Uomo e Società
MARCOS. HISTORIA DE DEMOCRACIA, JUSTICIA Y LIBERTAD di Valeria Amato. Anno 2019
MARCOS
Historia de democracia, justicia y libertad
Historia de democracia, justicia y libertad
Valeria Amato
In Messico dopo la conquista del 1521 e la distruzione dell’Impero Azteco le popolazioni indigene furono sterminate e i sopravvissuti, sottomessi alla brutale oppressione dei conquistadores, furono cacciati dalle loro terre. Dopo l’indipendenza del Messico nel 1810 e la Rivoluzione del 1911 condotta da Emiliano Zapata, per quanto scoppiata al grido di “Terra e libertà!”, la sorte degli Indios del Chiapas non migliorò: l’emarginazione, lo sfruttamento e il disprezzo nei loro confronti continuarono così come il lento sterminio praticato dai grandi proprietari terrieri aiutati dal governo socialista sostenuto dal Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI) e da bande di assassini paramilitari ai loro ordini.
Tutto questo fino a quando, all’inizio degli anni Ottanta, tre meticci e tre indigeni si inoltrarono nella Selva Lacandona con l’intento di prepararsi a combattere nel momento in cui le ‘comunità degli invisibili’ avessero deciso di passare all’azione e di ribellarsi alla dittatura. Gli inizi furono lenti e difficili, vissuti tra solitudine e adattamento all’ambiente: case, piante medicinali e cibo dovevano essere strappati alla montagna poiché non c’era ancora l’appoggio totale da parte delle diverse etnie dei vari villaggi. Occorreva imparare a muoversi silenziosamente ma con efficacia, e mantenere il segreto con le proprie famiglie per evitare ad ogni costo di essere individuati dal nemico.
Il gruppo dei sei solitari sin dal principio scartò l’idea di agire come gruppo armato, colpendo e ripiegando; scelse di prepararsi senza mostrarsi per dare inizio alle azioni quando già avessero avuto un’ampia base sociale d’appoggio e un folto numero di combattenti che fu raggiunto nel 1989 quando diventarono mille e trecento. Se gli anni Settanta rappresentarono l’inizio dell’insurrezione contadina in Chiapas, durante la quale partì l’idea di creare un’organizzazione indipendente dallo Stato e dalla Chiesa, gli anni Ottanta videro le diverse etnie formare organizzazioni indigene in grado di lottare per recuperare le terre di cui si erano appropriati i possidenti, creare nuove cooperative per eliminare l’usura degli intermediari e dei commercianti, destituire le autorità corrotte imposte dallo Stato. In questo modo la lotta contadina ruppe l’isolamento, pose rimedio alla dispersione e ampliò le aree di conflitto riuscendo a superare le difficoltà e l’improvvisazione dei primi anni. La repressione da parte dello Stato con a capo il presidente Carlos Salinas, intento a far svanire il movimento contadino dalla mappa della politica messicana, fu devastante: uomini, donne e bambini indios, fatti prigionieri, furono torturati, lasciati morire di fame, legati alle jeep militari e trascinati per chilometri fino ad essere uccisi.
In mezzo a questa ondata di violenza un fatto sopravvenne a offrire agli indigeni e alla popolazione messicana tutta uno spazio umano di denuncia, comunicazione e nuova organizzazione. È il 14 gennaio 1983 quando a Plaza dello Zòcalo è guerra, e si sa che la guerra è un cammino buio che mai evolverà: “Quelli che la scelgono sono i disperati della politica, della condizione sociale, della condizione femminile, del razzismo nei loro confronti”. E quando tutti questi ‘soldati’ uniscono la loro disperazione e si organizzano per ristabilire la folle supremazia dell’uno su tutti, allora, anche l’omicidio di un bambino passa sotto silenzio. Un uomo di nome Marcos si prepara a lasciare la sua casa a Città del Messico per andare a combattere in Chiapas: lascia un biglietto della metropolitana, un monte di libri, un lapis spezzato, un quaderno di poesie e decide di portare con sé 12 libri tra cui il Canto Generale di Pablo Neruda, Poesie di Miguel Hernández e di Léon Felipe, El Ingenioso Hidalgo Don Quijote de la Mancha di Miguel de Cervantes Saavedra, qualcosa di Julio Cortázar, le Memorie di Francisco Villa. Parla correntemente l’inglese, il francese e lo spagnolo, non avrà problemi a farsi capire tra le montagne, benché sia un meticcio. Cosa sta cercando? Forse ciò che salva l’essere umano dal degradarsi a macchina, ovvero la capacità di stupirsi.
Il primo gennaio del 1994 il Messico si svegliò con due novità: l’entrata in vigore del Trattato del Libero Commercio dell’America del Nord (TLC, meglio conosciuto come NAFTA) firmato da Messico, Stati Uniti e Canada in favore di una progressiva eliminazione di tutte le barriere tariffarie fra i paesi che aderivano all’accordo, e una rivolta scoppiata nel sudest indigeno, prodotto di un’emarginazione e di una povertà simili a quelle della vigilia della Rivoluzione messicana del 1910. Centinaia di indigeni armati e incappucciati occuparono sette capoluoghi dello Stato del Chiapas presentandosi come l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) e nella Prima Dichiarazione della Selva Lacandona spiegarono le cause della loro insurrezione: no al libero commercio e ai pesanti dazi imposti all’agricoltura messicana, no agli investimenti privati e al libero movimento di capitali, no alla concorrenza sleale delle industrie statunitensi che costringono i messicani a vendere le loro attività e a emigrare; sì a terra, lavoro, casa, cibo, salute, istruzione, libertà, indipendenza, democrazia, giustizia e pace per tutte le cinquantasei etnie della nazione. La notizia secondo cui i gruppi di Tzotziles, Tzeltales, Choles, Tojolabales, Zoque e Mames stavano ravvivando il fuoco rivoluzionario aizzato da Emiliano Zapata decenni prima, colse di sorpresa tutto il Messico.
L’insurrezione indigena assunse, dunque, una rilevanza di proporzioni uniche tanto che la stampa si mosse alla volta di questa regione maya confinante con il Guatemala (e con il maggiore tasso di mortalità infantile del Paese), quando un uomo dal volto coperto e dal nome di battaglia Subcomandante Insurgente Marcos, rompendo con la rigidità storica del discorso rivoluzionario, parlò all’intero Paese.
“Eccoci! Siamo la dignità ribelle, il cuore dimenticato della patria. Messico, noi non siamo venuti per dirti cosa fare, non siamo venuti per condurti da qualche parte. Siamo venuti a chiederti umilmente e rispettosamente di aiutarci, noi che siamo dello stesso colore della terra. È tempo che questo Paese cessi di essere una vergogna. È l’ora dei popoli indigeni”.
Di cosa devono essere perdonati i popoli indigeni - dice Marcos -, di cosa devono chiedere ‘scusa’: di non morire di fame? Di non tacere la miseria? Di non aver accettato umilmente il gigantesco peso di una storia di disprezzo e abbandono? Di essere insorti quando gli sono state sbarrate le strade dell’umano e della dignità? Di essere prevalentemente indigeni e di combattere per democrazia, giustizia e libertà? Di non seguire i modelli delle precedenti guerriglie? Di non arrendersi, vendersi, tradire?
Furono mobilitati oltre tremila soldati: carri armati, aerei, elicotteri iniziarono a bombardare le montagne del Chiapas davanti allo sconcerto della società civile che, presto, si trasformò in solidarietà di massa di fronte alla parola dell’uomo dal volto mascherato. Il 4 settembre 1994 decine di migliaia di persone marciarono nella capitale per reclamare un cessate il fuoco al neo-presidente Ernesto Zedillo (PRI) che, dapprima, si vide costretto ad aprire i negoziati di pace con gli insorti, poi lanciò un’offensiva militare nella regione zapatista diffondendo un ordine di cattura per il presunto incappucciato: Rafael Sebastiàan Guilén Vicente, nato nella città portuale di Tampico, proveniente da una famiglia proprietaria di un mobilificio locale, laureato con lode presso la facoltà di lettere e filosofia della Universidad Autònoma Metropolitana e ricercatore presso la stessa. La foto di un uomo giovane, barbuto, dalle sopracciglia folte e il naso dritto iniziò a circolare nelle redazioni dei giornali, mentre una forte rete di sostegno intorno allo EZLN, convertito oramai in movimento pacifico, si andò rafforzando sempre di più.
Nell’agosto del 1995 il movimento aprì le porte del suo territorio al resto del Paese per sconfiggere la lotta armata e avviarlo a una battaglia aperta e civile. Si crearono spazi di incontro politico e culturale chiamati Aguascalientes a cui parteciparono intellettuali, artisti, lavoratori, indigeni, giornalisti provenienti da ogni parte del mondo, tutti per lavorare a riforme costituzionali in grado di sradicare le disuguaglianze prevalenti, convertire in legge forme di governo democratiche, ristabilire il principio dell’autodeterminazione del proprio territorio e delle risorse naturali. Per la prima volta nella storia del Messico i popoli indigeni entravano nell’agenda della politica.
“Pensiamo che, dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989, e la scomparsa dell’Unione Sovietica nel 1991, sia finito il vecchio mondo bipolare e che il potere abbia subito un nuovo spostamento. Non è più una potenza imperialista, nel significato classico del termine, che domina il resto del mondo, ma è un nuovo potere che si impone, un potere sovranazionale, il potere del capitale finanziario”.
Da allora questo tipo di potere, stimolato dalle politiche neoliberiste americane, ha preteso sempre più di dare ordini ed elevare barriere che impedissero lo sviluppo delle piccole-medie imprese nazionali. La globalizzazione, così intesa, ha diviso il mondo in tre zone (gestori-imprenditori, officine di montaggio, lavoratori condannati a fare i lavori più ingrati) e, con tutta la seduzione di cui è intrisa, ha iniziato ad appropriarsi di elementi culturali per omogeneizzare il mondo e consentire all’individuo, sì di occupare un posto nella società, ma solo se è in grado di produrre e acquistare. Tutti gli altri? Essendo di troppo si è tentato di eliminarli, ora attraverso il sistema dell’elemosina, ora manipolando le loro intelligenze, ora eliminandoli del tutto.
“E allora vi chiedo: in base a cosa, fino ad oggi, si giudicava una società, una civiltà? In base ai suoi criteri di bellezza, di creatività, di saggezza, di etica, di giustizia, di morale, di onestà (…) che in un apparato manipolatore come questo non esistono nemmeno come ombra? Tra tutti gli abitanti del Messico gli indigeni sono i più trascurati. Sono considerati dei cittadini di seconda classe, un fastidio per il Paese. Ma noi non siamo dei rifiuti, noi facciamo parte dei popoli che hanno una storia e saggezza millenarie. Di popoli che, per quanto calpestati e dimenticati, non sono ancora scomparsi. E aspiriamo a diventare dei cittadini come gli altri. Vogliamo far parte del Messico, ma senza perdere la nostra specificità, senza essere costretti a rinunciare alla nostra cultura: in breve, senza cessare di essere indigeni. La Repubblica messicana ha un debito verso di noi. Un debito vecchio di due secoli, che potrà saldare solo riconoscendo i nostri diritti e rifiutando di accettare che la logica della globalizzazione ci marginalizzi ancora di più”.
I dislocamenti militari del 1995 esasperarono l’ambiente del Chiapas e a poco a poco travolsero le comunità zapatiste, ancora una volta, in un crescendo di repressione e violenza. Nonostante tutto, sul tavolo delle trattative, dopo dieci mesi di tira e molla, nel febbraio del 1996 nacque il primo documento di pace conosciuto come Accordi di San Andrés in riferimento al nome della città in cui venne stipulato. In questo documento il governo federale si impegnava a riconoscere costituzionalmente il diritto all’autonomia dei popoli indigeni, anche se nove mesi dopo ritrattò e presentò una nuova proposta. Chi era contro sosteneva che il Paese avrebbe subito una frammentazione, chi era a favore considerava tale autodeterminazione già stabilita (Convenzione 169 della Organizzazione Internazionale del Lavoro - OIL - dell’ONU, sottoscritta dal Messico). L’esigenza di un adempimento degli Accordi fece, quindi, scattare la molla dell’attivismo zapatista in tutto il Messico e in Occidente.
Contemporaneamente il governo lanciò una strategia controrivoluzionaria fatta di gruppi armati civili che, attraverso posti di blocco e incursioni nel cuore della notte, aggredirono e uccisero persone innocenti bruciando le loro case. L’EZLN, minacciato dal governo di non poter transitare liberamente per il Paese, decise di rompere l’assedio militare e paramilitare pretendendo l’adempimento degli Accordi traditi. L’8 agosto migliaia di persone videro su maxischermi montati in tutte le piazze del mondo, un video del Subcomandante Marcos nel quale egli esponeva chiaramente le idee zapatiste per il cambiamento sociale e la democrazia, chiarendo così la portata delle questioni sottoposte al referendum.
“Rivendichiamo tre cose: libertà, giustizia e democrazia. Non vogliamo il potere e nemmeno diventare partito politico (…). Preferiamo definirci come un movimento ribelle che rivendica dei cambiamenti sociali. Il termine ‘rivoluzionario’ non mi sembra adatto perché ogni dirigente o movimento rivoluzionario tende a voler diventare dirigente o attore politico, mentre un ribelle sociale non smette mai di essere un ribelle sociale. Un rivoluzionario vuole sempre trasformare le cose cominciando dall’alto, mentre il ribelle sociale le vuole cambiare cominciando dal basso. Il rivoluzionario dice: prendo il potere e poi, dall’alto, trasformo il mondo. Il ribelle sociale agisce diversamente. Organizza le masse e, partendo dal basso, trasforma a poco a poco le cose senza porsi la questione della presa del potere.
L’EZLN è un movimento insurrezionale senza un’ideologia precisamente definita. Non si inquadra in nessuna delle categorie politiche classiche: marxismo-leninismo, socialcomunismo, castrismo, guevarismo ecc. Noi pensiamo che i movimenti rivoluzionari, per quanto rivoluzionari essi siano, sono in fondo dei movimenti arbitrari. Quello che deve fare un movimento armato, è sollevare un problema - mancanza di libertà, carenza di democrazia, assenza di giustizia - e poi scomparire. Noi siamo fieri di esserci ribellati. Vogliamo occupare uno spazio dignitoso nella nuova geografia della ricostruzione nazionale. (…) Vogliamo che lo Stato ammetta che il Messico è costituito da popoli diversi. Che i popoli indigeni possiedano la loro propria organizzazione politica, sociale ed economica. E che intrattengano una relazione forte con la loro terra, la loro comunità, le loro radici e la loro storia. Questo riconoscimento è una condizione fondamentale perché l’EZLN abbandoni definitivamente le armi, la clandestinità, il passamontagna e partecipi alla vita politica”.
Il coprirsi il volto, per Marcos, corrisponde a un paradosso e a una scelta profondamente politica. Lo fa contro il protagonismo e la corruzione che ad esso segue, ma anche affinché qualunque messicano, senza una storia brillante né un passato glorioso, possa essere Marcos, unirsi a un movimento giusto e legittimo e lottare per i suoi diritti; e non con un’arma… magari con un microfono, una penna, un foglio, una macchina fotografica! Così, l'immagine del passamontagna, che pare venire dopo il risveglio da un sogno, pone l’uomo dinanzi a uno specchio che gli restituisce il volto dei suoi fratelli indigeni e insegna che non esistono combattenti né comandanti individualizzati ma che, come succede nelle comunità, chi ‘comanda’ sono le persone che ne fanno parte. E da questo sogno, da questo passamontagna, la popolazione parte per proporre in modo nuovo le trasformazioni sociali in corso: trasformazioni che consistono nel sottoporre ogni passo alla volontà delle maggioranze, nella comunità contadina attraverso l’assemblea, nella società attraverso la democrazia. Quando la popolazione indigena abbandonerà le armi, il passamontagna e la clandestinità? Quando la Costituzione del Messico accetterà che il mondo è rotondo, senza angoli o castighi dove relegarla.
“Una popolazione india senza terra non è una popolazione india, la lingua e tutto il resto si deteriorano: se si distrugge la terra, non ci sono più radici; è come se eliminassero tutta la nostra famiglia, non saremmo nemmeno orfani. Perché anche quando ti ammazzano la madre, continui ad essere chi sei, ma in questo caso ti strappano via il cuore, l'anima”.
La comunità è l’organizzazione sociale primaria del genere umano che nelle Americhe sopravvive dall’Alaska fino alla Terra del Fuoco. Là dove esistono etnie indigene esse sono abitualmente organizzate in comunità, coese tra di loro non per necessità ma per via di un processo elaborato che si è evoluto nel tempo. Sopravvivere in un ambiente avverso come la Selva, coltivare a quattromila metri di altezza o realizzare grandi opere di irrigazione, può essere fatto solo da un consistente nucleo umano ben organizzato che vive la natura come elemento amico, necessario per integrarsi armoniosamente all’ordine del cosmo, e non pretende che la realizzazione dell’uomo si raggiunga proporzionalmente al suo allontanarsene.
Dai tempi della Conquista fino ad oggi, le comunità hanno sempre mantenuto una certa autosufficienza che gli ha permesso di dedicarsi ad una varietà di coltivazioni, lavori di artigianato e specializzazioni. La famiglia allargata, dai nonni fino ai più piccoli, è l’unità economica della comunità indigena dove la donna svolge una funzione fondamentale nella diffusione della cultura, tramite la lingua, essendo la depositaria dei valori e delle norme ancestrali. Ogni famiglia possiede una parcella di terreno che non può essere venduta a persone estranee alla comunità in quanto la terra è un bene pubblico e non privato, non una merce ma un territorio che fa parte dell’eredità culturale comune: non è la terra ad appartenere all’uomo, ma l’uomo che appartiene ad essa. Per questo perderla significherebbe perdere le radici, l’identità, la vita stessa.
Nelle comunità la massima istanza è l’assemblea, per lo più formata da donne, che decide periodicamente i lavori da fare, amministra la giustizia assegnando incarichi civili annuali eletti dal popolo e vincolati a precisi obblighi, assicura lo svolgersi coerente di uno stile di vita democratico. La comunità è lavoro e realizzazione quotidiana che si costruisce e si sviluppa grazie al confronto e non al conflitto, ed è possibile attraverso l’organizzazione municipale, il lavoro e la proprietà comune che hanno consentito agli indigeni del continente e alla società urbana di resistere a cinque secoli di dominazione e di oppressione senza perdere i loro valori fondamentali. La cultura, quindi, concepita come terreno fertile dove mettere in gioco passato-presente-futuro verso la trasformazione ed il mantenimento di una identità dalla pelle scura (lingua, territorio, religione, costumi, unità e progettualità), pone accanto alla funzione di coesione esercitata dalla comunità, quella di differenziazione portata avanti dall’associazione. Come a dire che finché si fa politica tra le montagne, a volto scoperto, la lotta per scalzare la dittatura conserva sempre un alone di menzogna; se invece si scende in piazza con una ragione che va al di là dell’ideologia golpista, seppure a volto coperto, sì che si può dare un senso alla nazione fatta da cittadini e non da statali.
La struttura attuale dell’EZLN ha iniziato a prendere corpo all’inizio degli anni Novanta, a partire dal momento in cui fondatori e sostenitori affidarono al Subcomandante Marcos il compito di tenere i contatti e stabilire un dialogo con la società civile, considerandolo come il traduttore del pensiero indigeno verso la società meticcia e la comunità internazionale. Se le altre organizzazioni rivoluzionarie e i partiti politici esistenti in America Latina presentano tutti una medesima struttura piramidale (al vertice la direzione politica rappresentata da un unico partito, al centro l’esercito popolare, in basso i sindacati, le organizzazioni di massa, di quartiere, studentesche, ecc.), l’organigramma dell’EZLN si mostra sin dall’inizio come una coppa che vede le numerose comunità nominare i propri rappresentanti-comandanti (CCRI) attraverso assemblee aperte presiedute da uomini e donne di qualunque estrazione sociale. In alcune occasioni il CCRI affida il bastone del comando dei sette colori, tipico della tradizione maya, a Marcos: si tratta di un atto fortemente simbolico attraverso cui l’apparato politico deposita ogni decisione, civile e militare, nelle mani di una persona designata che assume in maniera degna tale comando.
Ogni volta che le comunità contadine hanno scelto il Sup (vezzeggiativo di Marcos) come depositario dei colori della bandiera nazionale, del sangue, del mais e della terra, lo hanno posto di fronte ad uno specchio che gli ha sempre restituito l’immagine di un giovane uomo che, seppur vestito come un guerrigliero, con pantaloni neri e un berretto rammendato color caffè, ha sempre tentato di proteggere la sensibilità, la purezza di intenzioni, il coraggio e la coerenza etica con lo stesso ritmo incontenibile dei fiumi straripanti della Selva. E tenendo stretto al petto quel bastone Marcos ha voluto utilizzarlo come omaggio alle bambine che ogni mattina si tengono in spalla i loro fratellini mentre lavano i panni al fiume; ai bambini scalzi e denutriti che sanno sorridere ancor prima di imparare l’abbecedario; alle donne infaticabili, piegate in due sotto il peso di enormi fascine di legna; agli uomini e ai giovani che sanno coniugare i verbi della solidarietà e della reciprocità con un sorriso sulle labbra. Ed è, infine, un omaggio agli indios e ai meticci come lui che si impegnano a difendere ogni giorno la loro identità con la stessa naturalezza con cui i ruscelli scendono dalla montagna.
“Per questo io dico sempre: vuoi sapere chi è Marcos, chi si nasconde sotto il suo passamontagna? Prendi uno specchio e guardati, il volto che scoprirai è quello di Marcos. Perché noi tutti siamo Marcos”.
Il 22 dicembre del 1997 nella piccola comunità di Acteal un gruppo paramilitare nell’area del PRI, i Mascara Roja, fece irruzione accanendosi con inaudita spietatezza sui membri dell’intera comunità. Furono uccisi 45 indigeni dell’Associazione Civile Neutrale Las Abejas - la vittima più giovane, Juana, aveva soli otto mesi - di fronte al corpo di polizia del Presidente Zedillo che attese alle porte del villaggio senza intervenire, anzi, tentando di coprire la ritirata dei paramilitari una volta completata la mattanza. L’EZLN, sebbene insorse in segno di protesta marciando alla volta di Piazza della Costituzione nella capitale, non abbandonò l’intenzione di tentare la via pacifica: organizzò una consulta per chiedere alla società civile di fare giustizia contro un simile delitto e, attraverso la Marcha del color de la Tierra, di rispettare nuovamente gli Accordi di San Andrés.
Nel 2001 il Chiapas, da terra dove era germinato il seme della ribellione, diventò per eccellenza il luogo in cui l’onore, il coraggio, l’onestà, andavano ben oltre i confini del Messico, per toccare il cuore di quella parte di umanità che non aveva mai rinunciato ai sogni e alle speranze con il solo imperativo di una giustizia uguale per tutti. “Noi non ce ne andiamo”, fu l’urlo lanciato dal Subcomandante Marcos, all’indomani della proclamazione del nuovo presidente repubblicano Vicente Fox che, dopo aver sconfitto il PRI, al potere da più di settanta anni, riaprì immediatamente i negoziati per il ritorno della pace nel Chiapas, interrotti dal 1996. Per questo scopo preciso, il 24 febbraio del 2001, Marcos uscì ancora una volta dalla clandestinità e, a bordo di un autobus bianco, sostenuto da migliaia di persone arrivate da tutto il mondo, entrò come un eroe a Città del Messico riprendendo quelle semplici parole, un tempo seme per la speranza: “Eccoci! Siamo la dignità ribelle, il cuore dimenticato della patria (…). È l’ora dei popoli indigeni”. L’annuncio fatto da Marcos agli occhi della comunità civile ebbe un effetto bomba sull’intera classe politica, presa alla sprovvista da questa audace iniziativa che, se da una parte, riconosceva la legittimità della nuova autorità repubblicana, dall’altra gli intimava di riaprire lo spinoso dossier sulla questione indigena.
Alla fine di marzo del 2002 l’EZLN riuscì ad ottenere finalmente un posto in Parlamento grazie al lungo discorso della Comandante Esther sulla questione dei diritti delle donne indigene, trasmesso in televisione. Riforma che durò fino alla vigilia delle elezioni del 2006 quando, salito al potere Felipe Calderon (esponente del Partito di Azione Nazionale), schierato all’estrema sinistra, rifiutò la riforma parlamentare approvando una legge che non riconosceva più l’autonomia indigena. L’EZLN, considerandolo un tradimento, presentò alla Corte Suprema di Giustizia un’istanza per contrastare l’irregolarità della Legge che risultò incostituzionale in ben 330 punti. L’istanza giudiziaria, protrattasi per oltre un anno, ebbe un esito completamente negativo portando l’EZLN alla rottura definitiva col potere politico e alla costituzione di trentanove municipi autonomi (Caracoles), retti da un consiglio comunale e distribuiti in cinque regioni dove furono creati programmi d’istruzione, sanità, giustizia per combattere l’analfabetismo, la mortalità materna e infantile, le malattie riproduttive e a trasmissione sessuale, la fame.
Nel 2008, dalla zona della Garrucha, Radio Insurgente trasmise un comunicato dove la voce di una sconosciuta, Susana, reclamando i dieci punti della Ley Revolucionaria de Mujeres a favore delle donne (1994), scatenò una reazione clamorosa da parte dei politici del Paese. Lo zapatismo, che fino a quel momento aveva rappresentato una miscela di rottura e di continuità, grazie alla voce di Susana si trasformò da movimento di ribellione in identità nazionale. In tutto il Paese si sollevarono movimenti di protesta che, cantando “Ogni donna è come una Ceiba” (albero secolare messicano), decretarono un’iniziativa civile e pacifica a favore delle donne e dell’intera popolazione. A loro, senza distinzione di razza e appartenenza politica, furono riconosciuti diritti e doveri, come partecipare alla lotta rivoluzionaria nel luogo e con il grado determinato dalla loro volontà; decidere liberamente sul numero dei figli da avere e accudire; prendere parte alle questioni comunitarie e, se elette in modo democratico, ricoprire incarichi civili e militari; ricevere un’attenzione primaria per quanto riguarda salute, alimentazione e istruzione; scegliere se, come e quando sposarsi; provvedere alla trasmissione del sapere, dei costumi, della lingua nella continuità e in nome di quell’insieme di elementi che, venendo dalle viscere della terra, sono i soli a permettere all’Uomo di confrontarsi ed evolvere.
