriva il vantaggio di ripararti dall’annosa questione dell’odio e dell’invidia, provati e subiti.
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“C’erano dei bambini che mi inseguivano facendo una grande cagnara. Era una sorta di banda, ma non sapevo che cosa volessero da me. Ad un certo punto mi prendono e, pigiando le loro dita, mi strappano la pelle dei polpastrelli delle mani. Non provo dolore, è come un gioco dove tutti ridono. Nell’immagine successiva mi trovo a guidare un pullman pieno di bambini”.
“Qui è in ballo la trasformazione e non un cambiamento!”, dico.
Avevi compreso che venire all’Organismo significava strappare via le identificazioni di sempre... e lo facevano dei bambini! E mentre il tuo inconscio riprendeva la questione della identità libera dalle identificazioni, ricompariva il guizzo onnipotente, seppur giocoso, che ti portava a guidare tu le situazioni.
“Insomma, smettila di fare il salvatore! Lo vuoi capire o no che qui a condurre sono io?”, dico ridendo.
La depressione impotente era il contenuto silente e velenoso di quella onnipotenza che andava anche oltre la tua autentica curiosità nei confronti degli altri.
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“Io mi fido del tuo inconscio... tu neppure lo ascolti”, dico mentre l’inerzia prende il sopravvento. Tuttavia, la presenza degli altri non ti permette le lamentazioni di sempre.
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“Rien ne va plus”
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“Che ci fai qui?”, chiedo sorridente mentre con un colpo d’occhio raccolgo la tua eleganza e il tuo imbarazzo. Ti porto al bar per parlare in modo informale e, seduti davanti a due tazze di tè fumanti, mi dici che sei stato molto male in quei mesi.
“Non mi alzavo neppure più dal letto. Ricordi quando ti parlavo del padre della mia ragazza? Peggio, molto peggio. Sono diventato un barbone in casa e ad un certo punto non ce l’ho fatta più: ho ricominciato a farmi. Sono venuto qui perché non sapevo cosa altro fare”.
Ti rispondo che hai fatto bene a chiedere aiuto e quella stessa mattina avrei parlato con il tuo medico di riferimento.
“Per quello che mi riguarda io rimango ad aspettarti nell’Organismo. Mi sembrerebbe di negarti qualcosa se ti offrissi nuovamente un lavoro individuale... e io non voglio negarti nulla. Puoi guarire: ricordi le risate dei tuoi sogni?”.
Mi confermi che anche in quei mesi avevi continuato a ridere nei sogni in barba alla tua depressione.
“Vedi? Tu non capisci nulla, ma il tuo inconscio capisce e cerca... Fai quello che devi, io rimango ad aspettarti”.
Con un sorriso tenero e una ritrovata intimità rispondi: “Forse è vero che il mio inconscio ne sa più di me, ma non riesco a dargli retta”.
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‘Mi è venuto a cercare nella casa del padre - pensavo - Lui ci può anche tornare, ma io lo devo aspettare fuori. Non posso mollare, qualsiasi cedimento da parte mia lo ucciderebbe perché verrebbe interpretato come un segnale di incurabilità’. Sapevo d’altra parte del valido rapporto costruito con il medico, per cui non rischiavi nulla. Con il ritorno alla “casa del padre”, negate le traiettorie della cura, la roulette della casualità riprendeva a girare. Quando mi capitava di incontrarti nella sala della somministrazione, mi bastava un rapido sguardo per capire: quando le cose non andavano bene non mi guardavi neppure e ti amalgamavi così tanto agli altri pazienti che mi riusciva a volte quasi difficile riconoscerti. Sentivo il tuo dolore, ma sentivo anche che non mollavi.
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“Ho saputo delle cose importanti e mi piacerebbe poterne parlare insieme”.
Acconsento mentre la percezione della tua gioia nell’avermi ritrovata mi rievoca la telefonata alla psicoterapeuta di Comunità quando, con un entusiasmo davvero inusuale per te, le avevi parlato del nostro primo incontro e della mia proposta di lavorare insieme.
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“Anche io ho chiuso le porte alla terapia individuale, ma tu hai delle precise responsabilità in proposito”. Annuisci con un lieve rossore del volto.
Rabbrividisco mentre racconti che sei stato in Sicilia con lui e hai sentito la contentezza di potertene occupare. Questa vicinanza non era una buona cosa per te, ma rimango in silenzio ad ascoltare quel dolore potentissimo che ti espone al nulla di sempre.