Il 1° dicembre del 2012 il ritorno al governo del Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI) risvegliò un attore a lungo rimasto in disparte: l’EZLN, dopo 4 anni di silenzio, tornò a pubblicare un comunicato di denuncia contro la spudoratezza con cui il governo aveva represso le mobilitazioni di protesta contro l’insediamento del nuovo presidente Enrique Peña Nieto che, spacciandosi per progressista, monopolizzò poi il Paese realizzando una vera e propria politica autoritaria. Nel gennaio dell’anno successivo gli zapatisti, partecipando alle proteste in diverse città messicane, chiesero al governo di porre un freno alla violenza scaturita dalla guerra frontale al narcotraffico e ottenendo come risposta una violenta ondata di repressione. In seguito ad un intenso scambio di missive tra il Subcomandante Marcos e numerose personalità della cultura messicana, gli zapatisti denunciarono apertamente il business del traffico della droga e la distruzione del tessuto sociale nazionale. La presa di posizione degli zapatisti fu ulteriormente chiara quando, in una lettera di Marcos ad Ángel Luis Lara (ricercatore spagnolo che vive a New York e membro del movimento Occupy Wall Street) egli definì “un pagliaccio grottesco, campione di polemiche fasciste” il giudice spagnolo Baltasar Garzón per aver ritenuto infondate le accuse contro il dittatore cileno Augusto Pinochet, riguardo a possibili violazioni dei diritti umani contro i cittadini spagnoli in Cile, e per aver sciolto e dichiarato fuori legge il Partito Indipendentista Basco Batasuna. Le ‘blasfeme’ parole di Marcos in quelle missive, tornarono dopo quasi un anno di silenzio a farsi sentire e vedere attraverso Radio Insurgente:
“Il passato 21 di dicembre mentre albeggiava, con decine di migliaia di indigeni zapatisti ci siamo mobilitati e abbiamo preso, pacificamente ed in silenzio, 5 capitali municipali nel sud-orientale stato messicano del Chiapas. Nelle città di Palenque, Altamirano, Las Margaritas, Ocosingo y San Cristobal de las Casas, li abbiamo guardati e abbiamo guardato noi stessi in silenzio. Non è il nostro un messaggio di rassegnazione, né di guerra, morte o distruzione. Il nostro messaggio è di lotta e resistenza.
Dopo il colpo di stato mediatico, che nascose nel potere esecutivo federale l’ignoranza mal dissimulata e peggio truccata, ci siamo presentati per far sapere loro che se non se ne sono mai andati via, neanche noi. Sei anni fa, un segmento della classe politica ed intellettuale uscì a cercare un responsabile per la sua sconfitta. In quel momento noi stavamo, nelle città e nelle comunità, lottando per la giustizia, per una Atenco che non era ancora di moda. In quel ieri prima ci calunniarono e poi ci vollero zittire. Incapaci e disonesti per vedere che in loro stessi avevano e hanno il lievito della loro rovina, pretesero di farci sparire con la menzogna ed il complice silenzio.
Sei anni dopo, due cose rimangono chiare: loro non hanno bisogno di noi per fallire. Noi non abbiamo bisogno di loro per sopravvivere. Noi che non ce ne siamo mai andati (…) in questi anni ci siamo rafforzati ed abbiamo migliorato significativamente le nostre condizioni di vita. (…) Il nostro lavoro ha la doppia soddisfazione di provvedere al nostro necessario per vivere onestamente, e di contribuire alla crescita collettiva delle nostre comunità. I nostri bambini vanno ad una scuola che insegna loro la propria storia, della propria patria e del mondo, come le scienze e le tecniche necessarie per crescere senza smettere di essere indigeni. Le donne indigene zapatiste non sono vendute come merci. Gli indigeni priisti (PRI) vanno ai nostri ospedali, cliniche e laboratori perché in quelli del governo non ci sono medicine, né apparati, né dottori né personale qualificato. La nostra cultura fiorisce, non isolata bensì arricchita dal contatto con le culture di altri paesi del Messico e del mondo.
Governiamo e ci governiamo noi stessi, cercando sempre prima l’accordo che lo scontro. Tutto questo è stato ottenuto non solo senza il governo, la classe politica ed i media che li accompagnano, ma anche resistendo ai loro attacchi di ogni tipo. Abbiamo dimostrato, un’altra volta, che siamo chi siamo. Col nostro silenzio ci siamo fatti presenti. (…) *
Fratelli e sorelle, compagni e compagne: prima abbiamo avuto la fortuna di un’attenzione onesta e nobile di distinti mezzi di comunicazione. Ringraziammo allora per questo. Ma ciò è stato completamente cancellato dall’atteggiamento successivo. Chi scommise che esistevamo solo mediaticamente e che, con il cerchio di bugie e silenzio, saremmo spariti, si sbagliò. Quando non c’erano camere, microfoni, piume, uditi e sguardi, esistevamo. Quando ci calunniarono, esistevamo. Quando ci azzittirono, esistevamo. E qui siamo, esistendo. Il nostro camminare, come è dimostrato, non dipende dall’impatto mediatico, bensì dalla comprensione del mondo e delle sue parti, dalla saggezza indigena che dirige i nostri passi, dalla decisione infrangibile che dà la dignità dal basso e a sinistra.
A partire da ora, la nostra parola incomincerà ad essere selettiva al suo destinatario e, salvo in contate occasioni, potrà solo essere compresa da chi con noi ha camminato e cammina, senza arrendersi alle mode mediatiche e congiunturali. (…) Siamo gli zapatisti, i più piccoli, quelli che vivono, lottano e muoiono nell’ultimo angolo della patria, quelli che non claudicano, quelli che non si vendono, quelli che non si arrendono. Fratelli e sorelle, compagne e compagni, siamo gli zapatisti, ricevete il nostro abbraccio. Democrazia! Giustizia! Libertà!”.
È il 25 maggio del 2014 quando, durante l’omaggio reso al compagno zapatista Galeano, assassinato da un gruppo di paramilitari nella comunità di La Realidad, il Subcomandante Marcos annuncia durante il suo ultimo discorso che da quel momento avrebbe cessato di esistere come personaggio pubblico.
“Contro la morte, noi chiedevamo la vita. Contro il silenzio, esigevamo la parola ed il rispetto. Contro l’oblio, la memoria. Contro l’umiliazione e il disprezzo, la dignità. Contro l’oppressione, la ribellione. Contro la schiavitù, la libertà. Contro l’imposizione, la democrazia. Contro il crimine, la giustizia. Chi con un po’ di umanità nelle vene potrebbe o può contestare queste richieste? Ed in quei momenti molti ascoltarono.
La guerra che iniziammo ci diede il privilegio di raggiungere ascolti e cuori attenti e generosi in geografie vicine e lontane. Mancava certo qualcosa, e manca ancora, ma allora ottenemmo lo sguardo dell’altro, il suo ascolto, il suo cuore. E abbiamo compiuto una scelta. Invece di formare guerriglieri, soldati e squadroni, abbiamo formato promotori di educazione, di salute, e sono state lanciate le basi dell’autonomia che oggi stupisce il mondo. Invece di costruire quartieri militari, migliorare il nostro armamento, innalzare muri e trincee, sono state costruite scuole, ospedali e centri di salute, abbiamo migliorato le nostre condizioni di vita. Invece di lottare per occupare un posto nel partenone delle morti individualizzate del basso, abbiamo scelto di costruire la vita. Ma noi abbiamo scelto senza ascoltare quelli di fuori. Non ascoltando quelli che chiedono ed esigono sempre la lotta fino alla morte, quando i morti però li mettono gli altri. Ed il più importante: l’avvicendamento di pensiero, dall’avanguardismo rivoluzionario al comandare ubbidendo; dalla presa del potere dall’alto alla creazione del potere dal basso; dalla politica professionale alla politica quotidiana; dai leader, ai popoli; dall’emarginazione di genere, alla partecipazione diretta delle donne; dallo scherno per l’altro, alla celebrazione della differenza.
Molte albe mi sono trovato io stesso a cercare di assimilare le storie che mi raccontavano, i mondi che disegnavano con silenzi, mani e sguardi, la loro insistenza nell’indicare qualcosa più in là. Supponiamo che ci sia un altro modo per neutralizzare un criminale. Per esempio, creandogli la propria arma micidiale, facendogli credere che è efficace, e sulla base della sua efficacia fargli costruire un piano, e far sì che nel momento in cui si prepara a sparare, l’arma torni ad essere quello che è sempre stata: un’illusione.
L’intero sistema, ma soprattutto i suoi mezzi di comunicazione, giocano a costruire notorietà per poi distruggerle se non si piegano ai loro propositi. Il loro potere risiedeva (ora non più, per questo sono stati soppiantati dai social network) nel decidere che cosa e chi esisteva nel momento in cui sceglievano cosa dire e cosa tacere. Avevamo bisogno di tempo per essere e per trovare chi sapesse vederci per quello che siamo. Avevamo bisogno di tempo per trovare chi ci guardasse non dall’alto, non dal basso, che ci guardasse di fronte, che ci guardasse con sguardo compagno. Nella ricerca dell’altro abbiamo spesso fallito.
Quelli che trovavamo, o ci volevano guidare o volevano che li guidassimo. Finalmente qualcuno che capiva che non cercavamo né pastori che ci guidassero, né greggi da condurre nella terra promessa. Né padroni né schiavi. Né capi né masse senza testa. Ma mancava di vedere se eravate in grado di guardare ed ascoltare quello che siamo. E chi non comprende, giudica; e chi giudica, condanna. È nostra convinzione e nostra pratica che per ribellarsi e lottare non sono necessari né leader, né capi, né messia, né salvatori. Per lottare c’è bisogno solo di un po’ di vergogna, un tanto di dignità e molta organizzazione. La continua sepoltura di voci che erano vive, messe a tacere dal cadere dalla terra su di loro e dal chiudersi delle sbarre. La giustizia piccola somiglia tanto alla vendetta. La giustizia piccola è quella che distribuisce impunità, punendo uno, ne assolve altri. La ricerca paziente e tenace vuole la verità, non il sollievo della rassegnazione. (…)
Detto questo, alle ore 02:08 del 25 maggio 2014 sul fronte di combattimento sudorientale dell’EZLN, dichiaro che smette di esistere il noto Subcomandante Insurgente Marcos, l’autodenominato ‘subcomandante di acciaio inossidabile’. È tutto. Per mia voce non parlerà più la voce dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale. Bene. Salute e a mai più… o hasta siempre, chi ha capito sa che questo non ha più importanza, non ne ha mai avuta”.
Il subcomandante Marcos oggi è un uomo libero, per la giustizia messicana i reati per cui venne incriminato nel 1994 sono prescritti e ogni accusa è decaduta. In una intervista alla giornalista messicana Laura Castellanos, che gli chiede “Ventiquattro anni fa sei venuto qui; riassumi questa esperienza in una parola o una frase”, Marcos risponde: “In una parola? Imparare. In una frase: ritornare a vivere”.
Oggi, nei pressi de La Realidad, dove i venti del mare vegliano sulle montagne del Chiapas, un giovane indigeno dal nome Don Durito della Lacandona ammira Venere ancora alta nel cielo sognando di essere un cavaliere errante in cerca di avventure straordinarie che raccontano del coraggio, della dignità, dei valori, dell’onestà, del dovere civico, del perdono inteso come ‘l’atto di donare’ per considerare il ‘nemico’ come un essere umano. Da un angolo delle sue labbra spalancate in segno di stupore nasce un raggio di luce e con esso la Storia: lottare per difendere la Donna tanto desiderata è lottare per le proprie radici.
Tutto questo fino a quando, all’inizio degli anni Ottanta, tre meticci e tre indigeni si inoltrarono nella Selva Lacandona con l’intento di prepararsi a combattere nel momento in cui le ‘comunità degli invisibili’ avessero deciso di passare all’azione e di ribellarsi alla dittatura. Gli inizi furono lenti e difficili, vissuti tra solitudine e adattamento all’ambiente: case, piante medicinali e cibo dovevano essere strappati alla montagna poiché non c’era ancora l’appoggio totale da parte delle diverse etnie dei vari villaggi. Occorreva imparare a muoversi silenziosamente ma con efficacia, e mantenere il segreto con le proprie famiglie per evitare ad ogni costo di essere individuati dal nemico.
Il gruppo dei sei solitari sin dal principio scartò l’idea di agire come gruppo armato, colpendo e ripiegando; scelse di prepararsi senza mostrarsi per dare inizio alle azioni quando già avessero avuto un’ampia base sociale d’appoggio e un folto numero di combattenti che fu raggiunto nel 1989 quando diventarono mille e trecento. Se gli anni Settanta rappresentarono l’inizio dell’insurrezione contadina in Chiapas, durante la quale partì l’idea di creare un’organizzazione indipendente dallo Stato e dalla Chiesa, gli anni Ottanta videro le diverse etnie formare organizzazioni indigene in grado di lottare per recuperare le terre di cui si erano appropriati i possidenti, creare nuove cooperative per eliminare l’usura degli intermediari e dei commercianti, destituire le autorità corrotte imposte dallo Stato. In questo modo la lotta contadina ruppe l’isolamento, pose rimedio alla dispersione e ampliò le aree di conflitto riuscendo a superare le difficoltà e l’improvvisazione dei primi anni. La repressione da parte dello Stato con a capo il presidente Carlos Salinas, intento a far svanire il movimento contadino dalla mappa della politica messicana, fu devastante: uomini, donne e bambini indios, fatti prigionieri, furono torturati, lasciati morire di fame, legati alle jeep militari e trascinati per chilometri fino ad essere uccisi.
In mezzo a questa ondata di violenza un fatto sopravvenne a offrire agli indigeni e alla popolazione messicana tutta uno spazio umano di denuncia, comunicazione e nuova organizzazione. È il 14 gennaio 1983 quando a Plaza dello Zòcalo è guerra, e si sa che la guerra è un cammino buio che mai evolverà: “Quelli che la scelgono sono i disperati della politica, della condizione sociale, della condizione femminile, del razzismo nei loro confronti”. E quando tutti questi ‘soldati’ uniscono la loro disperazione e si organizzano per ristabilire la folle supremazia dell’uno su tutti, allora, anche l’omicidio di un bambino passa sotto silenzio. Un uomo di nome Marcos si prepara a lasciare la sua casa a Città del Messico per andare a combattere in Chiapas: lascia un biglietto della metropolitana, un monte di libri, un lapis spezzato, un quaderno di poesie e decide di portare con sé 12 libri tra cui il Canto Generale di Pablo Neruda, Poesie di Miguel Hernández e di Léon Felipe, El Ingenioso Hidalgo Don Quijote de la Mancha di Miguel de Cervantes Saavedra, qualcosa di Julio Cortázar, le Memorie di Francisco Villa. Parla correntemente l’inglese, il francese e lo spagnolo, non avrà problemi a farsi capire tra le montagne, benché sia un meticcio. Cosa sta cercando? Forse ciò che salva l’essere umano dal degradarsi a macchina, ovvero la capacità di stupirsi.
Il primo gennaio del 1994 il Messico si svegliò con due novità: l’entrata in vigore del Trattato del Libero Commercio dell’America del Nord (TLC, meglio conosciuto come NAFTA) firmato da Messico, Stati Uniti e Canada in favore di una progressiva eliminazione di tutte le barriere tariffarie fra i paesi che aderivano all’accordo, e una rivolta scoppiata nel sudest indigeno, prodotto di un’emarginazione e di una povertà simili a quelle della vigilia della Rivoluzione messicana del 1910. Centinaia di indigeni armati e incappucciati occuparono sette capoluoghi dello Stato del Chiapas presentandosi come l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) e nella Prima Dichiarazione della Selva Lacandona spiegarono le cause della loro insurrezione: no al libero commercio e ai pesanti dazi imposti all’agricoltura messicana, no agli investimenti privati e al libero movimento di capitali, no alla concorrenza sleale delle industrie statunitensi che costringono i messicani a vendere le loro attività e a emigrare; sì a terra, lavoro, casa, cibo, salute, istruzione, libertà, indipendenza, democrazia, giustizia e pace per tutte le cinquantasei etnie della nazione. La notizia secondo cui i gruppi di Tzotziles, Tzeltales, Choles, Tojolabales, Zoque e Mames stavano ravvivando il fuoco rivoluzionario aizzato da Emiliano Zapata decenni prima, colse di sorpresa tutto il Messico.
L’insurrezione indigena assunse, dunque, una rilevanza di proporzioni uniche tanto che la stampa si mosse alla volta di questa regione maya confinante con il Guatemala (e con il maggiore tasso di mortalità infantile del Paese), quando un uomo dal volto coperto e dal nome di battaglia Subcomandante Insurgente Marcos, rompendo con la rigidità storica del discorso rivoluzionario, parlò all’intero Paese.
“Eccoci! Siamo la dignità ribelle, il cuore dimenticato della patria. Messico, noi non siamo venuti per dirti cosa fare, non siamo venuti per condurti da qualche parte. Siamo venuti a chiederti umilmente e rispettosamente di aiutarci, noi che siamo dello stesso colore della terra. È tempo che questo Paese cessi di essere una vergogna. È l’ora dei popoli indigeni”.
Di cosa devono essere perdonati i popoli indigeni - dice Marcos -, di cosa devono chiedere ‘scusa’: di non morire di fame? Di non tacere la miseria? Di non aver accettato umilmente il gigantesco peso di una storia di disprezzo e abbandono? Di essere insorti quando gli sono state sbarrate le strade dell’umano e della dignità? Di essere prevalentemente indigeni e di combattere per democrazia, giustizia e libertà? Di non seguire i modelli delle precedenti guerriglie? Di non arrendersi, vendersi, tradire?
Furono mobilitati oltre tremila soldati: carri armati, aerei, elicotteri iniziarono a bombardare le montagne del Chiapas davanti allo sconcerto della società civile che, presto, si trasformò in solidarietà di massa di fronte alla parola dell’uomo dal volto mascherato. Il 4 settembre 1994 decine di migliaia di persone marciarono nella capitale per reclamare un cessate il fuoco al neo-presidente Ernesto Zedillo (PRI) che, dapprima, si vide costretto ad aprire i negoziati di pace con gli insorti, poi lanciò un’offensiva militare nella regione zapatista diffondendo un ordine di cattura per il presunto incappucciato: Rafael Sebastiàan Guilén Vicente, nato nella città portuale di Tampico, proveniente da una famiglia proprietaria di un mobilificio locale, laureato con lode presso la facoltà di lettere e filosofia della Universidad Autònoma Metropolitana e ricercatore presso la stessa. La foto di un uomo giovane, barbuto, dalle sopracciglia folte e il naso dritto iniziò a circolare nelle redazioni dei giornali, mentre una forte rete di sostegno intorno allo EZLN, convertito oramai in movimento pacifico, si andò rafforzando sempre di più.
Nell’agosto del 1995 il movimento aprì le porte del suo territorio al resto del Paese per sconfiggere la lotta armata e avviarlo a una battaglia aperta e civile. Si crearono spazi di incontro politico e culturale chiamati Aguascalientes a cui parteciparono intellettuali, artisti, lavoratori, indigeni, giornalisti provenienti da ogni parte del mondo, tutti per lavorare a riforme costituzionali in grado di sradicare le disuguaglianze prevalenti, convertire in legge forme di governo democratiche, ristabilire il principio dell’autodeterminazione del proprio territorio e delle risorse naturali. Per la prima volta nella storia del Messico i popoli indigeni entravano nell’agenda della politica.
“Pensiamo che, dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989, e la scomparsa dell’Unione Sovietica nel 1991, sia finito il vecchio mondo bipolare e che il potere abbia subito un nuovo spostamento. Non è più una potenza imperialista, nel significato classico del termine, che domina il resto del mondo, ma è un nuovo potere che si impone, un potere sovranazionale, il potere del capitale finanziario”.
Da allora questo tipo di potere, stimolato dalle politiche neoliberiste americane, ha preteso sempre più di dare ordini ed elevare barriere che impedissero lo sviluppo delle piccole-medie imprese nazionali. La globalizzazione, così intesa, ha diviso il mondo in tre zone (gestori-imprenditori, officine di montaggio, lavoratori condannati a fare i lavori più ingrati) e, con tutta la seduzione di cui è intrisa, ha iniziato ad appropriarsi di elementi culturali per omogeneizzare il mondo e consentire all’individuo, sì di occupare un posto nella società, ma solo se è in grado di produrre e acquistare. Tutti gli altri? Essendo di troppo si è tentato di eliminarli, ora attraverso il sistema dell’elemosina, ora manipolando le loro intelligenze, ora eliminandoli del tutto.
“E allora vi chiedo: in base a cosa, fino ad oggi, si giudicava una società, una civiltà? In base ai suoi criteri di bellezza, di creatività, di saggezza, di etica, di giustizia, di morale, di onestà (…) che in un apparato manipolatore come questo non esistono nemmeno come ombra? Tra tutti gli abitanti del Messico gli indigeni sono i più trascurati. Sono considerati dei cittadini di seconda classe, un fastidio per il Paese. Ma noi non siamo dei rifiuti, noi facciamo parte dei popoli che hanno una storia e saggezza millenarie. Di popoli che, per quanto calpestati e dimenticati, non sono ancora scomparsi. E aspiriamo a diventare dei cittadini come gli altri. Vogliamo far parte del Messico, ma senza perdere la nostra specificità, senza essere costretti a rinunciare alla nostra cultura: in breve, senza cessare di essere indigeni. La Repubblica messicana ha un debito verso di noi. Un debito vecchio di due secoli, che potrà saldare solo riconoscendo i nostri diritti e rifiutando di accettare che la logica della globalizzazione ci marginalizzi ancora di più”.
I dislocamenti militari del 1995 esasperarono l’ambiente del Chiapas e a poco a poco travolsero le comunità zapatiste, ancora una volta, in un crescendo di repressione e violenza. Nonostante tutto, sul tavolo delle trattative, dopo dieci mesi di tira e molla, nel febbraio del 1996 nacque il primo documento di pace conosciuto come Accordi di San Andrés in riferimento al nome della città in cui venne stipulato. In questo documento il governo federale si impegnava a riconoscere costituzionalmente il diritto all’autonomia dei popoli indigeni, anche se nove mesi dopo ritrattò e presentò una nuova proposta. Chi era contro sosteneva che il Paese avrebbe subito una frammentazione, chi era a favore considerava tale autodeterminazione già stabilita (Convenzione 169 della Organizzazione Internazionale del Lavoro - OIL - dell’ONU, sottoscritta dal Messico). L’esigenza di un adempimento degli Accordi fece, quindi, scattare la molla dell’attivismo zapatista in tutto il Messico e in Occidente.
Contemporaneamente il governo lanciò una strategia controrivoluzionaria fatta di gruppi armati civili che, attraverso posti di blocco e incursioni nel cuore della notte, aggredirono e uccisero persone innocenti bruciando le loro case. L’EZLN, minacciato dal governo di non poter transitare liberamente per il Paese, decise di rompere l’assedio militare e paramilitare pretendendo l’adempimento degli Accordi traditi. L’8 agosto migliaia di persone videro su maxischermi montati in tutte le piazze del mondo, un video del Subcomandante Marcos nel quale egli esponeva chiaramente le idee zapatiste per il cambiamento sociale e la democrazia, chiarendo così la portata delle questioni sottoposte al referendum.
“Rivendichiamo tre cose: libertà, giustizia e democrazia. Non vogliamo il potere e nemmeno diventare partito politico (…). Preferiamo definirci come un movimento ribelle che rivendica dei cambiamenti sociali. Il termine ‘rivoluzionario’ non mi sembra adatto perché ogni dirigente o movimento rivoluzionario tende a voler diventare dirigente o attore politico, mentre un ribelle sociale non smette mai di essere un ribelle sociale. Un rivoluzionario vuole sempre trasformare le cose cominciando dall’alto, mentre il ribelle sociale le vuole cambiare cominciando dal basso. Il rivoluzionario dice: prendo il potere e poi, dall’alto, trasformo il mondo. Il ribelle sociale agisce diversamente. Organizza le masse e, partendo dal basso, trasforma a poco a poco le cose senza porsi la questione della presa del potere.
L’EZLN è un movimento insurrezionale senza un’ideologia precisamente definita. Non si inquadra in nessuna delle categorie politiche classiche: marxismo-leninismo, socialcomunismo, castrismo, guevarismo ecc. Noi pensiamo che i movimenti rivoluzionari, per quanto rivoluzionari essi siano, sono in fondo dei movimenti arbitrari. Quello che deve fare un movimento armato, è sollevare un problema - mancanza di libertà, carenza di democrazia, assenza di giustizia - e poi scomparire. Noi siamo fieri di esserci ribellati. Vogliamo occupare uno spazio dignitoso nella nuova geografia della ricostruzione nazionale. (…) Vogliamo che lo Stato ammetta che il Messico è costituito da popoli diversi. Che i popoli indigeni possiedano la loro propria organizzazione politica, sociale ed economica. E che intrattengano una relazione forte con la loro terra, la loro comunità, le loro radici e la loro storia. Questo riconoscimento è una condizione fondamentale perché l’EZLN abbandoni definitivamente le armi, la clandestinità, il passamontagna e partecipi alla vita politica”.
Il coprirsi il volto, per Marcos, corrisponde a un paradosso e a una scelta profondamente politica. Lo fa contro il protagonismo e la corruzione che ad esso segue, ma anche affinché qualunque messicano, senza una storia brillante né un passato glorioso, possa essere Marcos, unirsi a un movimento giusto e legittimo e lottare per i suoi diritti; e non con un’arma… magari con un microfono, una penna, un foglio, una macchina fotografica! Così, l'immagine del passamontagna, che pare venire dopo il risveglio da un sogno, pone l’uomo dinanzi a uno specchio che gli restituisce il volto dei suoi fratelli indigeni e insegna che non esistono combattenti né comandanti individualizzati ma che, come succede nelle comunità, chi ‘comanda’ sono le persone che ne fanno parte. E da questo sogno, da questo passamontagna, la popolazione parte per proporre in modo nuovo le trasformazioni sociali in corso: trasformazioni che consistono nel sottoporre ogni passo alla volontà delle maggioranze, nella comunità contadina attraverso l’assemblea, nella società attraverso la democrazia. Quando la popolazione indigena abbandonerà le armi, il passamontagna e la clandestinità? Quando la Costituzione del Messico accetterà che il mondo è rotondo, senza angoli o castighi dove relegarla.
“Una popolazione india senza terra non è una popolazione india, la lingua e tutto il resto si deteriorano: se si distrugge la terra, non ci sono più radici; è come se eliminassero tutta la nostra famiglia, non saremmo nemmeno orfani. Perché anche quando ti ammazzano la madre, continui ad essere chi sei, ma in questo caso ti strappano via il cuore, l'anima”.
La comunità è l’organizzazione sociale primaria del genere umano che nelle Americhe sopravvive dall’Alaska fino alla Terra del Fuoco. Là dove esistono etnie indigene esse sono abitualmente organizzate in comunità, coese tra di loro non per necessità ma per via di un processo elaborato che si è evoluto nel tempo. Sopravvivere in un ambiente avverso come la Selva, coltivare a quattromila metri di altezza o realizzare grandi opere di irrigazione, può essere fatto solo da un consistente nucleo umano ben organizzato che vive la natura come elemento amico, necessario per integrarsi armoniosamente all’ordine del cosmo, e non pretende che la realizzazione dell’uomo si raggiunga proporzionalmente al suo allontanarsene.
Dai tempi della Conquista fino ad oggi, le comunità hanno sempre mantenuto una certa autosufficienza che gli ha permesso di dedicarsi ad una varietà di coltivazioni, lavori di artigianato e specializzazioni. La famiglia allargata, dai nonni fino ai più piccoli, è l’unità economica della comunità indigena dove la donna svolge una funzione fondamentale nella diffusione della cultura, tramite la lingua, essendo la depositaria dei valori e delle norme ancestrali. Ogni famiglia possiede una parcella di terreno che non può essere venduta a persone estranee alla comunità in quanto la terra è un bene pubblico e non privato, non una merce ma un territorio che fa parte dell’eredità culturale comune: non è la terra ad appartenere all’uomo, ma l’uomo che appartiene ad essa. Per questo perderla significherebbe perdere le radici, l’identità, la vita stessa.
Nelle comunità la massima istanza è l’assemblea, per lo più formata da donne, che decide periodicamente i lavori da fare, amministra la giustizia assegnando incarichi civili annuali eletti dal popolo e vincolati a precisi obblighi, assicura lo svolgersi coerente di uno stile di vita democratico. La comunità è lavoro e realizzazione quotidiana che si costruisce e si sviluppa grazie al confronto e non al conflitto, ed è possibile attraverso l’organizzazione municipale, il lavoro e la proprietà comune che hanno consentito agli indigeni del continente e alla società urbana di resistere a cinque secoli di dominazione e di oppressione senza perdere i loro valori fondamentali. La cultura, quindi, concepita come terreno fertile dove mettere in gioco passato-presente-futuro verso la trasformazione ed il mantenimento di una identità dalla pelle scura (lingua, territorio, religione, costumi, unità e progettualità), pone accanto alla funzione di coesione esercitata dalla comunità, quella di differenziazione portata avanti dall’associazione. Come a dire che finché si fa politica tra le montagne, a volto scoperto, la lotta per scalzare la dittatura conserva sempre un alone di menzogna; se invece si scende in piazza con una ragione che va al di là dell’ideologia golpista, seppure a volto coperto, sì che si può dare un senso alla nazione fatta da cittadini e non da statali.
La struttura attuale dell’EZLN ha iniziato a prendere corpo all’inizio degli anni Novanta, a partire dal momento in cui fondatori e sostenitori affidarono al Subcomandante Marcos il compito di tenere i contatti e stabilire un dialogo con la società civile, considerandolo come il traduttore del pensiero indigeno verso la società meticcia e la comunità internazionale. Se le altre organizzazioni rivoluzionarie e i partiti politici esistenti in America Latina presentano tutti una medesima struttura piramidale (al vertice la direzione politica rappresentata da un unico partito, al centro l’esercito popolare, in basso i sindacati, le organizzazioni di massa, di quartiere, studentesche, ecc.), l’organigramma dell’EZLN si mostra sin dall’inizio come una coppa che vede le numerose comunità nominare i propri rappresentanti-comandanti (CCRI) attraverso assemblee aperte presiedute da uomini e donne di qualunque estrazione sociale. In alcune occasioni il CCRI affida il bastone del comando dei sette colori, tipico della tradizione maya, a Marcos: si tratta di un atto fortemente simbolico attraverso cui l’apparato politico deposita ogni decisione, civile e militare, nelle mani di una persona designata che assume in maniera degna tale comando.
Ogni volta che le comunità contadine hanno scelto il Sup (vezzeggiativo di Marcos) come depositario dei colori della bandiera nazionale, del sangue, del mais e della terra, lo hanno posto di fronte ad uno specchio che gli ha sempre restituito l’immagine di un giovane uomo che, seppur vestito come un guerrigliero, con pantaloni neri e un berretto rammendato color caffè, ha sempre tentato di proteggere la sensibilità, la purezza di intenzioni, il coraggio e la coerenza etica con lo stesso ritmo incontenibile dei fiumi straripanti della Selva. E tenendo stretto al petto quel bastone Marcos ha voluto utilizzarlo come omaggio alle bambine che ogni mattina si tengono in spalla i loro fratellini mentre lavano i panni al fiume; ai bambini scalzi e denutriti che sanno sorridere ancor prima di imparare l’abbecedario; alle donne infaticabili, piegate in due sotto il peso di enormi fascine di legna; agli uomini e ai giovani che sanno coniugare i verbi della solidarietà e della reciprocità con un sorriso sulle labbra. Ed è, infine, un omaggio agli indios e ai meticci come lui che si impegnano a difendere ogni giorno la loro identità con la stessa naturalezza con cui i ruscelli scendono dalla montagna.
“Per questo io dico sempre: vuoi sapere chi è Marcos, chi si nasconde sotto il suo passamontagna? Prendi uno specchio e guardati, il volto che scoprirai è quello di Marcos. Perché noi tutti siamo Marcos”.
Il 22 dicembre del 1997 nella piccola comunità di Acteal un gruppo paramilitare nell’area del PRI, i Mascara Roja, fece irruzione accanendosi con inaudita spietatezza sui membri dell’intera comunità. Furono uccisi 45 indigeni dell’Associazione Civile Neutrale Las Abejas - la vittima più giovane, Juana, aveva soli otto mesi - di fronte al corpo di polizia del Presidente Zedillo che attese alle porte del villaggio senza intervenire, anzi, tentando di coprire la ritirata dei paramilitari una volta completata la mattanza. L’EZLN, sebbene insorse in segno di protesta marciando alla volta di Piazza della Costituzione nella capitale, non abbandonò l’intenzione di tentare la via pacifica: organizzò una consulta per chiedere alla società civile di fare giustizia contro un simile delitto e, attraverso la Marcha del color de la Tierra, di rispettare nuovamente gli Accordi di San Andrés.
Nel 2001 il Chiapas, da terra dove era germinato il seme della ribellione, diventò per eccellenza il luogo in cui l’onore, il coraggio, l’onestà, andavano ben oltre i confini del Messico, per toccare il cuore di quella parte di umanità che non aveva mai rinunciato ai sogni e alle speranze con il solo imperativo di una giustizia uguale per tutti. “Noi non ce ne andiamo”, fu l’urlo lanciato dal Subcomandante Marcos, all’indomani della proclamazione del nuovo presidente repubblicano Vicente Fox che, dopo aver sconfitto il PRI, al potere da più di settanta anni, riaprì immediatamente i negoziati per il ritorno della pace nel Chiapas, interrotti dal 1996. Per questo scopo preciso, il 24 febbraio del 2001, Marcos uscì ancora una volta dalla clandestinità e, a bordo di un autobus bianco, sostenuto da migliaia di persone arrivate da tutto il mondo, entrò come un eroe a Città del Messico riprendendo quelle semplici parole, un tempo seme per la speranza: “Eccoci! Siamo la dignità ribelle, il cuore dimenticato della patria (…). È l’ora dei popoli indigeni”. L’annuncio fatto da Marcos agli occhi della comunità civile ebbe un effetto bomba sull’intera classe politica, presa alla sprovvista da questa audace iniziativa che, se da una parte, riconosceva la legittimità della nuova autorità repubblicana, dall’altra gli intimava di riaprire lo spinoso dossier sulla questione indigena.
Alla fine di marzo del 2002 l’EZLN riuscì ad ottenere finalmente un posto in Parlamento grazie al lungo discorso della Comandante Esther sulla questione dei diritti delle donne indigene, trasmesso in televisione. Riforma che durò fino alla vigilia delle elezioni del 2006 quando, salito al potere Felipe Calderon (esponente del Partito di Azione Nazionale), schierato all’estrema sinistra, rifiutò la riforma parlamentare approvando una legge che non riconosceva più l’autonomia indigena. L’EZLN, considerandolo un tradimento, presentò alla Corte Suprema di Giustizia un’istanza per contrastare l’irregolarità della Legge che risultò incostituzionale in ben 330 punti. L’istanza giudiziaria, protrattasi per oltre un anno, ebbe un esito completamente negativo portando l’EZLN alla rottura definitiva col potere politico e alla costituzione di trentanove municipi autonomi (Caracoles), retti da un consiglio comunale e distribuiti in cinque regioni dove furono creati programmi d’istruzione, sanità, giustizia per combattere l’analfabetismo, la mortalità materna e infantile, le malattie riproduttive e a trasmissione sessuale, la fame.
Nel 2008, dalla zona della Garrucha, Radio Insurgente trasmise un comunicato dove la voce di una sconosciuta, Susana, reclamando i dieci punti della Ley Revolucionaria de Mujeres a favore delle donne (1994), scatenò una reazione clamorosa da parte dei politici del Paese. Lo zapatismo, che fino a quel momento aveva rappresentato una miscela di rottura e di continuità, grazie alla voce di Susana si trasformò da movimento di ribellione in identità nazionale. In tutto il Paese si sollevarono movimenti di protesta che, cantando “Ogni donna è come una Ceiba” (albero secolare messicano), decretarono un’iniziativa civile e pacifica a favore delle donne e dell’intera popolazione. A loro, senza distinzione di razza e appartenenza politica, furono riconosciuti diritti e doveri, come partecipare alla lotta rivoluzionaria nel luogo e con il grado determinato dalla loro volontà; decidere liberamente sul numero dei figli da avere e accudire; prendere parte alle questioni comunitarie e, se elette in modo democratico, ricoprire incarichi civili e militari; ricevere un’attenzione primaria per quanto riguarda salute, alimentazione e istruzione; scegliere se, come e quando sposarsi; provvedere alla trasmissione del sapere, dei costumi, della lingua nella continuità e in nome di quell’insieme di elementi che, venendo dalle viscere della terra, sono i soli a permettere all’Uomo di confrontarsi ed evolvere.
Il 1° dicembre del 2012 il ritorno al governo del Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI) risvegliò un attore a lungo rimasto in disparte: l’EZLN, dopo 4 anni di silenzio, tornò a pubblicare un comunicato di denuncia contro la spudoratezza con cui il governo aveva represso le mobilitazioni di protesta contro l’insediamento del nuovo presidente Enrique Peña Nieto che, spacciandosi per progressista, monopolizzò poi il Paese realizzando una vera e propria politica autoritaria. Nel gennaio dell’anno successivo gli zapatisti, partecipando alle proteste in diverse città messicane, chiesero al governo di porre un freno alla violenza scaturita dalla guerra frontale al narcotraffico e ottenendo come risposta una violenta ondata di repressione. In seguito ad un intenso scambio di missive tra il Subcomandante Marcos e numerose personalità della cultura messicana, gli zapatisti denunciarono apertamente il business del traffico della droga e la distruzione del tessuto sociale nazionale. La presa di posizione degli zapatisti fu ulteriormente chiara quando, in una lettera di Marcos ad Ángel Luis Lara (ricercatore spagnolo che vive a New York e membro del movimento Occupy Wall Street) egli definì “un pagliaccio grottesco, campione di polemiche fasciste” il giudice spagnolo Baltasar Garzón per aver ritenuto infondate le accuse contro il dittatore cileno Augusto Pinochet, riguardo a possibili violazioni dei diritti umani contro i cittadini spagnoli in Cile, e per aver sciolto e dichiarato fuori legge il Partito Indipendentista Basco Batasuna. Le ‘blasfeme’ parole di Marcos in quelle missive, tornarono dopo quasi un anno di silenzio a farsi sentire e vedere attraverso Radio Insurgente:
“Il passato 21 di dicembre mentre albeggiava, con decine di migliaia di indigeni zapatisti ci siamo mobilitati e abbiamo preso, pacificamente ed in silenzio, 5 capitali municipali nel sud-orientale stato messicano del Chiapas. Nelle città di Palenque, Altamirano, Las Margaritas, Ocosingo y San Cristobal de las Casas, li abbiamo guardati e abbiamo guardato noi stessi in silenzio. Non è il nostro un messaggio di rassegnazione, né di guerra, morte o distruzione. Il nostro messaggio è di lotta e resistenza.
Dopo il colpo di stato mediatico, che nascose nel potere esecutivo federale l’ignoranza mal dissimulata e peggio truccata, ci siamo presentati per far sapere loro che se non se ne sono mai andati via, neanche noi. Sei anni fa, un segmento della classe politica ed intellettuale uscì a cercare un responsabile per la sua sconfitta. In quel momento noi stavamo, nelle città e nelle comunità, lottando per la giustizia, per una Atenco che non era ancora di moda. In quel ieri prima ci calunniarono e poi ci vollero zittire. Incapaci e disonesti per vedere che in loro stessi avevano e hanno il lievito della loro rovina, pretesero di farci sparire con la menzogna ed il complice silenzio.
Sei anni dopo, due cose rimangono chiare: loro non hanno bisogno di noi per fallire. Noi non abbiamo bisogno di loro per sopravvivere. Noi che non ce ne siamo mai andati (…) in questi anni ci siamo rafforzati ed abbiamo migliorato significativamente le nostre condizioni di vita. (…) Il nostro lavoro ha la doppia soddisfazione di provvedere al nostro necessario per vivere onestamente, e di contribuire alla crescita collettiva delle nostre comunità. I nostri bambini vanno ad una scuola che insegna loro la propria storia, della propria patria e del mondo, come le scienze e le tecniche necessarie per crescere senza smettere di essere indigeni. Le donne indigene zapatiste non sono vendute come merci. Gli indigeni priisti (PRI) vanno ai nostri ospedali, cliniche e laboratori perché in quelli del governo non ci sono medicine, né apparati, né dottori né personale qualificato. La nostra cultura fiorisce, non isolata bensì arricchita dal contatto con le culture di altri paesi del Messico e del mondo.
Governiamo e ci governiamo noi stessi, cercando sempre prima l’accordo che lo scontro. Tutto questo è stato ottenuto non solo senza il governo, la classe politica ed i media che li accompagnano, ma anche resistendo ai loro attacchi di ogni tipo. Abbiamo dimostrato, un’altra volta, che siamo chi siamo. Col nostro silenzio ci siamo fatti presenti. (…) *
Fratelli e sorelle, compagni e compagne: prima abbiamo avuto la fortuna di un’attenzione onesta e nobile di distinti mezzi di comunicazione. Ringraziammo allora per questo. Ma ciò è stato completamente cancellato dall’atteggiamento successivo. Chi scommise che esistevamo solo mediaticamente e che, con il cerchio di bugie e silenzio, saremmo spariti, si sbagliò. Quando non c’erano camere, microfoni, piume, uditi e sguardi, esistevamo. Quando ci calunniarono, esistevamo. Quando ci azzittirono, esistevamo. E qui siamo, esistendo. Il nostro camminare, come è dimostrato, non dipende dall’impatto mediatico, bensì dalla comprensione del mondo e delle sue parti, dalla saggezza indigena che dirige i nostri passi, dalla decisione infrangibile che dà la dignità dal basso e a sinistra.
A partire da ora, la nostra parola incomincerà ad essere selettiva al suo destinatario e, salvo in contate occasioni, potrà solo essere compresa da chi con noi ha camminato e cammina, senza arrendersi alle mode mediatiche e congiunturali. (…) Siamo gli zapatisti, i più piccoli, quelli che vivono, lottano e muoiono nell’ultimo angolo della patria, quelli che non claudicano, quelli che non si vendono, quelli che non si arrendono. Fratelli e sorelle, compagne e compagni, siamo gli zapatisti, ricevete il nostro abbraccio. Democrazia! Giustizia! Libertà!”.
(Dalle montagne del sudest messicano. Per il Comitato Clandestino Rivoluzionario Indigeno - Comando Generale dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale. Subcomandante Insurgente Marcos.
Messico. Dicembre 2012 - Gennaio 2013).
Messico. Dicembre 2012 - Gennaio 2013).
È il 25 maggio del 2014 quando, durante l’omaggio reso al compagno zapatista Galeano, assassinato da un gruppo di paramilitari nella comunità di La Realidad, il Subcomandante Marcos annuncia durante il suo ultimo discorso che da quel momento avrebbe cessato di esistere come personaggio pubblico.
“Contro la morte, noi chiedevamo la vita. Contro il silenzio, esigevamo la parola ed il rispetto. Contro l’oblio, la memoria. Contro l’umiliazione e il disprezzo, la dignità. Contro l’oppressione, la ribellione. Contro la schiavitù, la libertà. Contro l’imposizione, la democrazia. Contro il crimine, la giustizia. Chi con un po’ di umanità nelle vene potrebbe o può contestare queste richieste? Ed in quei momenti molti ascoltarono.
La guerra che iniziammo ci diede il privilegio di raggiungere ascolti e cuori attenti e generosi in geografie vicine e lontane. Mancava certo qualcosa, e manca ancora, ma allora ottenemmo lo sguardo dell’altro, il suo ascolto, il suo cuore. E abbiamo compiuto una scelta. Invece di formare guerriglieri, soldati e squadroni, abbiamo formato promotori di educazione, di salute, e sono state lanciate le basi dell’autonomia che oggi stupisce il mondo. Invece di costruire quartieri militari, migliorare il nostro armamento, innalzare muri e trincee, sono state costruite scuole, ospedali e centri di salute, abbiamo migliorato le nostre condizioni di vita. Invece di lottare per occupare un posto nel partenone delle morti individualizzate del basso, abbiamo scelto di costruire la vita. Ma noi abbiamo scelto senza ascoltare quelli di fuori. Non ascoltando quelli che chiedono ed esigono sempre la lotta fino alla morte, quando i morti però li mettono gli altri. Ed il più importante: l’avvicendamento di pensiero, dall’avanguardismo rivoluzionario al comandare ubbidendo; dalla presa del potere dall’alto alla creazione del potere dal basso; dalla politica professionale alla politica quotidiana; dai leader, ai popoli; dall’emarginazione di genere, alla partecipazione diretta delle donne; dallo scherno per l’altro, alla celebrazione della differenza.
Molte albe mi sono trovato io stesso a cercare di assimilare le storie che mi raccontavano, i mondi che disegnavano con silenzi, mani e sguardi, la loro insistenza nell’indicare qualcosa più in là. Supponiamo che ci sia un altro modo per neutralizzare un criminale. Per esempio, creandogli la propria arma micidiale, facendogli credere che è efficace, e sulla base della sua efficacia fargli costruire un piano, e far sì che nel momento in cui si prepara a sparare, l’arma torni ad essere quello che è sempre stata: un’illusione.
L’intero sistema, ma soprattutto i suoi mezzi di comunicazione, giocano a costruire notorietà per poi distruggerle se non si piegano ai loro propositi. Il loro potere risiedeva (ora non più, per questo sono stati soppiantati dai social network) nel decidere che cosa e chi esisteva nel momento in cui sceglievano cosa dire e cosa tacere. Avevamo bisogno di tempo per essere e per trovare chi sapesse vederci per quello che siamo. Avevamo bisogno di tempo per trovare chi ci guardasse non dall’alto, non dal basso, che ci guardasse di fronte, che ci guardasse con sguardo compagno. Nella ricerca dell’altro abbiamo spesso fallito.
Quelli che trovavamo, o ci volevano guidare o volevano che li guidassimo. Finalmente qualcuno che capiva che non cercavamo né pastori che ci guidassero, né greggi da condurre nella terra promessa. Né padroni né schiavi. Né capi né masse senza testa. Ma mancava di vedere se eravate in grado di guardare ed ascoltare quello che siamo. E chi non comprende, giudica; e chi giudica, condanna. È nostra convinzione e nostra pratica che per ribellarsi e lottare non sono necessari né leader, né capi, né messia, né salvatori. Per lottare c’è bisogno solo di un po’ di vergogna, un tanto di dignità e molta organizzazione. La continua sepoltura di voci che erano vive, messe a tacere dal cadere dalla terra su di loro e dal chiudersi delle sbarre. La giustizia piccola somiglia tanto alla vendetta. La giustizia piccola è quella che distribuisce impunità, punendo uno, ne assolve altri. La ricerca paziente e tenace vuole la verità, non il sollievo della rassegnazione. (…)
Detto questo, alle ore 02:08 del 25 maggio 2014 sul fronte di combattimento sudorientale dell’EZLN, dichiaro che smette di esistere il noto Subcomandante Insurgente Marcos, l’autodenominato ‘subcomandante di acciaio inossidabile’. È tutto. Per mia voce non parlerà più la voce dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale. Bene. Salute e a mai più… o hasta siempre, chi ha capito sa che questo non ha più importanza, non ne ha mai avuta”.
(Dalla realtà zapatista. Subcomandante Insurgente Marcos
Messico, 24 maggio 2014).
Messico, 24 maggio 2014).
Il subcomandante Marcos oggi è un uomo libero, per la giustizia messicana i reati per cui venne incriminato nel 1994 sono prescritti e ogni accusa è decaduta. In una intervista alla giornalista messicana Laura Castellanos, che gli chiede “Ventiquattro anni fa sei venuto qui; riassumi questa esperienza in una parola o una frase”, Marcos risponde: “In una parola? Imparare. In una frase: ritornare a vivere”.
Oggi, nei pressi de La Realidad, dove i venti del mare vegliano sulle montagne del Chiapas, un giovane indigeno dal nome Don Durito della Lacandona ammira Venere ancora alta nel cielo sognando di essere un cavaliere errante in cerca di avventure straordinarie che raccontano del coraggio, della dignità, dei valori, dell’onestà, del dovere civico, del perdono inteso come ‘l’atto di donare’ per considerare il ‘nemico’ come un essere umano. Da un angolo delle sue labbra spalancate in segno di stupore nasce un raggio di luce e con esso la Storia: lottare per difendere la Donna tanto desiderata è lottare per le proprie radici.
* E ora con la nostra parola annunciamo che:
PRIMO – Riaffermeremo e consolideremo la nostra appartenenza al Congresso Nazionale Indigeno, spazio di incontro con i popoli originari del nostro Paese.
SECONDO – Riprenderemo i contatti con i nostri compagni e compagne aderenti alla Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona in Messico e nel mondo.
TERZO – Cercheremo di costruire i ponti necessari verso i movimenti sociali che sono sorti e sorgeranno, non per dirigere o usurpare, bensì per imparare da loro, dalla loro storia, dai loro cammini e destini.
QUARTO – Continuerà la nostra distanza critica di fronte alla classe politica messicana che, nel suo insieme, non ha fatto altro che crescere sulle spalle delle necessità e speranze della gente umile e semplice.
QUINTO – Rispetto ai mal governi federali, statali e municipali, esecutivi, legislativi e giudiziali, ed i media che li accompagnano diciamo la seguente cosa: i mal governi di tutto lo spettro politico, senza eccezione alcuna, hanno fatto di tutto per distruggerci, per comprarci, per farci arrendere. PRI, PANE, PRD, PVEM, PT, CC ed il futuro partito del RN, ci hanno attaccato militarmente, politicamente, socialmente ed ideologicamente. I grandi mezzi di comunicazione cercarono di farci sparire, con la calunnia servile ed opportunista in primo luogo, con il silenzio furbo e complice dopo. Com’è stato chiaro il 21 di dicembre del 2012, tutti hanno fracassato. Resta allora al governo federale, esecutivo, legislativo e giudiziale, di decidere se riproporre la politica controrivoluzionaria che solo ha ottenuto una debole simulazione turpemente sostenuta nel calderone mediatico, o riconoscere e compiere i suoi accordi elevando a rango costituzionale i diritti e la cultura indigena, così come lo stabiliscono gli accordi chiamati di San Andrés, firmati dal governo federale nel 1996, guidato dallo stesso partito che ora è nell’esecutivo. Resta al governo statale decidere se continua la strategia disonesta e vile del suo predecessore che oltre ad essere corrotto e bugiardo, prese soldi dal popolo del Chiapas per il proprio arricchimento e per quello dei suoi complici, e si dedicò all’acquisto sfacciato di voci e piume nei media, mentre sommergeva il popolo del Chiapas nella miseria, nello stesso momento in cui faceva uso di poliziotti e paramilitari per tentare di frenare l’avanzata organizzativa delle comunità zapatiste; o, invece, con verità e giustizia, accetta e rispetta la nostra esistenza e si rassegna all’idea che fiorisce una nuova forma di vita sociale nel territorio zapatista, Chiapas, Messico. Fioritura che attrae l’attenzione di persone oneste in tutto il pianeta. (…)
SESTO – Nei prossimi giorni l’EZLN, attraverso le proprie commissioni sesta ed internazionale, farà conoscere una serie di iniziative, di carattere civile e pacifico, per continuare a camminare vicino agli altri popoli originari del Messico e di tutto il continente, e vicino a chi, in Messico e nel mondo intero, resiste e lotta in basso ed a sinistra.
PRIMO – Riaffermeremo e consolideremo la nostra appartenenza al Congresso Nazionale Indigeno, spazio di incontro con i popoli originari del nostro Paese.
SECONDO – Riprenderemo i contatti con i nostri compagni e compagne aderenti alla Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona in Messico e nel mondo.
TERZO – Cercheremo di costruire i ponti necessari verso i movimenti sociali che sono sorti e sorgeranno, non per dirigere o usurpare, bensì per imparare da loro, dalla loro storia, dai loro cammini e destini.
QUARTO – Continuerà la nostra distanza critica di fronte alla classe politica messicana che, nel suo insieme, non ha fatto altro che crescere sulle spalle delle necessità e speranze della gente umile e semplice.
QUINTO – Rispetto ai mal governi federali, statali e municipali, esecutivi, legislativi e giudiziali, ed i media che li accompagnano diciamo la seguente cosa: i mal governi di tutto lo spettro politico, senza eccezione alcuna, hanno fatto di tutto per distruggerci, per comprarci, per farci arrendere. PRI, PANE, PRD, PVEM, PT, CC ed il futuro partito del RN, ci hanno attaccato militarmente, politicamente, socialmente ed ideologicamente. I grandi mezzi di comunicazione cercarono di farci sparire, con la calunnia servile ed opportunista in primo luogo, con il silenzio furbo e complice dopo. Com’è stato chiaro il 21 di dicembre del 2012, tutti hanno fracassato. Resta allora al governo federale, esecutivo, legislativo e giudiziale, di decidere se riproporre la politica controrivoluzionaria che solo ha ottenuto una debole simulazione turpemente sostenuta nel calderone mediatico, o riconoscere e compiere i suoi accordi elevando a rango costituzionale i diritti e la cultura indigena, così come lo stabiliscono gli accordi chiamati di San Andrés, firmati dal governo federale nel 1996, guidato dallo stesso partito che ora è nell’esecutivo. Resta al governo statale decidere se continua la strategia disonesta e vile del suo predecessore che oltre ad essere corrotto e bugiardo, prese soldi dal popolo del Chiapas per il proprio arricchimento e per quello dei suoi complici, e si dedicò all’acquisto sfacciato di voci e piume nei media, mentre sommergeva il popolo del Chiapas nella miseria, nello stesso momento in cui faceva uso di poliziotti e paramilitari per tentare di frenare l’avanzata organizzativa delle comunità zapatiste; o, invece, con verità e giustizia, accetta e rispetta la nostra esistenza e si rassegna all’idea che fiorisce una nuova forma di vita sociale nel territorio zapatista, Chiapas, Messico. Fioritura che attrae l’attenzione di persone oneste in tutto il pianeta. (…)
SESTO – Nei prossimi giorni l’EZLN, attraverso le proprie commissioni sesta ed internazionale, farà conoscere una serie di iniziative, di carattere civile e pacifico, per continuare a camminare vicino agli altri popoli originari del Messico e di tutto il continente, e vicino a chi, in Messico e nel mondo intero, resiste e lotta in basso ed a sinistra.
BIBLIOGRAFIA
L. CASTELLANOS, Punto e a capo, presente. Passato e futuro del movimento zapatista, Alegre Ed., Roma 2009.
S. MARCOS, Racconti per una solitudine insonne, Arnolo Mondadori Ed., Milano 2001.
I. RAMONET, Marcos, la dignità ribelle, Asterios Editore, Trieste 2001.
R. ZIBECHI, Il paradosso zapatista, Eléuthera Ed., Milano 1998.
Siti consultati: www.ezln.org.mx e www.radioinsurgente.org
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TRADIMENTI. Recensione del film 'Il traditore'. Anno 2019
TRADIMENTI
Filippo Paoli, Cinzia Sersante, Concetta Turchi, Valeria Amato e Alessandro Bellodi
Filippo Paoli, Cinzia Sersante, Concetta Turchi, Valeria Amato e Alessandro Bellodi
Soggetto e regia: Marco Bellocchio.