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“Vattene. Cercami quando dirai meno stronzate”. Dopo qualche giorno mi chiami a studio per scusarti e per comunicarmi che lasci Roma per tornare a vivere con tuo padre (il che equivaleva a partire per il Sudamerica e abbandonare la musica): “Ci tenevo molto a salutarti bene”. ‘Ecco il perché del tuo acting disperato, non sapevi come dirmelo!’, penso.
Nell’incontro ti dico accorata che questo ritorno alla casa del padre è un suicidio: “È come andare a vivere con lo spacciatore che ti espone alla delusione di sempre”. Annuisci con il capo chino, ma la malattia ha deciso per te. Forse vuoi essere fermato fisicamente dato che mi viene l’immagine di pararmi davanti alla porta, ma anche quella è una trappola estrema. ‘Posso accettare la sua scelta senza condividerla e senza cadere in un ruolo genitoriale’. Ti esorto a non mollare il lavoro psicoterapeutico, ma una grande pena mi assale quando chiudo la porta. ‘Mi sta costringendo ad assistere impotente ad un errore che può essergli fatale’, penso mentre mi tornavano alla mente spezzoni di frasi: “Quando passo a Roma - tanto ci capito spesso - posso passare a salutarti?”. “Certo”. Il nostro rapporto tornava nell’ambito della stessa casualità di partenza da cui, per un attimo, un lungo attimo, era uscito. Il giro della ruota continuava solo per inerzia e la pallina saltava impazzita da un numero all’altro prima di posarsi definitivamente su quel numero che decreta vincitori e vinti.
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“Ciao Concetta,
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“Ciao G.,
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“Ciao Concetta,
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Ti scrivo questa mail da casa di mio padre a Torino, così come la volta scorsa. Ero qui perché il giorno dopo ho preso un treno per Bologna per assistere alla presentazione di un documentario […] di cui ho curato il montaggio del suono adattando alcune delle mie migliori musiche: questo lavoro mi ha molto coinvolto emotivamente per diversi motivi. Appena l'avrò te ne manderò una copia; credo che potrebbe interessarti. Io ti penso molto e mi piacerebbe molto rivederti e parlare un po’ con te. Sono di nuovo fuggito da Roma, non ce la facevo proprio più, non ce l'ho fatta più: la seconda volta si fa più fatica, molta più fatica, troppa... Mi stavo dimenticando che abbiamo deciso di scrivere a penna. Tra l'altro nel giro di una settimana dovrei scendere a Roma per un documentario”.
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‘Sta succedendo qualcosa a qualcuno che mi è vicino’, pensai e mi sovvenne quel pensiero solitario e strano. Sbirciando su Internet le notizie erano sempre le stesse, eppure non ero tranquilla. ‘Troppa staticità’, pensavo, e così cominciai a fare una cosa che non avevo mai fatto prima di quel momento: non c’era giorno che non cercassi tue notizie... finché una mattina...
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Frammenti di arcobaleno
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Ma non siamo tutti dei condannati a morire? E quello che fa la differenza non è forse come arriviamo a quel momento?
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Più scrivevo e più avevo la certezza di essere rimasta viva in te fino alla fine, a parlarti della speranza della ricerca artistica. Tutto questo è venuto dopo la domanda più amara: non ero intervenuta in qualche punto del percorso pur avendone avuto l’occasione? Ti avevo forse tradito in qualche modo? Ma più cercavo dentro di me e nella nostra storia e più trovavo la limpidezza di un dolore senza colpe.
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Ecco, io ho risposto a tutto questo che reclamava una speranza, una possibilità. C’era un cuore in attesa che si esprimeva attraverso quelle forme e io ho risposto senza pensare, senza pensare al futuro. Forse un futuro non ce l’avevamo. Ma nel presente ascoltavi attento e silenzioso nel mentre ti nutrivi di un confronto artistico che ti era stato sempre negato nel timore dei più che tu riuscissi ad arrivare pienamente alla tua arte e divenire Artista. “Gli artisti fanno sempre una brutta fine, si sa!”. Non è forse questo il monito che continuamente riporta l’Arte ad una dimensione di buon artigianato?
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Werner Herzog e l’umanità perduta. SOGNARE UN IMPOSSIBILE SOGNO di Claudia Amato. Anno 2014
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SOGNARE UN IMPOSSIBILE SOGNO
Claudia Amato
“Chi sogna può spostare le montagne”.