Sceneggiatura: Marco Bellocchio, Ludovica Rampoldi, Valia Santella, Francesco Piccolo, Francesco La Licata.
Interpreti: Pierfrancesco Favino, Fausto Russo Alesi, Maria Fernanda Cândido, Fabrizio Ferracane,
Luigi Lo Cascio, Nicola Calì, Giovanni Calcagno, Bebo Storti,
Gabriele Cicirello, Paride Cicirello, Pier Giorgio Bellocchio, Rosario Palazzolo e Pippo Di Marca.
Fotografia: Vladan Radovic. Effetti speciali: Danilo Bollettini, Rodolfo Migliari. Montaggio: Francesca Calvelli.
Scenografia: Andrea Castorina. Costumi: Daria Calvelli.
Musiche: Nicola Piovani. Suono: Gaetano Carito e Adriano Di Lorenzo.
Produzione: IBC Movie, Kavac Film, Rai Cinema (Italia-Francia-Germania-Brasile). Durata 148 minuti. Anno 2019.
Sceneggiatura: Marco Bellocchio, Ludovica Rampoldi, Valia Santella, Francesco Piccolo, Francesco La Licata.
Interpreti: Pierfrancesco Favino, Fausto Russo Alesi, Maria Fernanda Cândido, Fabrizio Ferracane,
Luigi Lo Cascio, Nicola Calì, Giovanni Calcagno, Bebo Storti,
Gabriele Cicirello, Paride Cicirello, Pier Giorgio Bellocchio, Rosario Palazzolo e Pippo Di Marca.
Fotografia: Vladan Radovic. Effetti speciali: Danilo Bollettini, Rodolfo Migliari. Montaggio: Francesca Calvelli.
Scenografia: Andrea Castorina. Costumi: Daria Calvelli.
Musiche: Nicola Piovani. Suono: Gaetano Carito e Adriano Di Lorenzo.
Produzione: IBC Movie, Kavac Film, Rai Cinema (Italia-Francia-Germania-Brasile). Durata 148 minuti. Anno 2019.
La scena iniziale de Il traditore di Marco Bellocchio ci porta immediatamente alle questioni centrali della filmografia del regista: la questione religiosa rappresentata dai festeggiamenti del patrono di Palermo Santa Rosalia; quella della famiglia e delle sue regole che strangolano il futuro dei propri figli; della malattia psichica come risultato del prevalere dei bisogni concreti/economici rispetto alla possibilità di amare e proteggere i propri figli; dello Stato con le sue connivenze e infine la questione della morte dove viene approfondita la differenza tra morte fisica e morte psichica.
Benedetto, figlio tossicodipendente di Tommaso Buscetta, è sulla spiaggia a farsi una pera quando il padre lo vede e lo raggiunge per riportarlo ai festeggiamenti familiari. Inutilmente il figlio gli dice “Papà, ti voglio bene, Dio è amore”. “La vuoi finire di fare il minchione, o no?!”, gli risponde Buscetta colpendolo. “Abbracciami papà!” riprende Benedetto. Il padre lo riporta inesorabilmente tra le braccia della famiglia e a nulla servono i suggerimenti della moglie Cristina di portare Benedetto e il fratello Antonio in Brasile con loro. “Loro sono perduti” risponderà alla moglie che lo accusa di non volerli. Deliberatamente Buscetta lascia i figli al sistema mafioso come pegno per la sua vita.
È il 4 settembre 1980, nella villa di Stefano Bontate si incontrano i capi di ‘Cosa Nostra’. Sono presenti i rappresentanti dei due schieramenti che si contendono, guarda caso, il controllo del traffico di eroina: le famiglie della vecchia Mafia palermitana al cui vertice c’è il padrone di casa Bontate - al quale Buscetta è molto legato - e quelle della Mafia emergente di Corleone, capeggiate da Salvatore Riina. Nell’atmosfera mafiosa fatta di sguardi, parole dette e, soprattutto, non dette, di cose che non devono essere chiamate con il loro nome, ascoltiamo mozziconi di frasi: “Pace…?!” commenta poco convinto Buscetta, “Teatro” conferma Bontate. Salvatore Riina non riesce neppure a fare teatro e, a conferma della sua bestialità, nel momento dello scatto della foto di famiglia si copre il volto, come dichiarazione di guerra che dà l’avvio alla mattanza, scandita dal contatore sullo schermo.
Benedetto, figlio tossicodipendente di Tommaso Buscetta, è sulla spiaggia a farsi una pera quando il padre lo vede e lo raggiunge per riportarlo ai festeggiamenti familiari. Inutilmente il figlio gli dice “Papà, ti voglio bene, Dio è amore”. “La vuoi finire di fare il minchione, o no?!”, gli risponde Buscetta colpendolo. “Abbracciami papà!” riprende Benedetto. Il padre lo riporta inesorabilmente tra le braccia della famiglia e a nulla servono i suggerimenti della moglie Cristina di portare Benedetto e il fratello Antonio in Brasile con loro. “Loro sono perduti” risponderà alla moglie che lo accusa di non volerli. Deliberatamente Buscetta lascia i figli al sistema mafioso come pegno per la sua vita.
È il 4 settembre 1980, nella villa di Stefano Bontate si incontrano i capi di ‘Cosa Nostra’. Sono presenti i rappresentanti dei due schieramenti che si contendono, guarda caso, il controllo del traffico di eroina: le famiglie della vecchia Mafia palermitana al cui vertice c’è il padrone di casa Bontate - al quale Buscetta è molto legato - e quelle della Mafia emergente di Corleone, capeggiate da Salvatore Riina. Nell’atmosfera mafiosa fatta di sguardi, parole dette e, soprattutto, non dette, di cose che non devono essere chiamate con il loro nome, ascoltiamo mozziconi di frasi: “Pace…?!” commenta poco convinto Buscetta, “Teatro” conferma Bontate. Salvatore Riina non riesce neppure a fare teatro e, a conferma della sua bestialità, nel momento dello scatto della foto di famiglia si copre il volto, come dichiarazione di guerra che dà l’avvio alla mattanza, scandita dal contatore sullo schermo.
Questione religiosa
Siamo alle prese con il dio vendicativo del Vecchio Testamento che non perdona i dubbi e non dimentica gli sgarbi. Le donne sono depositarie di questo potere che tutto permea saturando ogni possibilità alternativa: le croci appese al collo, le corone del rosario, i battesimi e i matrimoni in chiesa, le stesse croci presenti nelle aule di giustizia, l’immagine più volte riproposta del Cristo che domina la baia di Rio de Janeiro, ben visibile dalla villa sudamericana di Buscetta. Anche l’inquadratura del boss dei due mondi sul letto di ospedale, dopo il tentativo di suicidio con la stricnina durante l’estradizione in Italia, riecheggia, attraverso la risonanza con il Cristo morto del Mantegna (1480), l’immagine del ‘povero Cristo’ che non ha scelta se non affrontare la sua croce. Cristina gli dice “Sei salvo”, ma lui sa che deve affrontare il dio vendicativo, anche dentro di sé, come Bellocchio ci farà vedere alla fine del film. Immediatamente dopo, sull’aereo che lo riporta in Italia, ha una visione pseudo-allucinatoria in cui vede i suoi due figli siciliani, Benedetto e Antonio, coperti di sangue correre nel tentativo di salvarsi. Sa che la mattanza li ha raggiunti e ha una crisi respiratoria. “Un cordone ombelicale pronto a stringersi ad ogni giro di danza”.
Nel rapporto con il giudice Giovanni Falcone l’aspetto religioso raggiunge il suo apice: Buscetta cerca la via del riscatto cavalcando ‘l’ideale mafioso’ della “vecchia ‘Cosa Nostra’” che in realtà lo porta a negare la sua responsabilità nei confronti della tossicodipendenza del figlio; infatti fin dal primo incontro con il magistrato, Buscetta mette in evidenza questo aspetto: “Non sono un pentito (…) non sono uno spione, non sono un infame, sono stato un uomo d’onore e sono pronto a pagare il mio debito con la giustizia. Le dico subito che c’è una domanda a cui non risponderò, anzi le rispondo prima ancora che lei me la faccia: non ho mai trafficato droga, è inutile che me lo chiede”. Perché ribadire questa estraneità al traffico di droga quando noi sappiamo, dalle inquadrature precedenti, della fiorente organizzazione che aveva costruito e gestito in Sud America? Esattamente come lui è un trafficante di droga è anche un pentito, uno spione e un infame. Alla domanda di Falcone “Allora, vogliamo cominciare dalla sua affiliazione? …Così, per dare un ordine al nostro lavoro”, Buscetta risponde “Sono stanco”. Non è reticenza la sua, è la difficoltà umanamente comprensibile a riconoscere una responsabilità di ciò che è accaduto ai figli, è il senso di colpa per la loro morte che diventa la leva del suo essere stanco… di tutto. L’accettazione da parte di Falcone di queste pietose bugie racconta fra le righe della portata umana del giudice, cosa che permette di costruire la relazione umana tra i due. Buscetta rimane sorpreso di non trovarsi di fronte l’ennesimo dio vendicativo.
Nel rapporto con il giudice Giovanni Falcone l’aspetto religioso raggiunge il suo apice: Buscetta cerca la via del riscatto cavalcando ‘l’ideale mafioso’ della “vecchia ‘Cosa Nostra’” che in realtà lo porta a negare la sua responsabilità nei confronti della tossicodipendenza del figlio; infatti fin dal primo incontro con il magistrato, Buscetta mette in evidenza questo aspetto: “Non sono un pentito (…) non sono uno spione, non sono un infame, sono stato un uomo d’onore e sono pronto a pagare il mio debito con la giustizia. Le dico subito che c’è una domanda a cui non risponderò, anzi le rispondo prima ancora che lei me la faccia: non ho mai trafficato droga, è inutile che me lo chiede”. Perché ribadire questa estraneità al traffico di droga quando noi sappiamo, dalle inquadrature precedenti, della fiorente organizzazione che aveva costruito e gestito in Sud America? Esattamente come lui è un trafficante di droga è anche un pentito, uno spione e un infame. Alla domanda di Falcone “Allora, vogliamo cominciare dalla sua affiliazione? …Così, per dare un ordine al nostro lavoro”, Buscetta risponde “Sono stanco”. Non è reticenza la sua, è la difficoltà umanamente comprensibile a riconoscere una responsabilità di ciò che è accaduto ai figli, è il senso di colpa per la loro morte che diventa la leva del suo essere stanco… di tutto. L’accettazione da parte di Falcone di queste pietose bugie racconta fra le righe della portata umana del giudice, cosa che permette di costruire la relazione umana tra i due. Buscetta rimane sorpreso di non trovarsi di fronte l’ennesimo dio vendicativo.
Questione familiare
Nella riunione di famiglia della prima scena ci sono armi nascoste che raccontano del contenuto reale dei rapporti tra le famiglie contendenti e all’interno delle stesse, dove si sta consumando il tradimento. Tradimento che era stato già esplicitato dall’apertura del film su Benedetto Buscetta.
I saloni della villa, l’illuminazione, il ballo riecheggiano un altro film che racconta del passaggio mai avvenuto dalla aristocrazia siciliana allo Stato italiano: Il Gattopardo racconta ciò attraverso il matrimonio tra la bella Angelica, figlia di un mezzadro arricchito, e il nipote di Don Fabrizio principe di Salina, il bel Tancredi, un legame il loro che seppur fondato su una bruciante passione, è anche funzionale alla conservazione del potere. Loro sono rappresentanti di una società nascente all’indomani dell’Unità di Italia, dove passione e calcolo si sposano perfettamente. Emblematica la frase di Tancredi che la Mafia ha sempre fatto propria: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Come ad attualizzare questa frase la cinepresa trova la sua cifra stilistica nel farsi flash, immobilizzando qua e là i vari protagonisti della serata al loro ruolo all’interno della ‘famiglia’. È come inserire nella dinamica creativa del film la cronaca degli eventi e delle persone reali, senza farsi imprigionare dal documentario, proprio come il cronometro che scatta immediatamente dopo a scandire i tempi della strage mafiosa.
Durante il vertice a casa Bontate, mentre gli uomini decidono, le donne appaiono periferiche: d’altra parte nel film appare chiaro che le donne o sono oggetti sessuali o sono madri custodi della legge divina. Cristina, la terza moglie di Buscetta, risalta per la sua diversità: è donna sul piano sessuale ed è madre. In più occasioni riporta il marito alla realtà affettiva di cui lui è capace, nonostante tutto. Anche nella scena dell’elicottero successiva all’arresto e alla tortura di Masino nelle carceri brasiliane, lo sguardo che si scambiano nella drammaticità della situazione in cui lei rischia di morire se lui non parla, fa trapelare una alleanza affettiva profonda tra una donna e un uomo che non sembrano avere una via d’uscita. Il tango Historia de un amor, cantato da una donna, che accompagna la scena, sembra raccontare di una possibilità: sono altre le donne che lo chiudono vivo in una bara (in primis la madre e la prima moglie) nel sogno immediatamente successivo al primo incontro con Falcone. “Masino, Masino! Ma che hai combinato? Masino!” gli urlano contro. Ma il verdetto è stato già emesso: anche lui come i figli è un condannato a morte, in realtà lo è dal primo momento in cui alla età di 16 anni si è affiliato a ‘Cosa Nostra’. Per stare nella famiglia si stipula un contratto con la morte dove morire nel proprio letto diventa una conquista. I lampi del saldatore che lo chiudono ermeticamente nella bara, come i flash fotografici, suggellano il verdetto che lui stesso, al pari della Mafia, si è dato; al risveglio scopre che lo stimolo sensoriale era nato da un ben altro ‘saldatore’, quello che costruirà la rete di sicurezza intorno a lui.
Le donne sembrano emergere in modo attivo con le modalità mafiose sia sul piano onirico che su quello della realtà, come accade quando gli uomini sono immobilizzati nei loro usuali movimenti: per esempio quando nell’aula bunker del maxi processo si dimenano e urlano contro la Corte per difendere i loro uomini dietro le sbarre; oppure quando la moglie di Bontate, durante il funerale del marito ucciso dai corleonesi, morde l’orecchio della moglie di Riina come atto di accusa nei confronti del mandante; o ancora quando la sorella di Buscetta, dopo che le hanno ucciso il marito, rinnega il cognome - “Non chiamatemi più Buscetta! Io rinnego questo nome, io rinnego Tommaso Buscetta, e non dite più che è mio fratello (…) ci ha reso la vita un inferno, abbiamo cominciato a vivere nella paura da quando questo illustre signore si è messo a parlare. (…) E se questo signore è un uomo dovrebbe ammazzarsi, dovrebbe impiccarsi come Giuda Iscariota”. “Signora, ma il perdono cristiano? Lei crede in dio?” chiede un giornalista. “Sì, ma prima si ammazza e poi lo perdono”. Questo conferma il sogno della bara e il fatto che le donne, al pari degli uomini di ‘Cosa Nostra’, non perdonano chi parla.
È forse la prima volta che Marco Bellocchio non offre scusanti di alcun tipo alle giovani donne che fanno certe scelte: non c’è per esempio l’atteggiamento pietistico che abbiamo visto nei confronti della protagonista di Vincere, Ida Dalser, quando viene circondata da altre donne che la consolano perché abbandonata da Benito Mussolini.
I saloni della villa, l’illuminazione, il ballo riecheggiano un altro film che racconta del passaggio mai avvenuto dalla aristocrazia siciliana allo Stato italiano: Il Gattopardo racconta ciò attraverso il matrimonio tra la bella Angelica, figlia di un mezzadro arricchito, e il nipote di Don Fabrizio principe di Salina, il bel Tancredi, un legame il loro che seppur fondato su una bruciante passione, è anche funzionale alla conservazione del potere. Loro sono rappresentanti di una società nascente all’indomani dell’Unità di Italia, dove passione e calcolo si sposano perfettamente. Emblematica la frase di Tancredi che la Mafia ha sempre fatto propria: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Come ad attualizzare questa frase la cinepresa trova la sua cifra stilistica nel farsi flash, immobilizzando qua e là i vari protagonisti della serata al loro ruolo all’interno della ‘famiglia’. È come inserire nella dinamica creativa del film la cronaca degli eventi e delle persone reali, senza farsi imprigionare dal documentario, proprio come il cronometro che scatta immediatamente dopo a scandire i tempi della strage mafiosa.
Durante il vertice a casa Bontate, mentre gli uomini decidono, le donne appaiono periferiche: d’altra parte nel film appare chiaro che le donne o sono oggetti sessuali o sono madri custodi della legge divina. Cristina, la terza moglie di Buscetta, risalta per la sua diversità: è donna sul piano sessuale ed è madre. In più occasioni riporta il marito alla realtà affettiva di cui lui è capace, nonostante tutto. Anche nella scena dell’elicottero successiva all’arresto e alla tortura di Masino nelle carceri brasiliane, lo sguardo che si scambiano nella drammaticità della situazione in cui lei rischia di morire se lui non parla, fa trapelare una alleanza affettiva profonda tra una donna e un uomo che non sembrano avere una via d’uscita. Il tango Historia de un amor, cantato da una donna, che accompagna la scena, sembra raccontare di una possibilità: sono altre le donne che lo chiudono vivo in una bara (in primis la madre e la prima moglie) nel sogno immediatamente successivo al primo incontro con Falcone. “Masino, Masino! Ma che hai combinato? Masino!” gli urlano contro. Ma il verdetto è stato già emesso: anche lui come i figli è un condannato a morte, in realtà lo è dal primo momento in cui alla età di 16 anni si è affiliato a ‘Cosa Nostra’. Per stare nella famiglia si stipula un contratto con la morte dove morire nel proprio letto diventa una conquista. I lampi del saldatore che lo chiudono ermeticamente nella bara, come i flash fotografici, suggellano il verdetto che lui stesso, al pari della Mafia, si è dato; al risveglio scopre che lo stimolo sensoriale era nato da un ben altro ‘saldatore’, quello che costruirà la rete di sicurezza intorno a lui.
Le donne sembrano emergere in modo attivo con le modalità mafiose sia sul piano onirico che su quello della realtà, come accade quando gli uomini sono immobilizzati nei loro usuali movimenti: per esempio quando nell’aula bunker del maxi processo si dimenano e urlano contro la Corte per difendere i loro uomini dietro le sbarre; oppure quando la moglie di Bontate, durante il funerale del marito ucciso dai corleonesi, morde l’orecchio della moglie di Riina come atto di accusa nei confronti del mandante; o ancora quando la sorella di Buscetta, dopo che le hanno ucciso il marito, rinnega il cognome - “Non chiamatemi più Buscetta! Io rinnego questo nome, io rinnego Tommaso Buscetta, e non dite più che è mio fratello (…) ci ha reso la vita un inferno, abbiamo cominciato a vivere nella paura da quando questo illustre signore si è messo a parlare. (…) E se questo signore è un uomo dovrebbe ammazzarsi, dovrebbe impiccarsi come Giuda Iscariota”. “Signora, ma il perdono cristiano? Lei crede in dio?” chiede un giornalista. “Sì, ma prima si ammazza e poi lo perdono”. Questo conferma il sogno della bara e il fatto che le donne, al pari degli uomini di ‘Cosa Nostra’, non perdonano chi parla.
È forse la prima volta che Marco Bellocchio non offre scusanti di alcun tipo alle giovani donne che fanno certe scelte: non c’è per esempio l’atteggiamento pietistico che abbiamo visto nei confronti della protagonista di Vincere, Ida Dalser, quando viene circondata da altre donne che la consolano perché abbandonata da Benito Mussolini.
Questione della malattia psichica
Sappiamo dalla sua filmografia che Marco Bellocchio indaga sempre gli aspetti della malattia mentale. È la prima volta che porta l’attenzione sulla patologia tossicomanica (da eroina), che ha una sua peculiarità rispetto alla malattia mentale propriamente detta: viene mantenuto il rapporto con la realtà materiale, cosa che non accade nelle malattie psichiche gravi (quelle indagate dal regista), come pure non sembrano esserci disturbi del pensiero e/o allucinazioni. In realtà nella malattia tossicomanica è sempre presente una distorsione profonda del campo vitale che la colloca tra le patologie psichiche più gravi perché più legate non solo alle dinamiche malate all’interno della famiglia, ma anche a quelle del contesto sociale in cui si vive. Nella malattia mentale psicotica è presente l’annullamento del mondo emozionale e affettivo del soggetto collegato ai diktat familiari, dipendenti a loro volta dalle convenienze legate alla sopravvivenza: il potere del controllo sull’altro si esaurisce all’interno della famiglia. Quando questo potere incontra dei modelli sociali basati sulla concretezza dei valori, le dinamiche di connivenza e di copertura si allargano e il profondo malessere interiore deve trovare una copertura nel disturbo tossicomanico: i ‘buchi’ delle assenze familiari e sociali devono essere riempiti con quella stessa concretezza di cui sono stati nutriti. Così si arriva alla contraddizione che Tommaso Buscetta non vuole affrontare, vale a dire che ha abbandonato i suoi due figli per accumulare ‘piccioli’ attraverso il traffico di eroina.
Allo stesso modo Masino non vuole affrontare i ‘valori di ‘Cosa Nostra’’ (e per questo è un delinquente) che lui continua a idealizzare per non entrare in contatto con il tradimento che ha perpetrato nei confronti di sé stesso e dei figli. D’altro canto è facile affiliare e dare ‘lavoro’ in situazioni di cattività (povertà concreta e affettiva): in un contesto di abbandono ‘Cosa Nostra’ diventa la famiglia che protegge i più deboli, in assenza di uno Stato che dovrebbe sostenere e valorizzare le risorse personali. Masino fa propria una delle regole mafiose fondamentali: far passare ciò che non è per quello che è attraverso l’intimidazione del vincolo associativo e la condizione di assoggettamento e omertà che da esso derivano. In fondo ci troviamo di fronte a dinamiche di potere autoritario (paragonabili alle regole dei regimi autoritari) che strutturano quelle leggi mafiose alternative alle leggi dello Stato: si passa dalla delinquenza al sistema criminale organizzato.
In sintesi tutto parte dalla malattia mentale che, quando incontra l’assenza e/o la malattia conclamata dello Stato, produce malattia sociale con tutte le conseguenze del caso. E checché ne dica Buscetta, la realtà è un’altra e lo si comprende dallo scambio serrato con il giudice Falcone.
Buscetta: “A quel tempo i bambini non si toccavano, le donne, i giudici. ‘Cosa Nostra’ aveva dei valori, dei principi conosciuti e condivisi da tutti”.
Falcone: “Ma quali valori?! Quali valori!”.
Buscetta: “Proteggere la povera gente…”.
Falcone: “Ma ci crede veramente? (…) Non fa onore alla sua intelligenza. Ammazzare Carabinieri e giudici, rovinare con l’eroina migliaia di ragazzi”.
Buscetta: “Ma io prima dell’eroina sto parlando, c’è una bella differenza. Ma infatti me ne sono andato”.
Falcone, con ironia: “Giustamente, prima dell’eroina gli uomini loro non li ammazzavano e rubavano polli. Le cronache sono piene di delitti atroci, la vecchia e nobile Mafia è una leggenda. Basta! E penso un’altra cosa, e gliela devo proprio dire Buscetta: lei, ‘il boss dei due mondi’, come se lo è guadagnato questo titolo se in centinaia di pagine di verbale non si è attribuito un solo reato serio? Francamente se ammettesse qualche cosa sarebbe più credibile. Cos’è che mi ha fatto scrivere prima: che non le piaceva sparare ma guardare sparare? Non mi prenda per il culo Buscetta!”.
Buscetta: “Dottore Falcone, noi abbiamo fatto un patto. Io lo sto rispettando”.
Falcone: “Può firmare”.
In questo scambio c’è mistificazione e omertà contrapposte alla visione della realtà che sa delle conseguenze delle scelte e delle azioni. “Nella ‘Cosa Nostra’ non esiste molta curiosità. Questo è il comportamento di un uomo d’onore, non chiedere. Se una cosa gli viene detta, la apprende; se non gli viene detta è una cosa che non si chiede” dice Buscetta (interpretato da Claudio Castrogiovanni) a Michele Santoro in un’intervista.
La malattia psichica Bellocchio la fa emergere dai dialoghi di tutti, dai comportamenti e dalle immagini. Pippo Calò e Toto Riina sono rispettivamente equiparati a una tigre e a una iena, e quando vengono arrestati i picciotti tutti i topi escono dalle loro fogne. L’animale può vivere solo sulla base dei propri bisogni, non ha esigenze e neppure desideri come gli umani sani.
Allo stesso modo Masino non vuole affrontare i ‘valori di ‘Cosa Nostra’’ (e per questo è un delinquente) che lui continua a idealizzare per non entrare in contatto con il tradimento che ha perpetrato nei confronti di sé stesso e dei figli. D’altro canto è facile affiliare e dare ‘lavoro’ in situazioni di cattività (povertà concreta e affettiva): in un contesto di abbandono ‘Cosa Nostra’ diventa la famiglia che protegge i più deboli, in assenza di uno Stato che dovrebbe sostenere e valorizzare le risorse personali. Masino fa propria una delle regole mafiose fondamentali: far passare ciò che non è per quello che è attraverso l’intimidazione del vincolo associativo e la condizione di assoggettamento e omertà che da esso derivano. In fondo ci troviamo di fronte a dinamiche di potere autoritario (paragonabili alle regole dei regimi autoritari) che strutturano quelle leggi mafiose alternative alle leggi dello Stato: si passa dalla delinquenza al sistema criminale organizzato.
In sintesi tutto parte dalla malattia mentale che, quando incontra l’assenza e/o la malattia conclamata dello Stato, produce malattia sociale con tutte le conseguenze del caso. E checché ne dica Buscetta, la realtà è un’altra e lo si comprende dallo scambio serrato con il giudice Falcone.
Buscetta: “A quel tempo i bambini non si toccavano, le donne, i giudici. ‘Cosa Nostra’ aveva dei valori, dei principi conosciuti e condivisi da tutti”.
Falcone: “Ma quali valori?! Quali valori!”.
Buscetta: “Proteggere la povera gente…”.
Falcone: “Ma ci crede veramente? (…) Non fa onore alla sua intelligenza. Ammazzare Carabinieri e giudici, rovinare con l’eroina migliaia di ragazzi”.
Buscetta: “Ma io prima dell’eroina sto parlando, c’è una bella differenza. Ma infatti me ne sono andato”.
Falcone, con ironia: “Giustamente, prima dell’eroina gli uomini loro non li ammazzavano e rubavano polli. Le cronache sono piene di delitti atroci, la vecchia e nobile Mafia è una leggenda. Basta! E penso un’altra cosa, e gliela devo proprio dire Buscetta: lei, ‘il boss dei due mondi’, come se lo è guadagnato questo titolo se in centinaia di pagine di verbale non si è attribuito un solo reato serio? Francamente se ammettesse qualche cosa sarebbe più credibile. Cos’è che mi ha fatto scrivere prima: che non le piaceva sparare ma guardare sparare? Non mi prenda per il culo Buscetta!”.
Buscetta: “Dottore Falcone, noi abbiamo fatto un patto. Io lo sto rispettando”.
Falcone: “Può firmare”.
In questo scambio c’è mistificazione e omertà contrapposte alla visione della realtà che sa delle conseguenze delle scelte e delle azioni. “Nella ‘Cosa Nostra’ non esiste molta curiosità. Questo è il comportamento di un uomo d’onore, non chiedere. Se una cosa gli viene detta, la apprende; se non gli viene detta è una cosa che non si chiede” dice Buscetta (interpretato da Claudio Castrogiovanni) a Michele Santoro in un’intervista.
La malattia psichica Bellocchio la fa emergere dai dialoghi di tutti, dai comportamenti e dalle immagini. Pippo Calò e Toto Riina sono rispettivamente equiparati a una tigre e a una iena, e quando vengono arrestati i picciotti tutti i topi escono dalle loro fogne. L’animale può vivere solo sulla base dei propri bisogni, non ha esigenze e neppure desideri come gli umani sani.
Questione dello Stato
Con siffatte dinamiche malate, assolutamente antievolutive, il passaggio di ‘Cosa Nostra’ nella nuova Mafia era inevitabile, cui si aggiunge la connivenza con uno Stato malato che fa ammalare. Non a caso Falcone durante l’interrogatorio dirà a Buscetta: “Per me non ci sono intoccabili! E non mi fraintenda, ma ho più paura dello Stato che della Mafia!”. Falcone sa della corruzione, sa che gli stessi meccanismi di ‘Cosa Nostra’ sono presenti in alcune frange dello Stato. E sa anche che i possibili mandanti di un delitto che sente avvicinarsi sempre di più, stanno là.
La vecchia ‘Cosa Nostra’ rappresentava l’anti-Stato che istaurava rapporti di connivenza con lo Stato attraverso un meccanismo di corruzione; la nuova Mafia si infiltra direttamente nello Stato e cerca di governarlo da dentro. Esempio della prima è la prostituta che viene mandata nel carcere per sollazzare il boss dei due mondi; oppure i riferimenti dal dialogo tra Contorno e Buscetta delle cene a base di aragoste, caviale e champagne durante la loro prigionia all’Ucciardone. Esempio della seconda è la conduzione del processo Andreotti, il ‘processo del secolo’, durante il quale l’avvocato del senatore a vita, Franco Coppi, ha mano libera nella operazione di delegittimazione di Buscetta. Nel fare questo utilizza un meccanismo mafioso di intimidazione in cui gli ricorda che lui e la sua famiglia sono mantenuti e protetti proprio dallo stesso Stato che sta denigrando attraverso la sua testimonianza. Il potere politico tira fuori le unghie per salvarsi. La giustizia italiana si dimostra, in questa occasione, quanto meno lacunosa, e perciò collusa. Buscetta sceglierà di entrare da solo nell’aula semideserta che lo aspetta. Ora che Falcone è morto e non può più sostenerlo in questa indagine sullo Stato si fa strada la frase “Non è più di moda”: come se perseguire la Mafia fosse un fatto di moda. Chi l’ha trasformata in una moda se non lo Stato stesso?
La vecchia ‘Cosa Nostra’ rappresentava l’anti-Stato che istaurava rapporti di connivenza con lo Stato attraverso un meccanismo di corruzione; la nuova Mafia si infiltra direttamente nello Stato e cerca di governarlo da dentro. Esempio della prima è la prostituta che viene mandata nel carcere per sollazzare il boss dei due mondi; oppure i riferimenti dal dialogo tra Contorno e Buscetta delle cene a base di aragoste, caviale e champagne durante la loro prigionia all’Ucciardone. Esempio della seconda è la conduzione del processo Andreotti, il ‘processo del secolo’, durante il quale l’avvocato del senatore a vita, Franco Coppi, ha mano libera nella operazione di delegittimazione di Buscetta. Nel fare questo utilizza un meccanismo mafioso di intimidazione in cui gli ricorda che lui e la sua famiglia sono mantenuti e protetti proprio dallo stesso Stato che sta denigrando attraverso la sua testimonianza. Il potere politico tira fuori le unghie per salvarsi. La giustizia italiana si dimostra, in questa occasione, quanto meno lacunosa, e perciò collusa. Buscetta sceglierà di entrare da solo nell’aula semideserta che lo aspetta. Ora che Falcone è morto e non può più sostenerlo in questa indagine sullo Stato si fa strada la frase “Non è più di moda”: come se perseguire la Mafia fosse un fatto di moda. Chi l’ha trasformata in una moda se non lo Stato stesso?
Questione della morte
“Lei adesso diventerà una celebrità. Cercheranno di distruggerla e professionalmente e fisicamente”, dice Buscetta a Falcone che risponde: “Si muore sempre e per tanti motivi: un incidente stradale, un aereo che esplode in volo, il cancro. La morte ci accompagna sempre. Si muore e basta”. E Buscetta: “Io voglio solo morire nel mio letto, mi basterebbe, sarebbe una bella vittoria”, cosa che realmente accadrà. Questa ultima frase la dice lunga sul rapporto costante tra il mafioso e la morte, come se già all’interno del giuramento di affiliazione ci fosse il patto con essa. Ricordate il Settimo sigillo e il cavaliere che gioca con la morte? Tutti coloro che accettano questo gioco, direttamente o indirettamente, stringono un’affiliazione con la stessa. “Il siciliano è abituato a convivere con la morte e il mafioso ancora di più”, dice Falcone in una intervista rilasciata a un giovane Michele Santoro. D'altra parte la Sicilia è abituata a questo da quando ha subito il tradimento da parte del Regno d’Italia, quando è stata saccheggiata, con tutto il Mezzogiorno, per poi essere abbandonata a sé stessa.
Negli interrogatori con Buscetta noi viviamo un Giovanni Falcone cupo e non ironico, come realmente dai documenti d’epoca emergeva; come a dire che, con questa rappresentazione del magistrato, Marco Bellocchio ci vuole portare in un altro momento tristissimo della sua vita, quando nel 1988 viene abbandonato dallo Stato che gli preferisce Antonino Meli alla successione a Consigliere Istruttore della Procura di Palermo. “Falcone cominciò a morire nel gennaio ‘88”, dirà il magistrato Antonino Caponnetto. “Ma voi lo avete capito che il Csm mi ha consegnato alla Mafia? Che quella sentenza di morte che nei miei confronti hanno emesso tempo fa, adesso sanno che la possono eseguire, perché neanche i miei cioè i magistrati mi vogliono?!” dirà lo stesso Falcone a Fernanda Contri, componente del Consiglio superiore della magistratura. Con questo sfalsamento temporale il regista riesce a mettere di fronte due persone tacciate di tradimento, ma che in realtà sono state entrambe tradite dalle loro rispettive ‘famiglie’.
Sempre a proposito di essere tacciati di tradimento assistiamo in diretta alla modalità con cui lo Stato procede verso lo screditamento del testimone e la costruzione della sua inattendibilità. Ricordiamo ancora una volta la scena in cui Buscetta decide autonomamente di testimoniare al processo Andreotti, come atto di fedeltà nei confronti di Falcone e del loro rapporto. Per quanto riguarda Falcone sappiamo dell’operazione di delegittimazione continua patita in vita. Che vuol dire delegittimare? Vuole dire mistificare e portare la persona alla morte psichica ancora prima di quella fisica. La differenza sostanziale tra Falcone e Buscetta è che quest’ultimo aveva già tacitato quel bambino che è l’ultima immagine del film, per affiliarsi alla Mafia: la morte fisica ne è solo il corollario. Falcone invece esprime la volontà di difendere la speranza e la capacità di immaginare un'Italia diversa e per questo, contrariamente a Buscetta che morirà nel suo letto, lui sarà assassinato a Capaci, pur di mantenere fede a sé stesso e alla sua Sicilia. Buscetta rimarrà nell'incubo dell'attesa fino alla fine, insieme con la nostalgia di un gelato a Mondello che non potrà mai più realizzare perché “‘Cosa Nostra’ sa aspettare!”. E' la speranza di Falcone che gli fa dire: “La Mafia non è invincibile, è un fenomeno umano, ha avuto un inizio e avrà una fine”, cosa che lui non ha potuto vedere ma che ha potuto sperare.
Le dinamiche di annullamento dello Stato sono molto più ‘raffinate’ rispetto alle dinamiche più ruspanti ma non meno violente di Totò Riina che aveva l’intento di far “sparire la semenza”. Non vi sembra il delirio psicotico del regime nazista che voleva cancellare il popolo ebraico dalla faccia della terra? E non sarà sulla base di questo tipo di degenerazione di pensiero all’interno di ‘Cosa Nostra’ che compaiono dei veri e propri atti terroristici (delitto Chinnici, e 9 anni dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio) volti a cancellare la speranza?
Negli interrogatori con Buscetta noi viviamo un Giovanni Falcone cupo e non ironico, come realmente dai documenti d’epoca emergeva; come a dire che, con questa rappresentazione del magistrato, Marco Bellocchio ci vuole portare in un altro momento tristissimo della sua vita, quando nel 1988 viene abbandonato dallo Stato che gli preferisce Antonino Meli alla successione a Consigliere Istruttore della Procura di Palermo. “Falcone cominciò a morire nel gennaio ‘88”, dirà il magistrato Antonino Caponnetto. “Ma voi lo avete capito che il Csm mi ha consegnato alla Mafia? Che quella sentenza di morte che nei miei confronti hanno emesso tempo fa, adesso sanno che la possono eseguire, perché neanche i miei cioè i magistrati mi vogliono?!” dirà lo stesso Falcone a Fernanda Contri, componente del Consiglio superiore della magistratura. Con questo sfalsamento temporale il regista riesce a mettere di fronte due persone tacciate di tradimento, ma che in realtà sono state entrambe tradite dalle loro rispettive ‘famiglie’.
Sempre a proposito di essere tacciati di tradimento assistiamo in diretta alla modalità con cui lo Stato procede verso lo screditamento del testimone e la costruzione della sua inattendibilità. Ricordiamo ancora una volta la scena in cui Buscetta decide autonomamente di testimoniare al processo Andreotti, come atto di fedeltà nei confronti di Falcone e del loro rapporto. Per quanto riguarda Falcone sappiamo dell’operazione di delegittimazione continua patita in vita. Che vuol dire delegittimare? Vuole dire mistificare e portare la persona alla morte psichica ancora prima di quella fisica. La differenza sostanziale tra Falcone e Buscetta è che quest’ultimo aveva già tacitato quel bambino che è l’ultima immagine del film, per affiliarsi alla Mafia: la morte fisica ne è solo il corollario. Falcone invece esprime la volontà di difendere la speranza e la capacità di immaginare un'Italia diversa e per questo, contrariamente a Buscetta che morirà nel suo letto, lui sarà assassinato a Capaci, pur di mantenere fede a sé stesso e alla sua Sicilia. Buscetta rimarrà nell'incubo dell'attesa fino alla fine, insieme con la nostalgia di un gelato a Mondello che non potrà mai più realizzare perché “‘Cosa Nostra’ sa aspettare!”. E' la speranza di Falcone che gli fa dire: “La Mafia non è invincibile, è un fenomeno umano, ha avuto un inizio e avrà una fine”, cosa che lui non ha potuto vedere ma che ha potuto sperare.
Le dinamiche di annullamento dello Stato sono molto più ‘raffinate’ rispetto alle dinamiche più ruspanti ma non meno violente di Totò Riina che aveva l’intento di far “sparire la semenza”. Non vi sembra il delirio psicotico del regime nazista che voleva cancellare il popolo ebraico dalla faccia della terra? E non sarà sulla base di questo tipo di degenerazione di pensiero all’interno di ‘Cosa Nostra’ che compaiono dei veri e propri atti terroristici (delitto Chinnici, e 9 anni dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio) volti a cancellare la speranza?
Per un affresco d'insieme...
Queste cinque questioni vengono magistralmente teatralizzate dal Maestro Bellocchio che fa di questo film un’opera epica dove i personaggi vengono affrescati all’interno di un contesto più ampio e dove il regista sembra commentare la narrazione attraverso la musica e la scelta del dialetto, il linguaggio del cuore. A proposito della musica, Nicola Piovani accompagna in modo puntuale i diversi passaggi strutturali del film, dove il regista sembra quasi sghignazzare sulle note del ballo iniziale, di gattopardesca memoria, come a sottolineare il falso movimento e la finzione dei protagonisti; la stessa musica è presente ogni qual volta Buscetta viene trasferito (in aereo dal Brasile in Italia e a Palermo per il maxi processo). Il paradosso tra queste scene è la musica che da una parte rende grottesco il tutto perché sottolinea, ancora una volta, l’assenza di un movimento reale verso un cambiamento (la musica disvela, così, l’apparato di finzione della famiglia: passiamo da una famiglia mafiosa a una famiglia istituzionale); dall’altra è proprio attraverso questa sottolineatura musicale che ci pare di cogliere la posizione del regista che rivendica una estraneità da ciò che si sta svolgendo. Particolarmente toccante è la scelta del tango Historia de un amor nelle due immagini, quella nella scena dell’elicottero in cui Buscetta sta rischiando di perdere la moglie, e quella del festeggiamento del suo compleanno dopo aver scoperto di essere malato in cui lui stesso canta questa canzone. E non dimentichiamo che all’inizio dei titoli di coda vediamo e ascoltiamo il vero Buscetta e la sua bella voce che ben si sposa con l’immagine in bianco e nero di lui bambino ancora non affiliato alla Mafia. Questa canzone parla dei legami di affetto che Buscetta ha con i suoi cari e con la sua Sicilia. Ricordiamo, infine, il Va pensiero sulla lettura della sentenza del maxi processo con le speranze risorgimentali che aspiravano ad una Italia unita e indipendente senza padroni e dominatori stranieri.
C’è ancora un’altra musica latente: è il silenzio che accompagna il dialogo profondo tra Falcone e Buscetta; i due, pur partendo da realtà contrapposte, si incontrano nel desiderio di un ascolto reciproco. E in questa pausa musicale c’è la bellissima stretta di mano tra loro con la mano di Falcone che sembra accogliere quella di Buscetta, come a dire che ne ha colto e custodito l’aspetto umano; come pure i poliziotti, accanto al boss dei due mondi dall’arrivo in Italia fino alla fine, che diventano quasi un coro greco che canta le sorti del protagonista e si fa commento interiore di quello che lui stesso sta vivendo.
Marco Bellocchio, tuttavia, non dimentica che Buscetta è un assassino e ce lo dice proprio con l’ultima immagine mai raccontata a Falcone: la storia riguarda un giovane uomo siciliano condannato a morte da ‘Cosa Nostra’ e un giovane Buscetta che, in quanto affiliato, doveva esserne l’esecutore. Il condannato per scampare alla morte utilizzava come scudo umano il figlio perché era noto che ‘Cosa Nostra’ non uccideva i bambini, ma come viene sottolineato in più occasioni nel film, la Mafia sa attendere e vent’anni dopo in occasione della partenza per il viaggio di nozze del figlio, Buscetta compare dal buio e lo fredda.
Dall’immagine successiva in cui è il vero Buscetta a cantare sulla fotografia di sé stesso bambino, si disvela il vero tradimento. Il tradimento contro ‘Cosa Nostra’ tradita nei suoi valori originari è solo una narrazione difensiva, mentre non ha difese di fronte all’abbandono perpetrato nei confronti dei due figli più grandi che vengono letteralmente gettati in pasto alla nuova Mafia in cambio della sua ‘libertà’. Non a caso la narrazione onirica viene scandita a partire da questo momento. Salvare ad ogni costo i figli sudamericani è un po’ come riprendere contatto con il sé stesso bambino annullato e dimenticato, per ritornare in rapporto con la speranza. Cristina è una immagine emblematica: è lei che dirà al marito di parlare con Falcone sottolineando che può scegliere la propria famiglia e i propri figli; ed è sempre lei in una delle immagini finali del film a disarmarlo mentre lui sta di guardia sul tetto di una casa americana in attesa del suo sicario.
Il traditore è colui che rimane fedele a dei valori reclusi nel passato (e per questo Buscetta non si considera un pentito) e non a colui che guarda alla possibilità di una trasformazione. In questo senso ci sentiamo di accogliere quanto dichiarato in diverse recenti interviste da Marco Bellocchio: lui stesso è un traditore perché si è allontanato dai valori della sua famiglia, ma anche da quelli portati avanti da una certa cultura. Una cosa è certa: la profonda connessione tra il bambino e l’artista Marco Bellocchio che, sulla soglia degli 80 anni, riesce a proporsi ad alto livello attraverso vie per lui inusuali proprio come fanno i bambini che vogliono sperimentare con curiosità e divertimento il mondo che li circonda.
E ci racconta tutto questo con una grande libertà sia da un punto di vista di tecnica cinematografica che di immagini e di pensiero. Sono disseminate qua e là nel film delle citazioni che provengono dal grande cinema italiano che raccontano il suo amore per il cinema e per la sua storia. Del riferimento al Gattopardo ne abbiamo già parlato, ma ci sono riferimenti al Il Divo di Sorrentino quando si sintonizza con l’ironia di questo regista, come pure sul suo aspetto surreale visto che Andreotti se ne va via dalla stanza del sarto praticamente in mutande. Inoltre le scene di azione del genere ‘crime’ inusuali per il regista piacentino sembrano attingere ad alcuni film di Elio Petri. E poi chissà se la scelta del titolo con quei caratteri e quel rosso allude al film di Mario Martone Capri Revolution?
Pierfrancesco Favino è a dir poco emozionante e coinvolgente nel suo essersi calato così profondamente in un personaggio difficile e per certi versi ambiguo come Buscetta. Ma tutti gli altri non sono da meno: Luigi Lo Cascio che tira fuori dalle viscere la sua sicilianità, o ancora Fabrizio Ferracane che dà vita a tutte le finzioni di Pippo Calò, e ancora Fausto Russo Alesi che reinterpreta in modo misurato e affettivo Giovanni Falcone. Che dire poi degli altri attori, che hanno espresso una coralità rara.
Ringraziamo dal più profondo del cuore Marco Bellocchio per averci portato per mano attraverso l’oscurità di quegli anni mantenendo vivo il rapporto con la vita, con la speranza e il desiderio di andare oltre.
C’è ancora un’altra musica latente: è il silenzio che accompagna il dialogo profondo tra Falcone e Buscetta; i due, pur partendo da realtà contrapposte, si incontrano nel desiderio di un ascolto reciproco. E in questa pausa musicale c’è la bellissima stretta di mano tra loro con la mano di Falcone che sembra accogliere quella di Buscetta, come a dire che ne ha colto e custodito l’aspetto umano; come pure i poliziotti, accanto al boss dei due mondi dall’arrivo in Italia fino alla fine, che diventano quasi un coro greco che canta le sorti del protagonista e si fa commento interiore di quello che lui stesso sta vivendo.
Marco Bellocchio, tuttavia, non dimentica che Buscetta è un assassino e ce lo dice proprio con l’ultima immagine mai raccontata a Falcone: la storia riguarda un giovane uomo siciliano condannato a morte da ‘Cosa Nostra’ e un giovane Buscetta che, in quanto affiliato, doveva esserne l’esecutore. Il condannato per scampare alla morte utilizzava come scudo umano il figlio perché era noto che ‘Cosa Nostra’ non uccideva i bambini, ma come viene sottolineato in più occasioni nel film, la Mafia sa attendere e vent’anni dopo in occasione della partenza per il viaggio di nozze del figlio, Buscetta compare dal buio e lo fredda.
Dall’immagine successiva in cui è il vero Buscetta a cantare sulla fotografia di sé stesso bambino, si disvela il vero tradimento. Il tradimento contro ‘Cosa Nostra’ tradita nei suoi valori originari è solo una narrazione difensiva, mentre non ha difese di fronte all’abbandono perpetrato nei confronti dei due figli più grandi che vengono letteralmente gettati in pasto alla nuova Mafia in cambio della sua ‘libertà’. Non a caso la narrazione onirica viene scandita a partire da questo momento. Salvare ad ogni costo i figli sudamericani è un po’ come riprendere contatto con il sé stesso bambino annullato e dimenticato, per ritornare in rapporto con la speranza. Cristina è una immagine emblematica: è lei che dirà al marito di parlare con Falcone sottolineando che può scegliere la propria famiglia e i propri figli; ed è sempre lei in una delle immagini finali del film a disarmarlo mentre lui sta di guardia sul tetto di una casa americana in attesa del suo sicario.
Il traditore è colui che rimane fedele a dei valori reclusi nel passato (e per questo Buscetta non si considera un pentito) e non a colui che guarda alla possibilità di una trasformazione. In questo senso ci sentiamo di accogliere quanto dichiarato in diverse recenti interviste da Marco Bellocchio: lui stesso è un traditore perché si è allontanato dai valori della sua famiglia, ma anche da quelli portati avanti da una certa cultura. Una cosa è certa: la profonda connessione tra il bambino e l’artista Marco Bellocchio che, sulla soglia degli 80 anni, riesce a proporsi ad alto livello attraverso vie per lui inusuali proprio come fanno i bambini che vogliono sperimentare con curiosità e divertimento il mondo che li circonda.
E ci racconta tutto questo con una grande libertà sia da un punto di vista di tecnica cinematografica che di immagini e di pensiero. Sono disseminate qua e là nel film delle citazioni che provengono dal grande cinema italiano che raccontano il suo amore per il cinema e per la sua storia. Del riferimento al Gattopardo ne abbiamo già parlato, ma ci sono riferimenti al Il Divo di Sorrentino quando si sintonizza con l’ironia di questo regista, come pure sul suo aspetto surreale visto che Andreotti se ne va via dalla stanza del sarto praticamente in mutande. Inoltre le scene di azione del genere ‘crime’ inusuali per il regista piacentino sembrano attingere ad alcuni film di Elio Petri. E poi chissà se la scelta del titolo con quei caratteri e quel rosso allude al film di Mario Martone Capri Revolution?
Pierfrancesco Favino è a dir poco emozionante e coinvolgente nel suo essersi calato così profondamente in un personaggio difficile e per certi versi ambiguo come Buscetta. Ma tutti gli altri non sono da meno: Luigi Lo Cascio che tira fuori dalle viscere la sua sicilianità, o ancora Fabrizio Ferracane che dà vita a tutte le finzioni di Pippo Calò, e ancora Fausto Russo Alesi che reinterpreta in modo misurato e affettivo Giovanni Falcone. Che dire poi degli altri attori, che hanno espresso una coralità rara.
Ringraziamo dal più profondo del cuore Marco Bellocchio per averci portato per mano attraverso l’oscurità di quegli anni mantenendo vivo il rapporto con la vita, con la speranza e il desiderio di andare oltre.
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NAVIGARE PER I MARI COME EVOLUZIONE DELL’IMMAGINE UMANA di Claudio Malizia. Anno 2015
NAVIGARE PER I MARI COME EVOLUZIONE DELL’IMMAGINE UMANA
Claudio Malizia
Ispirazione di Claudio Malizia
Il rapporto fra uomo e mare è storia antica. Il mare ha rappresentato per secoli un affascinante confine naturale e una sfida lanciata alla curiosità e alla temerarietà dell’uomo. L’orizzonte cantava di possibili posti da scoprire attraverso quello spazio liquido dove la storia dell’evoluzione biologica colloca la nascita della vita. Alle origini era l’oceano, teatro del tutto e del possibile che abbracciava una sola e grande superficie asciutta chiamata Pangea. Poi, in un tempo ancestrale che pur ci appartiene, la terra emersa ha continuato il suo cammino di separazione che ha accolto nuovi oceani e mari interni.
Nel corso della nostra evoluzione le popolazioni dedite alla caccia hanno scoperto che la pelle degli animali opportunamente lavorata poteva essere resa impermeabile all’acqua. All’inizio con semplici otri gonfi di aria e poi con assemblaggi più complessi di pelli e legni, hanno dato forma a manufatti che permettevano di navigare lungo i tratti di costa non troppo esposti, nei fiumi e nei laghi. Con l’avvento dei primi strumenti di lavoro in metallo è stato possibile lavorare tronchi più grandi. Il legno era il materiale privilegiato nella costruzione delle imbarcazioni per quegli uomini che per primi iniziarono a muoversi nell’acqua; lo stesso legno che manteneva viva la fiamma del fuoco, nata misteriosamente dalle forze della natura, segnava l’inizio di una possibile nuova storia dell’uomo sulla terra. Cinquemila anni fa, lunghi tronchi di alberi robusti venivano scavati dopo aver reso il legno più friabile, bruciando là dove lo si voleva scarnificare.
Era il tempo delle piroghe, che divennero un’importante evoluzione delle zattere: i primi complessi manufatti assemblati con pelli e legno di piccole dimensioni. La propulsione delle prime imbarcazioni avveniva per mezzo di pagaie in mare aperto e di pertiche in acque più tranquille e familiari. Mancano ritrovamenti etnografici che testimoniano l’uso dei remi; d’altra parte per avere un sistema di propulsione a remi la barca doveva essere molto robusta, al punto da garantire la necessaria resistenza alla spinta di avanzamento che si generava nel movimento. Era il tempo in cui nascevano le chiavi di violino che aprivano le esaltanti sinfonie dell’evoluzione della storia umana: Umiak per gli Eschimesi d’Alaska, Canoe per gli Indiani d’America, Piroghe per i Polinesiani della Nuova Zelanda. Erano per lo più popolazioni dedite alla pesca e alla coltivazione, già in possesso di conoscenze astronomiche avanzate. Su di loro mancano testimonianze in grado di ricostruire che la preparazione dei viaggi avveniva attraverso lo studio del moto delle stelle; sappiamo però che ne conoscevano ben centocinquanta e ne riconoscevano la posizione in rapporto al sorgere e al calar del sole, oltre alla loro luminosità in rapporto alla latitudine.
Nel contatto con l’ambiente circostante disegnavano inedite architetture per creare spazi che accoglievano una nuova intimità: capanne e tende soppiantavano la grotta, culla della loro primitiva arte, sulla cui roccia spesso avevano rappresentato immagini semplici di cervi, buoi, scene di caccia, rappresentazioni di vita fra gli uomini. Immagini che nobilitavano l’uomo elevandolo dalla quotidianità dell’esistere attraverso la scoperta di una manualità che, quando era messa al servizio della fantasia, restituiva un senso diverso alle sue faticose conquiste. Ogni popolo aveva i propri rituali che trasformavano la manualità del gesto semplice in un’arte: i Polinesiani consideravano sacri gli arnesi con i quali davano vita alle loro piroghe e sacra la stessa attività. La trasformazione del gesto in un codice rituale aveva forse la pretesa di restituire un significato universale per renderlo patrimonio di tutti? È certo che si esce dal piano soggettivo per accedere ad una comunicazione collettiva dove la ritualità diventa linguaggio con cui comunicare agli altri di un proprio tempo e l’ingegno varca il limite del fatto concreto librandosi in volo come esercizio di fantasia: possiamo d’altra parte escludere che l’idea della vela possa essere nata dal tentativo giocoso di intrappolare i venti? In Asia Orientale è stato ritrovato un modellino di terracotta datato 3500 a.C. che raffigura una imbarcazione con albero tipica della Mesopotamia. Anche gli Egiziani avevano introdotto l’uso della vela nella navigazione interna del Nilo poiché i venti soffiavano quotidianamente con regolarità dal mare verso l’interno e questo permetteva loro di risalire la corrente con facilità. La presenza di vele sulle imbarcazioni potrebbe confermare inoltre l’ipotesi che colloca in anticipo la comparsa delle prime imbarcazioni in ossatura e fasciame a circa 5000 anni fa. L’uso della vela, infatti, imponeva di costruire uno scafo dalla struttura articolata per garantire la stabilità e la resistenza necessarie a controbilanciare la pressione del vento. Era necessario l’impiego di una tecnica che assemblasse le tavole di legno giustapponendole ad incastro per permettere di avere imbarcazioni più grandi e svincolate dalla grandezza dei tronchi. L’aumento delle dimensioni delle imbarcazioni permetteva così di trasportare merci in maggiore quantità e amplificava le dimensioni dello sviluppo delle popolazioni e la loro ricchezza.