Claudia Amato
“Chi sogna può spostare le montagne”.
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Immagine tratta dal film Fitzcarraldo di Werner Herzog
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L’equipaggio non sa e neppure intuisce il senso dell’impresa e il suo collegamento al sogno. In contrapposizione, “... Gli Indios della foresta pensano che la vita non esista e che sia soltanto un’illusione, dietro la quale si nasconde la realtà dei sogni”. Contrapposizione di mondi e in mezzo Fitzcarraldo, il quale risale il fiume, tra i tam tam della foresta che non cessano di rullare minacciosi. Un silenzio ancora più minaccioso è la risposta al lancio incauto di una miccia... poi un segnale di morte e il tam tam riprende ancora più frenetico. Fitzcarraldo mantiene la calma perché conosce il segreto della musica: glielo hanno insegnato i bambini! Porta il suo grammofono sul punto più alto della nave e il canto di Caruso riempie l’aria e la irrora, come acqua che cade in un deserto. I tamburi smettono di rullare: tutta la foresta vergine è in ascolto.
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Ogni frammento della rivolta contiene in sé l’incessante tormento, derivante da un continuo senso di impotenza. La rivolta dei piccoli obbedienti sembra mettere a nudo una deformità psichica che viene considerata connaturata all’uomo, come è organico il danno legato all’essere un nano: i nani non sono destinati ad aumentare la propria altezza. La rabbia cieca dell’impossibilità diventa strumento violento di vendetta per una possibilità che non viene loro riconosciuta. Braccati, schiacciano ogni possibilità di nascita e di divenire, restituendo quanto è stato loro dato: si susseguono, in un crescendo di vandalismi, atti di crudeltà, uccisioni di tutto ciò che è vitale, per rappresentare come, in un tempo lontano, è stata distrutta la loro innocenza. Come il camioncino gira continuamente in cerchio senza possibilità alcuna di cambiare direzione, allo stesso modo a Hombre non resta altro che la sua risata allucinata, di fronte a un dromedario in ginocchio, come a dover chiedere perdono per qualcosa che non ha mai commesso. La sua voce metallica sembra prolungarsi meccanicamente all’infinito e dissolversi nel nero della disperazione di un uomo per il quale non è possibile superare un’ingiustizia, una perdita, un danno subìto.
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Questo scritto è una rielaborazione del precedente scritto “Sognare un sogno impossibile” in L’ArcoAcrobata, Rivista di Scienze Umane ed Arte, Anno III, n.5, Musicalificio Grande Blu Ed., Roma 2004. Vai nella sezione Archivio della Homepage.
BIBLIOGRAFIA
F. GROSOLl, E. REITER (a cura di), Werner Herzog, Editrice Il Castoro, Milano 2000.
W. HERZOG, Fitzcarraldo, Ugo Guanda Ed., Parma 1997.
P. MEREGHETTI (a cura di), Dizionario dei film 2004, Baldini Castoldi Dalai Ed., Milano 2003.
W. HERZOG, Fitzcarraldo, Ugo Guanda Ed., Parma 1997.
P. MEREGHETTI (a cura di), Dizionario dei film 2004, Baldini Castoldi Dalai Ed., Milano 2003.
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"Non so cosa sia la paura"
Intervista a W.Herzog, 13 Novembre 2014
Intervista a W.Herzog, 13 Novembre 2014
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Composizioni originali. L’URLO DEL CONTRABBASSO di Sebastiano Dessany. Anno 2014
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L’URLO DEL CONTRABBASSO
Sebastiano Dessanay
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Introduzione
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Background
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Genesi del libretto
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Struttura, personaggi e trama
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Tematiche
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Strumentazione e simbolismo
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Linguaggio musicale
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L'armonia è stata trattata come un personaggio, oscillante tra stati di consonanza o dissonanza a seconda delle diverse situazioni. Nell'Atto Primo ad esempio c'è una costante alternanza tra consonanza e dissonanza che descrive la tensione tra l'innocenza del BAMBINO e l'avversione delle persone intorno a lui. Nell'Atto Secondo l'armonia diventa più ambigua, a significare i dubbi del RAGAZZO, mentre diventa più consonante nel drammatico finale dell'atto. L'Atto Terzo invece inizia con del materiale dissonante che riflette le difficoltà del RAGAZZO fino ad arrivare ad un'armonia più consonante nel finale dell'opera.
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Conclusioni
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