Mi piace pensare che questi uomini, nel loro navigare guidati dalle stelle e dai venti, in un ambiente così vasto e fecondo, fossero sostenuti dalla stessa audace curiosità che muove il bambino a trovare la spinta per alzarsi alla ricerca della stazione eretta, in quella posizione in cui lo sguardo trova finalmente un nuovo orizzonte che reclama di essere raggiunto. In quei primi movimenti c’è la crudezza di un sapere non codificato che lo porta a cercare il nuovo al di là del proprio mondo, là dove il confine è solo il limite fisico di uno sguardo che può essere varcato con la fantasia. Gli uomini affrontano il mare portatore di vita con l’ardore di attraversare uno spazio denso di molecole incontrollabili, sfuggenti tanto da dover cercare ogni volta un faticoso equilibrio per mantenere la spinta necessaria ad andare oltre. Ammirano il mare di fronte a loro e sognano di scoperte. Per quelli che mantengono viva dentro di sé l’immagine del bambino curioso di fronte al mare della vita si schiude una rotta non tracciata. Così i nuovi percorsi si imprimono nelle menti di quelli che hanno il mare dentro e che prendono a chiamarsi marinai per quella loro scelta di avventura nello spazio blu. Memoria… sapienza del corpo come solo punto di riferimento che permette di determinare la propria posizione quando ancora il mondo è pensato in termini bidimensionali e le carte geografiche ed i portolani sono quasi inesistenti. Le rotte sono storie da tramandare col suono delle parole, la conoscenza è vissuta sulla pelle sferzata dal mare ogni volta che si parte come uomini soli, pronti ad approdare su una terra sconosciuta nella quale riporre la speranza di un nuovo domani per sé stessi e per i propri cari. Strano movimento quello dei primi uomini alla scoperta del mondo! Andavano avanti alla ricerca di nuove terre per nuovi commerci, eppure potevano sentirsi finalmente felici di aver trovato una terra dove far crescere nuove radici solo quando trovavano il conforto delle donne che li raggiungevano: la terra al di là del mare diventava allora luogo sacro dove poteva nascere e crescere una comunità che edificava il proprio villaggio. E così, mentre uomini liberi cercavano e scoprivano nuovi luoghi per sognare e di cui narrare alle proprie donne, cominciavano ad apparire su quelle imbarcazioni i primi schiavi, feroci bottini di guerra, strappati alle proprie donne e alle proprie terre da altri uomini sordi ad ogni umano dolore, che non si accorgevano di aver sacrificato il proprio mare interno sull’altare che sempre costruisce chi sottomette.
Mare fecondo il Mediterraneo! Fucina dei miti degli eroi, sempre pronto ad accogliere il viaggio di chi è alla ricerca della propria identità. L’evoluzione dei rapporti fra le comunità che si affacciavano su quel mare interno narrano di una fioritura dei commerci e dello sviluppo di una comunità sociale che si faceva strada attraverso quella dimensione squisitamente umana di cooperazione. Dai villaggi e dalle città nate sulle sue rive partivano le linee che tessevano, collegandole tutte quante, una fiorente e immensa rete. Il divenire dell’uomo si rifletteva anche nel mutare della struttura delle barche, perché cambiavano le tecniche di costruzione delle stesse. La linea dello scafo prendeva forma a partire dall’esterno attraverso la posa del fasciame che separava lo spazio interno dell’imbarcazione da quello esterno a contatto con l’acqua: si incastravano tavole di legno per mezzo di inserti trasversali (che erano per lo più sottili parallelepipedi), inseriti in fori di sezione rettangolare, per impedire lo scavallamento dei piani delle tavole. Un ulteriore affinamento costruttivo fu il fissaggio ortogonale degli inserti attraverso l’utilizzo di chiodi di legno o metallo, per meglio bloccare le tavole del fasciame le une rispetto alle altre, permettendo di irrobustire la struttura. La necessità di navigare solo di giorno e di adoperare il tempo delle soste per riparare i danni riportati durante la navigazione, erano talmente frequenti da richiedere la selezione, all’interno dell’equipaggio, di figure specializzate per le riparazioni; la loro importanza divenne tale che, negli scontri armati, la conoscenza di questa arte costituiva un valido salvacondotto per avere salva la vita. Col trascorrere del tempo la sequenza costruttiva venne migliorata con l’applicazione di uno scheletro interno modellato sul guscio dell’imbarcazione dopo che questa aveva già assunto le sue forme; un guscio che rinforzava internamente l’imbarcazione e dava una compattezza strutturale che meno facilmente s’infrangeva di fronte ad un mare burrascoso.
Il progresso della tecnica marinaresca rimase legato a lungo al lento sviluppo delle navi da guerra. Queste imbarcazioni presentavano la stessa sequenza costruttiva di quelle commerciali, che crescevano dall’esterno verso l’interno ma ne differivano per un rostro prodiero - una sporgenza dello scafo impiegato per distruggere il mezzo nemico una volta scagliata la prua della nave sul fianco dell’avversaria - e per due castelli - ovvero due piattaforme costruite sopraelevate dal corpo della nave, collocate rispettivamente a prua e a poppa; questi ultimi servivano ad ospitare i miliziani pronti al combattimento dopo l’affiancamento delle navi ed era un espediente tecnico che mirava a ricreare le condizioni della terraferma sulla quale i soldati erano abili guerrieri. La silenziosa evoluzione delle forme di questi strumenti di guerra portò alla chiusura laterale dei castelli con la conseguente elevazione in verticale e alla creazione di spazi coperti sopra il ponte per ospitare la crescente complessità che andava assumendo la vita di bordo. I Greci ed i Romani avevano sulle loro navi commerciali una cabina per il comandante ed i servizi economici, mentre gli altri marinai dormivano sul ponte della nave o a terra all’attracco.
Fu proprio il Mediterraneo che vide l’affermazione della migliore espressione tecnica navale dell’antichità con le navi onerarie della Roma imperiale. I remi, come primo mezzo di propulsione, rimasero in uso nelle applicazioni militari fino al quindicesimo secolo e poi vennero gradualmente eliminati: la presenza di rematori occupava spazio prezioso per gli oggetti dei traffici commerciali e spinse all’applicazione intensiva della propulsione a vela. Fu questa necessità ad affinare lo studio dei venti e delle maree per la navigazione. L’apparente stallo del periodo medioevale vide la contaminazione dell’arte costruttiva dei popoli mediterranei con quella delle popolazioni dell’Europa Settentrionale. Le Colonne d’Ercole, poste a segnare il confine del mondo conosciuto, rimanevano in attesa di quei temerari navigatori che sentivano la spinta a passare oltre, verso l’ignoto, come un bambino che si sente spingere fuori dal grembo materno al momento del parto, per quella nascita che lo proietta nel nuovo mondo.
A differenza della mitologia, la storia umana si arricchiva di una quotidianità che viveva di commerci e delle guerre scatenate per il controllo del Mediterraneo. L’occupazione turca delle vie balcaniche per l’Oriente creò le condizioni per spingere gli intraprendenti mercanti europei a finanziare i viaggi che dovevano condurre alla scoperta di nuove vie di comunicazione. La nave oneraria romana, che nelle acque del Mare Nostrum aveva trovato il suo ambiente ideale di impiego, risultava strutturalmente inadeguata per affrontare i mari atlantici, perché i forti venti che soffiavano sulle vele dell’unico albero tendevano ad aprirne la struttura: il guscio portante, sebbene rinforzato internamente, rimaneva troppo debole. Era ormai pronta a nascere quella che nel Mediterraneo assunse il nome di galea. Era una nascita che imponeva di cambiare l’ossatura stessa delle navi. I costruttori navali impararono a formare una struttura portante interna con una chiglia longitudinale e delle coste trasversali che si innalzavano secondo un movimento che ricorda quello del corpo umano, con la colonna vertebrale che poggia sull’acqua mentre per mezzo del torace il corpo si eleva in galleggiamento fuori dal pelo dell’acqua. La costruzione della chiglia ora preludeva alla chiusura esterna con il fasciame di copertura, calafatato e ricoperto talvolta di lamine metalliche, per prevenire la corrosione da parte degli organismi marini. E così, la necessità dei molti di mantenere viva la propria comunità incontrava il desiderio di alcuni di spingersi ancora una volta oltre la linea dell’orizzonte che inesorabile nel suo progredire imponeva la graduale e necessaria separazione da quel remo diventato col tempo prolungamento del braccio. Cresciuta la sapienza di potere navigare un mare interno, si poteva ora affrontare la sfida dell’oceano un’onda in avanti prima del grande viaggio.
Le coste dell’Africa Occidentale erano diventate un appetibile spazio di conquista: tra il 1434 e il 1488 rappresentavano un passaggio obbligato per raggiungere l’India, anche se si narra che già nel 500 a.C. fosse stato compiuto il periplo dell’Africa. Agli inizi del quindicesimo secolo la navigazione era solo costiera perché non vi erano strumenti efficaci per condurre la nave in alto mare e seguire con precisione una rotta. I Portoghesi per primi si impegnarono a costruire lungo le coste africane dei semplici scali costieri per sostare con le loro nao durante i lunghi viaggi. La nao era la caratterizzazione portoghese della galea mediterranea: faceva ancora uso di vogatori, anche se prevedeva il timone che era stato introdotto nel XII secolo, e due o tre alberi con una velatura orientabile per consentire di stringere i venti ed avanzare su traiettorie più prossime a quella desiderata. La suddivisione della velatura permetteva di adeguare il numero di vele alle condizioni meteorologiche senza sovraccaricare un solo albero, come avveniva nel passato. Il cambiamento strutturale delle imbarcazioni apriva così le nuove traiettorie ai viaggi oceanici; esso giungeva dopo un lungo periodo di apparente staticità giacché lo scontro religioso tra cattolici e musulmani aveva assorbito le energie degli uomini per tutto quel tempo. Fu difficile svegliarsi da questo torpore e intraprendere la via del riscatto dai secoli bui e pestilenti attribuiti al Medioevo. I regni di Portogallo e Spagna conducevano una politica di espansione commerciale e coloniale, che risuona ancora oggi in un passo delle memorie di un giovane veneziano, Alvise da Cà da Mosto, al servizio dell’Infante di Portogallo: “...Immodoché ogni anno si tragge d’Argin per Portogallo da settecento a ottocento teste...; solevano le caravelle di Portogallo venire a questo golfo d’Argin armate, quando quattro, e quando più, e saltavano in terra di notte, e assalivano alcuni villaggi di pescatori, ...in modo che prendevano di questi arabi, sì maschi, come femmine, e conducevano in Portogallo a vendere... ”.
Verso la fine del quindicesimo secolo il nostro Cristoforo Colombo fu il primo ad effettuare una navigazione scientifica in alto mare. Nel corso dei secoli la trasformazione della zattera di pelle e legno aveva permesso la nascita della caravella, una imbarcazione tondeggiante, dotata di tre alberi che sottendevano quattro vele quadre ed una vela latina al terzo, che era strutturalmente idonea a navigare negli oceani. Audace nel seguire la sua intuizione, Colombo ed il suo equipaggio partirono dalle Canarie alla volta delle Indie dando l’avvio ad un viaggio di scoperta che poco aveva a che fare, se non nell’idea del geniale navigatore, col desiderio di fecondare nuove terre: oro, argento e spezie rappresentavano la méta che aveva spinto i più ad imbarcarsi. Dopo un mese di navigazione oceanica durante il quale Colombo calcolava quotidianamente la posizione della propria nave, mentendo ai suoi uomini esausti e disperati sull’effettiva distanza percorsa, egli poté scoprire l’errore di declinazione della bussola e porre poi le basi per quello che sarebbe diventata la determinazione della longitudine, senza la quale non sarebbe possibile calcolare la posizione geografica delle navi. Quei marinai passarono più di due mesi sugli oceani senza l’ombra di una terra in vista, fino a quando l’esploratore dei mari trovò la sua Terra, il nuovo continente, la mattina del 12 Ottobre 1492.
Con questa data la scoperta sanciva la nascita dell’Era Moderna. L’attraversamento e il superamento dei mari interiori avevano permesso il ricongiungersi con l’immagine primordiale dell’oceano regalando una nuova realtà interna all’umano progredire. Quel momento era solo l’inizio di un percorso che dal 1569 in poi divenne più facile grazie a Gerhard Kremer il quale realizzò l’attuale carta geografica in proiezione di Mercatore. Comparivano così le vie invisibili del mare tracciate idealmente su quelle onde che non confondevano più con la loro possente fluidità. La navigazione oceanica ebbe un ulteriore impulso con l’introduzione del sestante e del cronometro, due nuovi strumenti di misura. Il tempo era ormai maturo per passare dalla galea al vascello. Con questi mezzi le prestigiose e potenti Società Geografiche allestirono temerarie spedizioni protese ad acquisire le sole conoscenze volte ad aprire la strada agli scambi commerciali che divennero col tempo veri e propri “impegni” coloniali. A partire dal XVIII secolo gli insediamenti nel mondo si svilupparono. Nel 1884 il Congresso di Berlino decise la spartizione dei territori africani: uomini come Stanley Livingstone, insigne esploratore, permisero di tracciare le mappe africane.
Basta ascoltare il suono dei nomi delle zone dell’Africa Occidentale - Costa d’Avorio, Costa d’oro, Costa degli Schiavi - per riconoscere che l’Uomo nella sua storia ha intrapreso direzioni diverse da quelle che avrebbe potuto tracciare verso la piena realizzazione delle idee di uguaglianza, fratellanza e legalità che avevano infiammato il cuore dell’Europa negli anni della Rivoluzione Francese. Accadeva così che molte scoperte diventassero l’occasione per colonizzare e convertire genti e paesi in nome di un dio antico o moderno, ideologia dietro cui si nasconde sempre la violenta reificazione di ciò che ci rende umani, per immolarlo in nome di un pensiero che produce uomini-oggetto da utilizzare per un fruttuoso commercio fra i popoli. Dove è andata a finire quella spinta evolutiva naturale che abbatte le frontiere e apre alle comunicazioni? L’allargamento dei mercati e la loro successiva omogeneizzazione non ha unito più i popoli, ma li ha inglobati. Su questa globalizzazione, segnale che necrotizza ogni differenza, punta la pseudo-civiltà dei nostri tempi mancando al suo impegno di civilizzazione. Ne sono espressione le navi da crociera nei mari di tutto il mondo che accolgono persone di tutte le nazionalità per “consumare” una conoscenza che niente ha più a che vedere con il viaggiare ed il sapere.
Noi siamo dalla parte degli esploratori che, al contrario dei conquistatori, si lasciano accarezzare dalla meraviglia di una notte stellata e si fanno trasportare dal suono dei venti fra le onde blu del mare, su di un tronco scavato pronto a diventare sempre un altro strumento quando il mondo fa una nuova richiesta. Nel silenzio possiamo ascoltare il suono del mare e compararlo all’infinito romorìo che vive dentro di noi; esso ci rimembra ancor di un viaggio remoto e sempre attuale che rende costantemente pronti a varcare le Colonne d’Ercole, stargate dell’orizzonte oltre il quale si spinge il nostro desiderio di conoscenza.
Nel corso della nostra evoluzione le popolazioni dedite alla caccia hanno scoperto che la pelle degli animali opportunamente lavorata poteva essere resa impermeabile all’acqua. All’inizio con semplici otri gonfi di aria e poi con assemblaggi più complessi di pelli e legni, hanno dato forma a manufatti che permettevano di navigare lungo i tratti di costa non troppo esposti, nei fiumi e nei laghi. Con l’avvento dei primi strumenti di lavoro in metallo è stato possibile lavorare tronchi più grandi. Il legno era il materiale privilegiato nella costruzione delle imbarcazioni per quegli uomini che per primi iniziarono a muoversi nell’acqua; lo stesso legno che manteneva viva la fiamma del fuoco, nata misteriosamente dalle forze della natura, segnava l’inizio di una possibile nuova storia dell’uomo sulla terra. Cinquemila anni fa, lunghi tronchi di alberi robusti venivano scavati dopo aver reso il legno più friabile, bruciando là dove lo si voleva scarnificare.
Era il tempo delle piroghe, che divennero un’importante evoluzione delle zattere: i primi complessi manufatti assemblati con pelli e legno di piccole dimensioni. La propulsione delle prime imbarcazioni avveniva per mezzo di pagaie in mare aperto e di pertiche in acque più tranquille e familiari. Mancano ritrovamenti etnografici che testimoniano l’uso dei remi; d’altra parte per avere un sistema di propulsione a remi la barca doveva essere molto robusta, al punto da garantire la necessaria resistenza alla spinta di avanzamento che si generava nel movimento. Era il tempo in cui nascevano le chiavi di violino che aprivano le esaltanti sinfonie dell’evoluzione della storia umana: Umiak per gli Eschimesi d’Alaska, Canoe per gli Indiani d’America, Piroghe per i Polinesiani della Nuova Zelanda. Erano per lo più popolazioni dedite alla pesca e alla coltivazione, già in possesso di conoscenze astronomiche avanzate. Su di loro mancano testimonianze in grado di ricostruire che la preparazione dei viaggi avveniva attraverso lo studio del moto delle stelle; sappiamo però che ne conoscevano ben centocinquanta e ne riconoscevano la posizione in rapporto al sorgere e al calar del sole, oltre alla loro luminosità in rapporto alla latitudine.
Nel contatto con l’ambiente circostante disegnavano inedite architetture per creare spazi che accoglievano una nuova intimità: capanne e tende soppiantavano la grotta, culla della loro primitiva arte, sulla cui roccia spesso avevano rappresentato immagini semplici di cervi, buoi, scene di caccia, rappresentazioni di vita fra gli uomini. Immagini che nobilitavano l’uomo elevandolo dalla quotidianità dell’esistere attraverso la scoperta di una manualità che, quando era messa al servizio della fantasia, restituiva un senso diverso alle sue faticose conquiste. Ogni popolo aveva i propri rituali che trasformavano la manualità del gesto semplice in un’arte: i Polinesiani consideravano sacri gli arnesi con i quali davano vita alle loro piroghe e sacra la stessa attività. La trasformazione del gesto in un codice rituale aveva forse la pretesa di restituire un significato universale per renderlo patrimonio di tutti? È certo che si esce dal piano soggettivo per accedere ad una comunicazione collettiva dove la ritualità diventa linguaggio con cui comunicare agli altri di un proprio tempo e l’ingegno varca il limite del fatto concreto librandosi in volo come esercizio di fantasia: possiamo d’altra parte escludere che l’idea della vela possa essere nata dal tentativo giocoso di intrappolare i venti? In Asia Orientale è stato ritrovato un modellino di terracotta datato 3500 a.C. che raffigura una imbarcazione con albero tipica della Mesopotamia. Anche gli Egiziani avevano introdotto l’uso della vela nella navigazione interna del Nilo poiché i venti soffiavano quotidianamente con regolarità dal mare verso l’interno e questo permetteva loro di risalire la corrente con facilità. La presenza di vele sulle imbarcazioni potrebbe confermare inoltre l’ipotesi che colloca in anticipo la comparsa delle prime imbarcazioni in ossatura e fasciame a circa 5000 anni fa. L’uso della vela, infatti, imponeva di costruire uno scafo dalla struttura articolata per garantire la stabilità e la resistenza necessarie a controbilanciare la pressione del vento. Era necessario l’impiego di una tecnica che assemblasse le tavole di legno giustapponendole ad incastro per permettere di avere imbarcazioni più grandi e svincolate dalla grandezza dei tronchi. L’aumento delle dimensioni delle imbarcazioni permetteva così di trasportare merci in maggiore quantità e amplificava le dimensioni dello sviluppo delle popolazioni e la loro ricchezza.
Mi piace pensare che questi uomini, nel loro navigare guidati dalle stelle e dai venti, in un ambiente così vasto e fecondo, fossero sostenuti dalla stessa audace curiosità che muove il bambino a trovare la spinta per alzarsi alla ricerca della stazione eretta, in quella posizione in cui lo sguardo trova finalmente un nuovo orizzonte che reclama di essere raggiunto. In quei primi movimenti c’è la crudezza di un sapere non codificato che lo porta a cercare il nuovo al di là del proprio mondo, là dove il confine è solo il limite fisico di uno sguardo che può essere varcato con la fantasia. Gli uomini affrontano il mare portatore di vita con l’ardore di attraversare uno spazio denso di molecole incontrollabili, sfuggenti tanto da dover cercare ogni volta un faticoso equilibrio per mantenere la spinta necessaria ad andare oltre. Ammirano il mare di fronte a loro e sognano di scoperte. Per quelli che mantengono viva dentro di sé l’immagine del bambino curioso di fronte al mare della vita si schiude una rotta non tracciata. Così i nuovi percorsi si imprimono nelle menti di quelli che hanno il mare dentro e che prendono a chiamarsi marinai per quella loro scelta di avventura nello spazio blu. Memoria… sapienza del corpo come solo punto di riferimento che permette di determinare la propria posizione quando ancora il mondo è pensato in termini bidimensionali e le carte geografiche ed i portolani sono quasi inesistenti. Le rotte sono storie da tramandare col suono delle parole, la conoscenza è vissuta sulla pelle sferzata dal mare ogni volta che si parte come uomini soli, pronti ad approdare su una terra sconosciuta nella quale riporre la speranza di un nuovo domani per sé stessi e per i propri cari. Strano movimento quello dei primi uomini alla scoperta del mondo! Andavano avanti alla ricerca di nuove terre per nuovi commerci, eppure potevano sentirsi finalmente felici di aver trovato una terra dove far crescere nuove radici solo quando trovavano il conforto delle donne che li raggiungevano: la terra al di là del mare diventava allora luogo sacro dove poteva nascere e crescere una comunità che edificava il proprio villaggio. E così, mentre uomini liberi cercavano e scoprivano nuovi luoghi per sognare e di cui narrare alle proprie donne, cominciavano ad apparire su quelle imbarcazioni i primi schiavi, feroci bottini di guerra, strappati alle proprie donne e alle proprie terre da altri uomini sordi ad ogni umano dolore, che non si accorgevano di aver sacrificato il proprio mare interno sull’altare che sempre costruisce chi sottomette.
Mare fecondo il Mediterraneo! Fucina dei miti degli eroi, sempre pronto ad accogliere il viaggio di chi è alla ricerca della propria identità. L’evoluzione dei rapporti fra le comunità che si affacciavano su quel mare interno narrano di una fioritura dei commerci e dello sviluppo di una comunità sociale che si faceva strada attraverso quella dimensione squisitamente umana di cooperazione. Dai villaggi e dalle città nate sulle sue rive partivano le linee che tessevano, collegandole tutte quante, una fiorente e immensa rete. Il divenire dell’uomo si rifletteva anche nel mutare della struttura delle barche, perché cambiavano le tecniche di costruzione delle stesse. La linea dello scafo prendeva forma a partire dall’esterno attraverso la posa del fasciame che separava lo spazio interno dell’imbarcazione da quello esterno a contatto con l’acqua: si incastravano tavole di legno per mezzo di inserti trasversali (che erano per lo più sottili parallelepipedi), inseriti in fori di sezione rettangolare, per impedire lo scavallamento dei piani delle tavole. Un ulteriore affinamento costruttivo fu il fissaggio ortogonale degli inserti attraverso l’utilizzo di chiodi di legno o metallo, per meglio bloccare le tavole del fasciame le une rispetto alle altre, permettendo di irrobustire la struttura. La necessità di navigare solo di giorno e di adoperare il tempo delle soste per riparare i danni riportati durante la navigazione, erano talmente frequenti da richiedere la selezione, all’interno dell’equipaggio, di figure specializzate per le riparazioni; la loro importanza divenne tale che, negli scontri armati, la conoscenza di questa arte costituiva un valido salvacondotto per avere salva la vita. Col trascorrere del tempo la sequenza costruttiva venne migliorata con l’applicazione di uno scheletro interno modellato sul guscio dell’imbarcazione dopo che questa aveva già assunto le sue forme; un guscio che rinforzava internamente l’imbarcazione e dava una compattezza strutturale che meno facilmente s’infrangeva di fronte ad un mare burrascoso.
Helvoetsluys: la "Città di Utrecht" prende il mare di W. Turner (1832)
Il progresso della tecnica marinaresca rimase legato a lungo al lento sviluppo delle navi da guerra. Queste imbarcazioni presentavano la stessa sequenza costruttiva di quelle commerciali, che crescevano dall’esterno verso l’interno ma ne differivano per un rostro prodiero - una sporgenza dello scafo impiegato per distruggere il mezzo nemico una volta scagliata la prua della nave sul fianco dell’avversaria - e per due castelli - ovvero due piattaforme costruite sopraelevate dal corpo della nave, collocate rispettivamente a prua e a poppa; questi ultimi servivano ad ospitare i miliziani pronti al combattimento dopo l’affiancamento delle navi ed era un espediente tecnico che mirava a ricreare le condizioni della terraferma sulla quale i soldati erano abili guerrieri. La silenziosa evoluzione delle forme di questi strumenti di guerra portò alla chiusura laterale dei castelli con la conseguente elevazione in verticale e alla creazione di spazi coperti sopra il ponte per ospitare la crescente complessità che andava assumendo la vita di bordo. I Greci ed i Romani avevano sulle loro navi commerciali una cabina per il comandante ed i servizi economici, mentre gli altri marinai dormivano sul ponte della nave o a terra all’attracco.
Fu proprio il Mediterraneo che vide l’affermazione della migliore espressione tecnica navale dell’antichità con le navi onerarie della Roma imperiale. I remi, come primo mezzo di propulsione, rimasero in uso nelle applicazioni militari fino al quindicesimo secolo e poi vennero gradualmente eliminati: la presenza di rematori occupava spazio prezioso per gli oggetti dei traffici commerciali e spinse all’applicazione intensiva della propulsione a vela. Fu questa necessità ad affinare lo studio dei venti e delle maree per la navigazione. L’apparente stallo del periodo medioevale vide la contaminazione dell’arte costruttiva dei popoli mediterranei con quella delle popolazioni dell’Europa Settentrionale. Le Colonne d’Ercole, poste a segnare il confine del mondo conosciuto, rimanevano in attesa di quei temerari navigatori che sentivano la spinta a passare oltre, verso l’ignoto, come un bambino che si sente spingere fuori dal grembo materno al momento del parto, per quella nascita che lo proietta nel nuovo mondo.
A differenza della mitologia, la storia umana si arricchiva di una quotidianità che viveva di commerci e delle guerre scatenate per il controllo del Mediterraneo. L’occupazione turca delle vie balcaniche per l’Oriente creò le condizioni per spingere gli intraprendenti mercanti europei a finanziare i viaggi che dovevano condurre alla scoperta di nuove vie di comunicazione. La nave oneraria romana, che nelle acque del Mare Nostrum aveva trovato il suo ambiente ideale di impiego, risultava strutturalmente inadeguata per affrontare i mari atlantici, perché i forti venti che soffiavano sulle vele dell’unico albero tendevano ad aprirne la struttura: il guscio portante, sebbene rinforzato internamente, rimaneva troppo debole. Era ormai pronta a nascere quella che nel Mediterraneo assunse il nome di galea. Era una nascita che imponeva di cambiare l’ossatura stessa delle navi. I costruttori navali impararono a formare una struttura portante interna con una chiglia longitudinale e delle coste trasversali che si innalzavano secondo un movimento che ricorda quello del corpo umano, con la colonna vertebrale che poggia sull’acqua mentre per mezzo del torace il corpo si eleva in galleggiamento fuori dal pelo dell’acqua. La costruzione della chiglia ora preludeva alla chiusura esterna con il fasciame di copertura, calafatato e ricoperto talvolta di lamine metalliche, per prevenire la corrosione da parte degli organismi marini. E così, la necessità dei molti di mantenere viva la propria comunità incontrava il desiderio di alcuni di spingersi ancora una volta oltre la linea dell’orizzonte che inesorabile nel suo progredire imponeva la graduale e necessaria separazione da quel remo diventato col tempo prolungamento del braccio. Cresciuta la sapienza di potere navigare un mare interno, si poteva ora affrontare la sfida dell’oceano un’onda in avanti prima del grande viaggio.
Le coste dell’Africa Occidentale erano diventate un appetibile spazio di conquista: tra il 1434 e il 1488 rappresentavano un passaggio obbligato per raggiungere l’India, anche se si narra che già nel 500 a.C. fosse stato compiuto il periplo dell’Africa. Agli inizi del quindicesimo secolo la navigazione era solo costiera perché non vi erano strumenti efficaci per condurre la nave in alto mare e seguire con precisione una rotta. I Portoghesi per primi si impegnarono a costruire lungo le coste africane dei semplici scali costieri per sostare con le loro nao durante i lunghi viaggi. La nao era la caratterizzazione portoghese della galea mediterranea: faceva ancora uso di vogatori, anche se prevedeva il timone che era stato introdotto nel XII secolo, e due o tre alberi con una velatura orientabile per consentire di stringere i venti ed avanzare su traiettorie più prossime a quella desiderata. La suddivisione della velatura permetteva di adeguare il numero di vele alle condizioni meteorologiche senza sovraccaricare un solo albero, come avveniva nel passato. Il cambiamento strutturale delle imbarcazioni apriva così le nuove traiettorie ai viaggi oceanici; esso giungeva dopo un lungo periodo di apparente staticità giacché lo scontro religioso tra cattolici e musulmani aveva assorbito le energie degli uomini per tutto quel tempo. Fu difficile svegliarsi da questo torpore e intraprendere la via del riscatto dai secoli bui e pestilenti attribuiti al Medioevo. I regni di Portogallo e Spagna conducevano una politica di espansione commerciale e coloniale, che risuona ancora oggi in un passo delle memorie di un giovane veneziano, Alvise da Cà da Mosto, al servizio dell’Infante di Portogallo: “...Immodoché ogni anno si tragge d’Argin per Portogallo da settecento a ottocento teste...; solevano le caravelle di Portogallo venire a questo golfo d’Argin armate, quando quattro, e quando più, e saltavano in terra di notte, e assalivano alcuni villaggi di pescatori, ...in modo che prendevano di questi arabi, sì maschi, come femmine, e conducevano in Portogallo a vendere... ”.
Verso la fine del quindicesimo secolo il nostro Cristoforo Colombo fu il primo ad effettuare una navigazione scientifica in alto mare. Nel corso dei secoli la trasformazione della zattera di pelle e legno aveva permesso la nascita della caravella, una imbarcazione tondeggiante, dotata di tre alberi che sottendevano quattro vele quadre ed una vela latina al terzo, che era strutturalmente idonea a navigare negli oceani. Audace nel seguire la sua intuizione, Colombo ed il suo equipaggio partirono dalle Canarie alla volta delle Indie dando l’avvio ad un viaggio di scoperta che poco aveva a che fare, se non nell’idea del geniale navigatore, col desiderio di fecondare nuove terre: oro, argento e spezie rappresentavano la méta che aveva spinto i più ad imbarcarsi. Dopo un mese di navigazione oceanica durante il quale Colombo calcolava quotidianamente la posizione della propria nave, mentendo ai suoi uomini esausti e disperati sull’effettiva distanza percorsa, egli poté scoprire l’errore di declinazione della bussola e porre poi le basi per quello che sarebbe diventata la determinazione della longitudine, senza la quale non sarebbe possibile calcolare la posizione geografica delle navi. Quei marinai passarono più di due mesi sugli oceani senza l’ombra di una terra in vista, fino a quando l’esploratore dei mari trovò la sua Terra, il nuovo continente, la mattina del 12 Ottobre 1492.
Con questa data la scoperta sanciva la nascita dell’Era Moderna. L’attraversamento e il superamento dei mari interiori avevano permesso il ricongiungersi con l’immagine primordiale dell’oceano regalando una nuova realtà interna all’umano progredire. Quel momento era solo l’inizio di un percorso che dal 1569 in poi divenne più facile grazie a Gerhard Kremer il quale realizzò l’attuale carta geografica in proiezione di Mercatore. Comparivano così le vie invisibili del mare tracciate idealmente su quelle onde che non confondevano più con la loro possente fluidità. La navigazione oceanica ebbe un ulteriore impulso con l’introduzione del sestante e del cronometro, due nuovi strumenti di misura. Il tempo era ormai maturo per passare dalla galea al vascello. Con questi mezzi le prestigiose e potenti Società Geografiche allestirono temerarie spedizioni protese ad acquisire le sole conoscenze volte ad aprire la strada agli scambi commerciali che divennero col tempo veri e propri “impegni” coloniali. A partire dal XVIII secolo gli insediamenti nel mondo si svilupparono. Nel 1884 il Congresso di Berlino decise la spartizione dei territori africani: uomini come Stanley Livingstone, insigne esploratore, permisero di tracciare le mappe africane.
Basta ascoltare il suono dei nomi delle zone dell’Africa Occidentale - Costa d’Avorio, Costa d’oro, Costa degli Schiavi - per riconoscere che l’Uomo nella sua storia ha intrapreso direzioni diverse da quelle che avrebbe potuto tracciare verso la piena realizzazione delle idee di uguaglianza, fratellanza e legalità che avevano infiammato il cuore dell’Europa negli anni della Rivoluzione Francese. Accadeva così che molte scoperte diventassero l’occasione per colonizzare e convertire genti e paesi in nome di un dio antico o moderno, ideologia dietro cui si nasconde sempre la violenta reificazione di ciò che ci rende umani, per immolarlo in nome di un pensiero che produce uomini-oggetto da utilizzare per un fruttuoso commercio fra i popoli. Dove è andata a finire quella spinta evolutiva naturale che abbatte le frontiere e apre alle comunicazioni? L’allargamento dei mercati e la loro successiva omogeneizzazione non ha unito più i popoli, ma li ha inglobati. Su questa globalizzazione, segnale che necrotizza ogni differenza, punta la pseudo-civiltà dei nostri tempi mancando al suo impegno di civilizzazione. Ne sono espressione le navi da crociera nei mari di tutto il mondo che accolgono persone di tutte le nazionalità per “consumare” una conoscenza che niente ha più a che vedere con il viaggiare ed il sapere.
Noi siamo dalla parte degli esploratori che, al contrario dei conquistatori, si lasciano accarezzare dalla meraviglia di una notte stellata e si fanno trasportare dal suono dei venti fra le onde blu del mare, su di un tronco scavato pronto a diventare sempre un altro strumento quando il mondo fa una nuova richiesta. Nel silenzio possiamo ascoltare il suono del mare e compararlo all’infinito romorìo che vive dentro di noi; esso ci rimembra ancor di un viaggio remoto e sempre attuale che rende costantemente pronti a varcare le Colonne d’Ercole, stargate dell’orizzonte oltre il quale si spinge il nostro desiderio di conoscenza.
Notturno di Concetta Turchi
Questo scritto è una rielaborazione del precedente scritto “Le costruzioni in movimento col mare” in L’ArcoAcrobata, Rivista di Scienze Umane ed Arte, Anno I, n.1, Musicalificio Grande Blu Ed., Roma 2002. Consultabile nella sezione Archivio della Homepage.
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Gli Etruschi. IL CANTO DELLA CITTÀ DEI MORTI video di Concetta Turchi. Anno 2014
Archeologia. LA SCRITTURA SULLE VIE DEL MARE di Patrizia Fortini. Anno 2002
Il simposio. IL TEMPO DELLE RELAZIONI TESSUTE di Patrizia Fortini. Anno 2003
LA SCRITTURA SULLE VIE DEL MARE
Patrizia Fortini
Vaso d'impasto a forma di galletto con alfabetario etrusco, da Viterbo, metà VII sec. a.C.
(da Gli Etruschi, Catalogo del/a Mostra, Venezia' Palazzo Grassi, 2000, a cura di M. Torelli, Milano 2000, p. 476).
(da Gli Etruschi, Catalogo del/a Mostra, Venezia' Palazzo Grassi, 2000, a cura di M. Torelli, Milano 2000, p. 476).
La grande distesa del mare si insinua tra le terre emerse. Dalla riva lo sguardo estasiato di un Uomo che si domanda cosa ci sia al di là di quel piano azzurro. Forse il tutto, di sicuro il nuovo. Nuovi spazi per nuovi ascolti, nuove visioni, nuovi incontri, la libertà di essere nuovo. Abbandonato ogni indugio l’Uomo costruisce un mezzo che gli consente di addentrarsi nel mare superando i limiti della sua stessa fisicità. Dapprima crea zattere di semplici pali lignei legati; poi piroghe scavate in grandi tronchi d’albero; quindi navi spinte dalla forza del vento imbrigliato da vele tessute. Si stacca dalla terra ferma assaporando l’ebbrezza del movimento, come un bambino nel momento in cui, non più carponi, si solleva in piedi e corre incontro all’infinito possibile. Lo accompagnano i beni più cari: i prodotti della terra e del proprio ingegno. Li offrirà all’altro ricercando un rapporto di scambio, materiale e affettivo, foriero di un reciproco accrescimento. I fermenti originati da questo incontro, trasfondendosi in ogni contesto, alimentano nuovi modi di essere. Ed il rapporto diviene più intenso e innovatore quando l’Uomo riesce a trasformare il suono delle parole pronunciate nel momento dell’incontro in una sequenza di simboli capaci di evocare, in ogni momento e per un sempre maggior numero di persone, il significato delle stesse espressioni sonore. Agli albori della nostra civiltà popolazioni dell’area egea e medio orientale, insofferenti alla limitatezza delle risorse spazio-ambientali disponibili, avviano la sistematica esplorazione del Mare Mediterraneo, alla ricerca di territori dove rinascere.
A partire dal XIV-XIII sec. a.C. i Micenei lasciano il Peloponneso e Creta e si dirigono a Cipro, sulla costa siro-palestinese e nelle regioni dell’Anatolia che si affacciano sul Mare Egeo. Muovono poi verso gli arcipelaghi del basso Tirreno, fermandosi in particolare nelle Isole Eolie, a Vivara e nel Golfo di Napoli. Raggiungono le coste centro meridionali della penisola italiana (Puglia, Lucania e Calabria settentrionale ionica), nonché la Sicilia (territori di Siracusa ed Agrigento) e la Sardegna (Cagliari). Gli approdi nelle Eolie consentono di stabilire i contatti necessari all’importazione dello stagno proveniente dall’Inghilterra sud occidentale e dell’ambra baltica; quelli nell’area flegrea favoriscono l’acquisto del ferro e rame estratto dall’Isola d’Elba, dalle Colline Metallifere toscane e dall’Alto Lazio.
A partire dal XIV-XIII sec. a.C. i Micenei lasciano il Peloponneso e Creta e si dirigono a Cipro, sulla costa siro-palestinese e nelle regioni dell’Anatolia che si affacciano sul Mare Egeo. Muovono poi verso gli arcipelaghi del basso Tirreno, fermandosi in particolare nelle Isole Eolie, a Vivara e nel Golfo di Napoli. Raggiungono le coste centro meridionali della penisola italiana (Puglia, Lucania e Calabria settentrionale ionica), nonché la Sicilia (territori di Siracusa ed Agrigento) e la Sardegna (Cagliari). Gli approdi nelle Eolie consentono di stabilire i contatti necessari all’importazione dello stagno proveniente dall’Inghilterra sud occidentale e dell’ambra baltica; quelli nell’area flegrea favoriscono l’acquisto del ferro e rame estratto dall’Isola d’Elba, dalle Colline Metallifere toscane e dall’Alto Lazio.
Agli inizi del I millennio i Fenici, popolo di intrepidi naviganti ed esperti mercanti, partono dall’area costiera libanese e si dirigono a Cipro dove fondano l’importante centro di Kition, quindi a Rodi (Camiros, Ialisos), Creta (Itanos) e nelle isole egee a Thasos, Kythera, Melos e Thera. Si spostano sulle coste dell’Africa settentrionale, dove nell’odierna Tunisia danno tra l’altro vita alle colonie di Utica (1101 a.C.) e di Cartagine (814-813 a.C.), ed arrivano fin sulla costa atlantica del Marocco (Tangeri, Lixus, Mogador). Raggiungono le coste iberiche dove fondano nel 1110 a.C. Cadice, con il preciso scopo di controllare lo sfruttamento delle miniere d’argento presenti nelle zone interne del Guadalquivir; quindi occupano la Costa del Sol (Andalusia orientale) con una serie di piccole città portuali. Sono presenti dal IX sec. a.C. in Sardegna nei centri di Cagliari, Nora, Bitia (attuale Chia), Sulcis, Carloforte e Tharros non lontano da Oristano. Intorno all’VIII sec. a.C. creano insediamenti nell’isola di Malta, in Sicilia (Lillibeo, Mozia, Palermo, Solunto) e a Pantelleria; poco più tardi creano basi nelle Baleari.
Quale fosse il grado di padronanza delle tecniche nautiche raggiunte dai Fenici traspare dalla notizia che questi abili marinai abbiano circumnavigato l’Africa una prima volta raggiungendo lo Yemen (se non la Somalia) sulle navi armate dal re Salomone (961 a.C. - 922 a.C.) ed una seconda muovendo dal Mar Rosso in direzione dell’Occidente. Quest’ultima impresa è compiuta per volere del faraone Necao che tra il 609 a.C. ed il 605 a.C. esercitò il predominio sull’intera regione siro-palestinese.
Nel V sec. a.C. gli abitanti di Cartagine (detti anche Punici), proseguendo nell’arte della navigazione della madrepatria, osano oltrepassare le Colonne d’Ercole (Stretto di Gibilterra), che l’immaginario collettivo del tempo riteneva dovessero segnare il limite del mondo. Nel 450 a.C. il condottiero Imilcone, seguendo la via dello stagno, raggiunge le isole britanniche; venticinque anni dopo il cartaginese Annone arriva in Guinea dove si approvvigiona d’oro. Nelle nuove terre questi popoli si rapportano con i nativi, diversi per lingua e cultura, attraverso insediamenti destinati ad essere luoghi di mercato (emporia) dove scambiare beni di lusso prodotti dalla madre patria oppure acquistati negli scali portuali toccati durante la navigazione, scambiati con minerali - oro, argento nonché stagno, rame, ferro - questi ultimi indispensabili per la produzione di strumenti in metallo quali in primis le armi. E con i beni materiali circolano in tutto il bacino del Mediterraneo anche le espressioni culturali proprie delle genti che hanno prodotto quel determinato bene; fra queste l’uso della scrittura.
Quale fosse il grado di padronanza delle tecniche nautiche raggiunte dai Fenici traspare dalla notizia che questi abili marinai abbiano circumnavigato l’Africa una prima volta raggiungendo lo Yemen (se non la Somalia) sulle navi armate dal re Salomone (961 a.C. - 922 a.C.) ed una seconda muovendo dal Mar Rosso in direzione dell’Occidente. Quest’ultima impresa è compiuta per volere del faraone Necao che tra il 609 a.C. ed il 605 a.C. esercitò il predominio sull’intera regione siro-palestinese.
Nel V sec. a.C. gli abitanti di Cartagine (detti anche Punici), proseguendo nell’arte della navigazione della madrepatria, osano oltrepassare le Colonne d’Ercole (Stretto di Gibilterra), che l’immaginario collettivo del tempo riteneva dovessero segnare il limite del mondo. Nel 450 a.C. il condottiero Imilcone, seguendo la via dello stagno, raggiunge le isole britanniche; venticinque anni dopo il cartaginese Annone arriva in Guinea dove si approvvigiona d’oro. Nelle nuove terre questi popoli si rapportano con i nativi, diversi per lingua e cultura, attraverso insediamenti destinati ad essere luoghi di mercato (emporia) dove scambiare beni di lusso prodotti dalla madre patria oppure acquistati negli scali portuali toccati durante la navigazione, scambiati con minerali - oro, argento nonché stagno, rame, ferro - questi ultimi indispensabili per la produzione di strumenti in metallo quali in primis le armi. E con i beni materiali circolano in tutto il bacino del Mediterraneo anche le espressioni culturali proprie delle genti che hanno prodotto quel determinato bene; fra queste l’uso della scrittura.
Il popolo che ha inventato un modo di scrivere vicino al nostro (o meglio, il nostro stesso tipo di scrittura) è quello fenicio. Tra il XII e XI sec. a.C. i Fenici elaborano un sistema di scrittura costituito da segni inventati, di forma semplice ed agevole, in cui ogni grafema corrisponde ad un determinato suono pronunciato: la scrittura alfabetica. Ventidue sono i segni impiegati per indicare la sequenza delle consonanti. Il suono delle vocali non è espresso graficamente ma viene aggiunto al momento della lettura dei testi, composti tracciando le lettere da destra verso sinistra (scrittura sinistrorsa o retrograda). Per facilitare la memorizzazione della sequenza alfabetica, ogni grafema assume una specifica denominazione.
Dai Fenici apprendono l’uso della scrittura alfabetica i Greci. La stessa tradizione antica ne era cosciente. Racconta infatti lo storico Erodoto che la scrittura venne introdotta in Beozia dal re fenicio Cadmo. Le denominazioni dei grafemi derivate dalla lingua semitica e la corrispondenza tra sequenza alfabetica fenicia e sequenza alfabetica greca sono una prova della memoria classica. Per rendere maggiormente rispondente l’alfabeto alle necessità del loro linguaggio, i Greci intervengono creando nuovi segni (collocati significativamente all’ultimo posto della serie alfabetica) o attribuendo ad alcune lettere dell'alfabeto fenicio un diverso valore fonetico. È quest’ultimo il caso dei grafemi designanti le vocali a e i o u, sia brevi che lunghe, non considerate dall’alfabeto consonantico fenicio. Tra quelli di nuova invenzione vi sono i cosiddetti “segni complementari”, relativi a fonemi ph, ch e ps, la cui forma non è costante ma varia a seconda della località in cui l’alfabeto greco è utilizzato.
Dai Fenici apprendono l’uso della scrittura alfabetica i Greci. La stessa tradizione antica ne era cosciente. Racconta infatti lo storico Erodoto che la scrittura venne introdotta in Beozia dal re fenicio Cadmo. Le denominazioni dei grafemi derivate dalla lingua semitica e la corrispondenza tra sequenza alfabetica fenicia e sequenza alfabetica greca sono una prova della memoria classica. Per rendere maggiormente rispondente l’alfabeto alle necessità del loro linguaggio, i Greci intervengono creando nuovi segni (collocati significativamente all’ultimo posto della serie alfabetica) o attribuendo ad alcune lettere dell'alfabeto fenicio un diverso valore fonetico. È quest’ultimo il caso dei grafemi designanti le vocali a e i o u, sia brevi che lunghe, non considerate dall’alfabeto consonantico fenicio. Tra quelli di nuova invenzione vi sono i cosiddetti “segni complementari”, relativi a fonemi ph, ch e ps, la cui forma non è costante ma varia a seconda della località in cui l’alfabeto greco è utilizzato.
È stato così possibile riunire le serie alfabetiche greche in due grandi gruppi: “alfabeto occidentale” o “alfabeto rosso” diffuso nella Grecia continentale; “alfabeto orientale” o “alfabeto azzurro” presente nella Grecia orientale e nell’Istmo di Corinto. Nel primo il suono della velare occlusiva aspirata kh è reso con il grafema a freccia, mentre il nesso consonantico ks dal segno a croce. Contrariamente nel secondo gruppo il segno a freccia indica il suono ps e quello a croce la velare occlusiva aspirata kh.
Le prime iscrizioni greche risalgono alla metà dell’VIII sec. a.C. ed hanno un carattere metrico. Per questo si ritiene probabile legare l’adozione dell’alfabeto al desiderio dei Greci di riprodurre graficamente il verso ritmico della poesia epica. Precedentemente in Grecia i Micenei avevano utilizzato un tipo di scrittura definita convenzionalmente “Lineare B” che scompare col tramontare della stessa civiltà micenea alla fine dell’XI sec. a.C. Questa scrittura è composta da ideogrammi espressi in forma pittorica e da segni fonetici che rappresentano una sequenza sillabica (vocale pura, consonante e vocale, doppia consonante e vocale). Sino ad oggi gli unici documenti epigrafici ritrovati sono costituiti da tavolette d’argilla cruda con iscrizione incisa utilizzando uno stilo, e risultano classificabili come atti amministrativi legati alla gestione dei magazzini pubblici.
Le prime iscrizioni greche risalgono alla metà dell’VIII sec. a.C. ed hanno un carattere metrico. Per questo si ritiene probabile legare l’adozione dell’alfabeto al desiderio dei Greci di riprodurre graficamente il verso ritmico della poesia epica. Precedentemente in Grecia i Micenei avevano utilizzato un tipo di scrittura definita convenzionalmente “Lineare B” che scompare col tramontare della stessa civiltà micenea alla fine dell’XI sec. a.C. Questa scrittura è composta da ideogrammi espressi in forma pittorica e da segni fonetici che rappresentano una sequenza sillabica (vocale pura, consonante e vocale, doppia consonante e vocale). Sino ad oggi gli unici documenti epigrafici ritrovati sono costituiti da tavolette d’argilla cruda con iscrizione incisa utilizzando uno stilo, e risultano classificabili come atti amministrativi legati alla gestione dei magazzini pubblici.
La “Lineare B” non è una invenzione dei Micenei ma deriva dalla scrittura sillabica detta “Lineare A” elaborata a Creta dal popolo minoico per dare voce ad una lingua, la propria, estranea al gruppo greco cui apparteneva invece quella parlata dai Micenei. L’impiego in entrambi i tipi di scrittura di un unico repertorio di segni ha consentito di utilizzare la “Lineare B” per leggere i documenti d’archivio legati all’amministrazione dei palazzi e le iscrizioni votive lasciate dai Minoici. Leggere, ma non comprendere, perché la scrittura “Lineare A” non è a tutt’oggi decifrata. Ancora una volta si assiste ad un fecondo incontro tra due culture rese antagoniste dalla storia: nel XII sec. a.C. i Micenei occupano definitivamente Creta causando la fine della civiltà minoica.
Quando i Greci decidono di lasciare le proprie città, perché il territorio delle stesse non offre le risorse necessarie a garantire la vita a tutti i suoi figli, e di fondare nuovi centri nelle terre lontane incontrate durante i viaggi per mare, portano con sé anche l’uso della scrittura. Tra la fine del IX sec. a.C. e gli inizi dell’VIII sec. a.C. un gruppo di cittadini provenienti dall’isola di Eubea si stabilisce a Cuma e sull’Isola d’Ischia dove fonda il centro di Pythecoussai. Altri nuclei di coloni provenienti da vari centri insulari o costieri raggiungono subito dopo la Sicilia orientale e l’Italia meridionale (Campania, Lucania, Puglia e Calabria) dove danno vita a centri urbani profondamente legati alla madrepatria. Presto i coloni greci entrano in contatto con le genti italiche insediate in zona. In primo luogo con il popolo degli Etruschi presente, oltre che in Etruria (Toscana e Alto Lazio), in Emilia Romagna (Bologna), nelle Marche (Fermo) e in Campania (Capua).
Le fonti letterarie greche definiscono gli Etruschi quali dominatori dei mari d’Occidente. Da ricordare al riguardo che il Mar Tirreno ha assunto la propria denominazione da quella degli Etruschi: Thyrrenoi, “Tirreni”, questo il nome attribuito loro dai Greci. Instaurando un vero controllo del Tirreno gli Etruschi raggiungono con la propria flotta la Sardegna (costa orientale), la Corsica, le Isole Baleari e la Spagna, impiantando sulle coste insediamenti in grado di gestire i commerci con le popolazioni locali dell’interno. Anche se il dominio del mare determina ben presto momenti di scontro tra le popolazioni Etrusche, Fenico-Puniche e Greche, il contatto ne vivifica le culture.
Gli Etruschi comprendono immediatamente l’importanza della scrittura impiegata dai Greci ed adottano alla fine dell’VIII sec. a.C. il loro alfabeto. Stessi segni per dare corpo ad una voce, la propria, formata da suoni che seppure simili racchiudono significati nuovi, essendo espressione di una lingua completamente differente: indoeuropea la lingua greca, preindoeuropea quella etrusca. L’alfabeto si diffonde attraverso modelli didattici, ritrovati per lo più negli archivi dei templi od offerti come ex voto alla divinità, dove sono riportati, per servire da esempio, i ventisei segni dell’alfabeto greco. Gli Etruschi adattano la sequenza alfabetica greca alle sonorità specifiche del proprio linguaggio. È probabile che siano stati gli ambienti sacerdotali delle città di Tarquinia e Caere (Cerveteri) ad elaborare il primo alfabeto etrusco.
In origine la sequenza alfabetica è composta da ventidue lettere che si riducono a venti in età arcaica. Oggi è possibile leggere ed in gran parte comprendere i testi etruschi scritti con segni tracciati da destra verso sinistra. Dall’alfabeto greco la scrittura etrusca prende le consonanti occlusive sorde k, t e p, le occlusive aspirate ch, th e ph, le consonanti liquide l e r, le consonanti nasali m e n, l’aspirazione h, l’affricata dentale z. Impiega il segno F del digamma u semivocalica per esprimere il suono della spirante labiodentale sonora v.
Quando i Greci decidono di lasciare le proprie città, perché il territorio delle stesse non offre le risorse necessarie a garantire la vita a tutti i suoi figli, e di fondare nuovi centri nelle terre lontane incontrate durante i viaggi per mare, portano con sé anche l’uso della scrittura. Tra la fine del IX sec. a.C. e gli inizi dell’VIII sec. a.C. un gruppo di cittadini provenienti dall’isola di Eubea si stabilisce a Cuma e sull’Isola d’Ischia dove fonda il centro di Pythecoussai. Altri nuclei di coloni provenienti da vari centri insulari o costieri raggiungono subito dopo la Sicilia orientale e l’Italia meridionale (Campania, Lucania, Puglia e Calabria) dove danno vita a centri urbani profondamente legati alla madrepatria. Presto i coloni greci entrano in contatto con le genti italiche insediate in zona. In primo luogo con il popolo degli Etruschi presente, oltre che in Etruria (Toscana e Alto Lazio), in Emilia Romagna (Bologna), nelle Marche (Fermo) e in Campania (Capua).
Le fonti letterarie greche definiscono gli Etruschi quali dominatori dei mari d’Occidente. Da ricordare al riguardo che il Mar Tirreno ha assunto la propria denominazione da quella degli Etruschi: Thyrrenoi, “Tirreni”, questo il nome attribuito loro dai Greci. Instaurando un vero controllo del Tirreno gli Etruschi raggiungono con la propria flotta la Sardegna (costa orientale), la Corsica, le Isole Baleari e la Spagna, impiantando sulle coste insediamenti in grado di gestire i commerci con le popolazioni locali dell’interno. Anche se il dominio del mare determina ben presto momenti di scontro tra le popolazioni Etrusche, Fenico-Puniche e Greche, il contatto ne vivifica le culture.
Gli Etruschi comprendono immediatamente l’importanza della scrittura impiegata dai Greci ed adottano alla fine dell’VIII sec. a.C. il loro alfabeto. Stessi segni per dare corpo ad una voce, la propria, formata da suoni che seppure simili racchiudono significati nuovi, essendo espressione di una lingua completamente differente: indoeuropea la lingua greca, preindoeuropea quella etrusca. L’alfabeto si diffonde attraverso modelli didattici, ritrovati per lo più negli archivi dei templi od offerti come ex voto alla divinità, dove sono riportati, per servire da esempio, i ventisei segni dell’alfabeto greco. Gli Etruschi adattano la sequenza alfabetica greca alle sonorità specifiche del proprio linguaggio. È probabile che siano stati gli ambienti sacerdotali delle città di Tarquinia e Caere (Cerveteri) ad elaborare il primo alfabeto etrusco.
In origine la sequenza alfabetica è composta da ventidue lettere che si riducono a venti in età arcaica. Oggi è possibile leggere ed in gran parte comprendere i testi etruschi scritti con segni tracciati da destra verso sinistra. Dall’alfabeto greco la scrittura etrusca prende le consonanti occlusive sorde k, t e p, le occlusive aspirate ch, th e ph, le consonanti liquide l e r, le consonanti nasali m e n, l’aspirazione h, l’affricata dentale z. Impiega il segno F del digamma u semivocalica per esprimere il suono della spirante labiodentale sonora v.
Assegna alla lettera C (gamma greco) il compito di evocare la velare sorda k. Per rendere il suono della sibilante S (sigma greco) utilizza due grafemi derivati direttamente dall’alfabeto fenicio. Mentre in Grecia questi segni sono varianti grafiche locali di uno stesso suono, per gli Etruschi esprimono valori fonetici differenti: il segno tsade M (sigma a 4 tratti coricati e rovesciati) per tradurre il suono ś; il grafema šin (sigma a tre tratti) per indicare s. La scrittura etrusca non utilizza i grafemi greci corrispondenti alle consonanti sonore b, d, g ed alla vocale o, che pure ricorrono negli abbecedari evidentemente perché non aveva bisogno di esprimere quelle sonorità. Per dare corpo al suono della spirante labiodentale sorda f, ignoto alla lingua greca, gli Etruschi in un primo momento utilizzano il digramma FH vh, poi a partire dal VI sec. a.C. lo sostituiscono con un segno creato ex novo a forma di otto: 8. Le lettere dell’alfabeto sono utilizzate anche per esprimere i numerali.
Attraverso i grafemi ascoltiamo il suono delle loro espressioni affettive che si spandono come onde ricorrenti oltre i limiti temporali sino al momento. Affascinati dal melodico svolgersi di quella voce ne ricerchiamo il contatto per un rapporto vitale.
La penetrazione etrusca nel territorio italiano diffonde l’uso dell’alfabeto presso altre popolazioni dell’area centrale e settentrionale con le quali gli Etruschi entrano in contatto (Falisci e Latini nel Lazio, Umbri e Osci in Italia centro-meridionale, Veneti, Reti, Lepontii in Italia settentrionale), così come le popolazioni indigene dell’Italia meridionale (Osci del Sud e Messapici) e della Sicilia (Siculi, Sicani ed Elimi) acquisiscono l’uso della scrittura direttamente dai coloni greci. E la catena continua. Il seme lanciato lungo il bacino del Mediterraneo dal popolo fenicio continua a dare i suoi frutti. I Latini apprendono l’uso dell’alfabeto etrusco e lo impiegano per dar corpo alla loro cultura: con Roma tutto il bacino del Mediterraneo si esprime all’unisono, pur restando viva la lingua greca nell’area orientale.
Il cerchio si chiude, o meglio il mondo si apre ad una comune partecipazione: l’antico alfabeto fenicio continua ancora oggi a vivere trasportato nel Nuovo e nel Nuovissimo Mondo dalle navi degli esploratori animati, al pari dei naviganti fenici, dal desiderio di fare nuove e stimolanti conoscenze e di tessere ampli rapporti commerciali. Ancora una volta passato e futuro si incontrano veicolati dal ritmico ed infinito ondeggiare del mare.
Il cerchio si chiude, o meglio il mondo si apre ad una comune partecipazione: l’antico alfabeto fenicio continua ancora oggi a vivere trasportato nel Nuovo e nel Nuovissimo Mondo dalle navi degli esploratori animati, al pari dei naviganti fenici, dal desiderio di fare nuove e stimolanti conoscenze e di tessere ampli rapporti commerciali. Ancora una volta passato e futuro si incontrano veicolati dal ritmico ed infinito ondeggiare del mare.
BIBLIOGRAFIA
Antiche genti d’Italia, Catalogo della Mostra, Rimini - Sala dell’Arrengo e Palazzo del Podestà, 20 marzo-28 marzo 1994, Roma 1994.
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M. TORELLI, L’arte degli Etruschi, Bari 1986.
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IL TEMPO DELLE RELAZIONI TESSUTE
Patrizia Fortini
Scena di banchetto. Tomba del Tuffatore, 480 a.C., Paestum (Salerno), Museo Archeologico Nazionale
(da, Necropoli dell'Italia antica, Touring Club Italiano, Milano 1982, p. 157, fig. 201).
(da, Necropoli dell'Italia antica, Touring Club Italiano, Milano 1982, p. 157, fig. 201).
Una lunga tavola ed intorno volti festosi, sguardi intrecciati di relazioni tessute, mani protese verso vassoi ricolmi di cibi gustosi e raffinati, parole rotonde che si incontrano con suoni danzanti.
È in corso il convivio.
Ormai nei piatti di porcellana bianca rimangono labili tracce di succulente pietanze. Ed ecco… gli sguardi complici di due donne amiche s’incrociano. All’unisono, senza parlare, si alzano pervase da uno stesso sentire.
Ogni piatto, posata, bicchiere impiegati, lasciano il tavolo; ogni briciola di pane è spazzata. Un mazzo di rose gialle dai bordi di arancio screziati prende posto sulla tavola, al centro, ed intorno trasparenti calici e verdi bottiglie ricolme di rosso rubino.
Il tempo rallenta il suo andare: la pausa di un attimo per vivere insieme, in crescendo, il piacere. È giunto il momento del brindisi per augurare l’un l’altro il piacere.
Il rito dell’ antico simposio si rinnova.
La pratica del banchetto (synousia, riunione), che rappresenta per tutta la durata del mondo antico - ed anche oltre - la principale forma di socialità, nasce nell’antica Grecia originata dal desiderio insito nell’uomo di soddisfare l’hedoné – il piacere -, di dar corpo a reconditi impulsi vitali che il comune senso della civile convivenza, satura di ananché - necessità doverose quali la politica, il lavoro e la famiglia -, tende ad allontanare. Il cibo ed il vino compenetrati dall’esercizio della conversazione e della mousiké (sc. téchne, l’Arte delle Muse), produzione poetica data dal connubio di suono parola e danza, consentono all’uomo di assurgere all’eros, supremo godimento, che si dispiega nella forma del piacere fisico (sonno ristoratore), del piacere intellettuale (conversazione), del piacere erotico (incontro amoroso). L’uomo discende nel profondo del proprio intimo e, facendosi penetrare dalla passione che le pratiche conviviali alimenta, si lascia da questa trasformare, come l’uva che il ribollente processo di vinificazione trasmuta in vino.
La congerie dei partecipanti costituisce il primo elemento qualificante della pratica conviviale. Nella situazione in cui i presenti appartengono ad un gruppo civico, sia esso il consesso cittadino (polis) o un gruppo ristretto accomunato da un unico intendimento etico (eteria), consumare cibo e vino in comune garantisce ad ognuno l’assunzione di una posizione paritaria all’interno del proprio consesso e procura il rafforzarsi dei legami comunitari. L’espressione palese di siffatti legami si esprime concretamente attraverso i canti corali e le declamazioni poetiche di tipo elegiaco intonati dai partecipanti durante il simposio.
Il convivio riservato ad un gruppo numericamente ristretto di individui ha un carattere spiccatamente privato. Le occasioni del banchetto privato sono varie: una festa famigliare (matrimonio), una ricorrenza religiosa o un avvenimento speciale (vittoria negli agoni). Si svolge generalmente all’interno della casa del privato cittadino in un ambiente di dimensioni ridotte, tali da accogliere i presenti, il numero dei quali varia di norma da tre a nove. Gli inviti sono formulati il giorno prima o il giorno stesso. Interviene solo chi è invitato, anche se il personaggio di riconosciuta fama si può far accompagnare da altri. Il tramonto segna il momento in cui dare inizio all’incontro. In questo caso, diversamente da quanto accade nel simposio pubblico dove gli aventi diritto partecipano indistintamente alla riunione, la presenza è subordinata all’invito formale di colui che indice il convivio. È l’ospite che invita e sceglie i commensali nella misura in cui si riconosce in loro e loro in lui; si ottiene così lo stabilirsi di una sintonia che rende possibile la creazione di rapporti interpersonali dove ognuno è libero di esternare la propria passionalità.
Altra componente base del simposio è il consumo del vino concepito come dono prezioso del divino Dioniso, in grado di alleviare le umane ambasce. L’indovino Tiresia così si esprime rivolgendosi al re di Tebe Penteo:
Sappi, figlio mio, che due princìpi sono per gli uomini fondamentali. Innanzitutto Demetra - o la terra, puoi chiamarla come vuoi - che nutre l’umanità con alimenti solidi. Poi viene il suo emulo. Il figlio di Semele, che scoprì il succo dell’uva e ce ne fece dono per guarire gli affanni dei miserevoli mortali. Quando gli uomini sono pieni del nettare della vigna, questo dà loro l’oblio delle cure quotidiane, attraverso il sonno, solo rimedio del nostro soffrire.
Dioniso, consegnando il vino agli uomini, si premura di insegnarne anche il corretto uso: mescerlo con acqua secondo determinate proporzioni, che variano da tre misure di acqua e una di vino, a cinque misure di acqua e tre di vino, a tre misure di acqua e due di vino. Questa pratica deriva dall’alta gradazione alcolica ottenuta impiegando uva raccolta solo dopo la perdita del fogliame. Una volta avvenuta la mescita il vino era versato entro un apposito recipiente, il cratere, per poi raccoglierlo con brocche (oinochoai) o mestoli; distribuirlo versandolo in kylikes, coppe dalle giuste proporzioni. Molto spesso il vasellame destinato alla mescita ed alla distribuzione del vino era adornato con scene legate allo svolgimento del simposio. Il loro ritrovamento ha consentito di comprendere la concezione ideologica che ha dato vita a questa pratica culturale.
Dioniso, attraverso queste regole, offre all’uomo uno strumento atto a preservare quella integrità corporea e psichica che garantisce l’instaurarsi dei rapporti interpersonali. L’assunzione del vino allungato impedisce al piacere di ripiegarsi su sé stesso e, così facendo, di relegare l’uomo nella terribile prigione della solitudine. L’etica comunitaria ne regola l’uso: il vino deve essere miscelato con acqua rispettando dosi ben precise che consentano di berne una certa quantità senza per questo indurre ebbrezza. Per un greco, il vino puro è àkratos, droga pericolosa; berlo può condurre alla pazzia o alla morte; è phàrmakon, bevanda ambivalente, benefica e dannosa ad un tempo.
Il convivio ha luogo in un ambiente della casa appositamente adibito all’uso. Principia sul far della sera, spesso anche prima, e si svolge fino a notte alta rispettando uno schema sempre costante. Inizia con il consumo del cibo disposto su tavole imbandite (syssítion, pranzo in comune); prosegue quindi con la distribuzione del vino (sympósion, bere insieme); termina con il raggiungimento dell’hedoné, del piacere, motivo ispiratore e fine ultimo a cui l’esistere stesso del simposio sottende.
Nel momento in cui, dopo il pranzo, si dà inizio al simposio vero e proprio, giovani schiavi tolgono le mense e nettano il pavimento dai resti del cibo. Poi passano una coppa con vino puro affinché ciascun commensale ne prenda un sorso mentre rivolge un atto di preghiera ed un’offerta in onore di agathoû daímonos – “del buon demone” -. Quindi recano acqua per detergere le mani ed unguenti per ungere il corpo: attraverso la pratica dell’abluzione, l’uomo assicura purezza al rituale e consente a sé stesso di entrare in contatto con il sacro. I preparativi continuano con la consegna a ciascun simpota di corone di mirto od edera, le piante sacre al dio Dioniso, oppure con l’offerta di bende di lana rossa, con le quali adornare il capo, segno di ammissione iniziatica nella nuova comunità. Quindi i giovanetti provvedono a mescere vino ed acqua nei crateri ed a reintrodurre le mense ricolme di deúterai trápezai, di dolciumi e leccornie, da accompagnare alla bevanda. Dopo la distribuzione del vino hanno luogo nuove libagioni in onore degli dei e degli eroi. I commensali, mentre versano fuori dalla coppa sorsi di vino miscelato prelevato da tre diversi crateri, intonano in coro una preghiera solenne accompagnati dal suono dell’aulós, strumento a fiato simile all’oboe.
Immediatamente dopo, il simposiarca, colui al quale è demandato il compito di stabilire le regole dell’incontro alle quali tutti debbono uniformarsi, invita i presenti al brindisi: ognuno beve e girando la coppa verso destra, là dove risiede la fortuna, la passa all’altro con un incitamento a bere alla salute di tutti, o di colui del quale cerca l’attenzione. La conversazione che si accompagna al vino, le declamazioni poetiche congiunte alla musica ed alla danza, i giochi di abilità, contribuiscono insieme a far lievitare il piacere che al fine si espande nell’eros.
Al termine del simposio i partecipanti escono insieme ai suonatori ed ai danzatori dando vita ad un kòmos, chiassoso ed allegro. Si cerca di prolungare gli effetti della festa, recandosi in un altro simposio o presso le abitazioni delle eteree per una serenata che si spera apra le porte all’amore.
Nella forma più antica di banchetto, quello riferibile alla Civiltà Micenea (XVI – XI secolo a.C.) di cui rimane testimonianza nella poesia omerica, il vino accompagna costantemente il consumo del cibo. Il benessere prodotto dalla loro assunzione si integra pienamente con quello suscitato dai canti dei rapsodi chiamati appositamente per accompagnare l’incontro. Lo stato di godimento che ne consegue è vissuto dai commensali, uomini e donne, non come una contrapposizione alle necessità della vita, ma come giusto complemento dell’esistenza stessa. Questo sentimento anima le parole di Ulisse chiamato a partecipare al banchetto offerto da Alcinoo, re dei Feaci:
È in corso il convivio.
Ormai nei piatti di porcellana bianca rimangono labili tracce di succulente pietanze. Ed ecco… gli sguardi complici di due donne amiche s’incrociano. All’unisono, senza parlare, si alzano pervase da uno stesso sentire.
Ogni piatto, posata, bicchiere impiegati, lasciano il tavolo; ogni briciola di pane è spazzata. Un mazzo di rose gialle dai bordi di arancio screziati prende posto sulla tavola, al centro, ed intorno trasparenti calici e verdi bottiglie ricolme di rosso rubino.
Il tempo rallenta il suo andare: la pausa di un attimo per vivere insieme, in crescendo, il piacere. È giunto il momento del brindisi per augurare l’un l’altro il piacere.
Il rito dell’ antico simposio si rinnova.
La pratica del banchetto (synousia, riunione), che rappresenta per tutta la durata del mondo antico - ed anche oltre - la principale forma di socialità, nasce nell’antica Grecia originata dal desiderio insito nell’uomo di soddisfare l’hedoné – il piacere -, di dar corpo a reconditi impulsi vitali che il comune senso della civile convivenza, satura di ananché - necessità doverose quali la politica, il lavoro e la famiglia -, tende ad allontanare. Il cibo ed il vino compenetrati dall’esercizio della conversazione e della mousiké (sc. téchne, l’Arte delle Muse), produzione poetica data dal connubio di suono parola e danza, consentono all’uomo di assurgere all’eros, supremo godimento, che si dispiega nella forma del piacere fisico (sonno ristoratore), del piacere intellettuale (conversazione), del piacere erotico (incontro amoroso). L’uomo discende nel profondo del proprio intimo e, facendosi penetrare dalla passione che le pratiche conviviali alimenta, si lascia da questa trasformare, come l’uva che il ribollente processo di vinificazione trasmuta in vino.
La congerie dei partecipanti costituisce il primo elemento qualificante della pratica conviviale. Nella situazione in cui i presenti appartengono ad un gruppo civico, sia esso il consesso cittadino (polis) o un gruppo ristretto accomunato da un unico intendimento etico (eteria), consumare cibo e vino in comune garantisce ad ognuno l’assunzione di una posizione paritaria all’interno del proprio consesso e procura il rafforzarsi dei legami comunitari. L’espressione palese di siffatti legami si esprime concretamente attraverso i canti corali e le declamazioni poetiche di tipo elegiaco intonati dai partecipanti durante il simposio.
Il convivio riservato ad un gruppo numericamente ristretto di individui ha un carattere spiccatamente privato. Le occasioni del banchetto privato sono varie: una festa famigliare (matrimonio), una ricorrenza religiosa o un avvenimento speciale (vittoria negli agoni). Si svolge generalmente all’interno della casa del privato cittadino in un ambiente di dimensioni ridotte, tali da accogliere i presenti, il numero dei quali varia di norma da tre a nove. Gli inviti sono formulati il giorno prima o il giorno stesso. Interviene solo chi è invitato, anche se il personaggio di riconosciuta fama si può far accompagnare da altri. Il tramonto segna il momento in cui dare inizio all’incontro. In questo caso, diversamente da quanto accade nel simposio pubblico dove gli aventi diritto partecipano indistintamente alla riunione, la presenza è subordinata all’invito formale di colui che indice il convivio. È l’ospite che invita e sceglie i commensali nella misura in cui si riconosce in loro e loro in lui; si ottiene così lo stabilirsi di una sintonia che rende possibile la creazione di rapporti interpersonali dove ognuno è libero di esternare la propria passionalità.
Altra componente base del simposio è il consumo del vino concepito come dono prezioso del divino Dioniso, in grado di alleviare le umane ambasce. L’indovino Tiresia così si esprime rivolgendosi al re di Tebe Penteo:
Sappi, figlio mio, che due princìpi sono per gli uomini fondamentali. Innanzitutto Demetra - o la terra, puoi chiamarla come vuoi - che nutre l’umanità con alimenti solidi. Poi viene il suo emulo. Il figlio di Semele, che scoprì il succo dell’uva e ce ne fece dono per guarire gli affanni dei miserevoli mortali. Quando gli uomini sono pieni del nettare della vigna, questo dà loro l’oblio delle cure quotidiane, attraverso il sonno, solo rimedio del nostro soffrire.
Dioniso, consegnando il vino agli uomini, si premura di insegnarne anche il corretto uso: mescerlo con acqua secondo determinate proporzioni, che variano da tre misure di acqua e una di vino, a cinque misure di acqua e tre di vino, a tre misure di acqua e due di vino. Questa pratica deriva dall’alta gradazione alcolica ottenuta impiegando uva raccolta solo dopo la perdita del fogliame. Una volta avvenuta la mescita il vino era versato entro un apposito recipiente, il cratere, per poi raccoglierlo con brocche (oinochoai) o mestoli; distribuirlo versandolo in kylikes, coppe dalle giuste proporzioni. Molto spesso il vasellame destinato alla mescita ed alla distribuzione del vino era adornato con scene legate allo svolgimento del simposio. Il loro ritrovamento ha consentito di comprendere la concezione ideologica che ha dato vita a questa pratica culturale.
Dioniso, attraverso queste regole, offre all’uomo uno strumento atto a preservare quella integrità corporea e psichica che garantisce l’instaurarsi dei rapporti interpersonali. L’assunzione del vino allungato impedisce al piacere di ripiegarsi su sé stesso e, così facendo, di relegare l’uomo nella terribile prigione della solitudine. L’etica comunitaria ne regola l’uso: il vino deve essere miscelato con acqua rispettando dosi ben precise che consentano di berne una certa quantità senza per questo indurre ebbrezza. Per un greco, il vino puro è àkratos, droga pericolosa; berlo può condurre alla pazzia o alla morte; è phàrmakon, bevanda ambivalente, benefica e dannosa ad un tempo.
Il convivio ha luogo in un ambiente della casa appositamente adibito all’uso. Principia sul far della sera, spesso anche prima, e si svolge fino a notte alta rispettando uno schema sempre costante. Inizia con il consumo del cibo disposto su tavole imbandite (syssítion, pranzo in comune); prosegue quindi con la distribuzione del vino (sympósion, bere insieme); termina con il raggiungimento dell’hedoné, del piacere, motivo ispiratore e fine ultimo a cui l’esistere stesso del simposio sottende.
Nel momento in cui, dopo il pranzo, si dà inizio al simposio vero e proprio, giovani schiavi tolgono le mense e nettano il pavimento dai resti del cibo. Poi passano una coppa con vino puro affinché ciascun commensale ne prenda un sorso mentre rivolge un atto di preghiera ed un’offerta in onore di agathoû daímonos – “del buon demone” -. Quindi recano acqua per detergere le mani ed unguenti per ungere il corpo: attraverso la pratica dell’abluzione, l’uomo assicura purezza al rituale e consente a sé stesso di entrare in contatto con il sacro. I preparativi continuano con la consegna a ciascun simpota di corone di mirto od edera, le piante sacre al dio Dioniso, oppure con l’offerta di bende di lana rossa, con le quali adornare il capo, segno di ammissione iniziatica nella nuova comunità. Quindi i giovanetti provvedono a mescere vino ed acqua nei crateri ed a reintrodurre le mense ricolme di deúterai trápezai, di dolciumi e leccornie, da accompagnare alla bevanda. Dopo la distribuzione del vino hanno luogo nuove libagioni in onore degli dei e degli eroi. I commensali, mentre versano fuori dalla coppa sorsi di vino miscelato prelevato da tre diversi crateri, intonano in coro una preghiera solenne accompagnati dal suono dell’aulós, strumento a fiato simile all’oboe.
Immediatamente dopo, il simposiarca, colui al quale è demandato il compito di stabilire le regole dell’incontro alle quali tutti debbono uniformarsi, invita i presenti al brindisi: ognuno beve e girando la coppa verso destra, là dove risiede la fortuna, la passa all’altro con un incitamento a bere alla salute di tutti, o di colui del quale cerca l’attenzione. La conversazione che si accompagna al vino, le declamazioni poetiche congiunte alla musica ed alla danza, i giochi di abilità, contribuiscono insieme a far lievitare il piacere che al fine si espande nell’eros.
Al termine del simposio i partecipanti escono insieme ai suonatori ed ai danzatori dando vita ad un kòmos, chiassoso ed allegro. Si cerca di prolungare gli effetti della festa, recandosi in un altro simposio o presso le abitazioni delle eteree per una serenata che si spera apra le porte all’amore.
Nella forma più antica di banchetto, quello riferibile alla Civiltà Micenea (XVI – XI secolo a.C.) di cui rimane testimonianza nella poesia omerica, il vino accompagna costantemente il consumo del cibo. Il benessere prodotto dalla loro assunzione si integra pienamente con quello suscitato dai canti dei rapsodi chiamati appositamente per accompagnare l’incontro. Lo stato di godimento che ne consegue è vissuto dai commensali, uomini e donne, non come una contrapposizione alle necessità della vita, ma come giusto complemento dell’esistenza stessa. Questo sentimento anima le parole di Ulisse chiamato a partecipare al banchetto offerto da Alcinoo, re dei Feaci:
Alcinoo potente, gloria di tutto il popolo,
questa è cosa bellissima, ascoltare un cantore
com’è costui, che ai numi per la voce somiglia.
E ti dico che non esiste momento più amabile
di quando la gioia regna fra il popolo tutto,
e i convitati in palazzo stanno a sentire il cantore,
seduti in fila; vicino son tavole piene
di pane e di carni, e vino al cratere attingendo,
il coppiere lo porta e lo versa nei calici:
questa in cuore mi sembra la cosa più bella.
questa è cosa bellissima, ascoltare un cantore
com’è costui, che ai numi per la voce somiglia.
E ti dico che non esiste momento più amabile
di quando la gioia regna fra il popolo tutto,
e i convitati in palazzo stanno a sentire il cantore,
seduti in fila; vicino son tavole piene
di pane e di carni, e vino al cratere attingendo,
il coppiere lo porta e lo versa nei calici:
questa in cuore mi sembra la cosa più bella.
Per la società micenea consumare pasti in comune lega gli uomini e gli dei, i vivi ed i morti, in un’esistenza universale ordinata. La visione di quest’ordine cosmico, al quale appartiene anche l’uomo, trova forma espressiva nella poesia mitologica, la rapsodia, che gli aedi intonano durante il banchetto accompagnandosi col suono della phorminx.
Nel canto rapsodico, l’ampio respiro ed il senso drammatico con cui sono esposti gli avvenimenti, contribuiscono ad intrattenere piacevolmente gli astanti e a destarne l’interesse: l’incontro si protrae e con esso il piacere. Il convitato, seduto davanti alla mensa, stabilisce un rapporto personale, immediato e diretto, con la parola dell’aedo, favorito in questo dalla postura. E la parola lo trasporta nell’epoca del mito: rivivendo le imprese dei primi eroi e degli dei beati ritorna nel grembo del tempo primordiale e così facendo si libera dai limiti e dal peso della quotidianetà.
Per la cultura micenea il vino e il cibo, tra cui in primo luogo il grano, si presentano scevri da implicazioni religiose. Laicamente se ne esaltano le reali funzioni intimamente correlate: fornire vigore e valore al combattente prima che questi scenda in campo. Cibo e vino sono mezzi propedeutici all’azione, alla trasformazione.
Dato che alla base dell’aristocratica società gentilizia cantata da Omero è posto il rapporto dell’individuo con la comunità, il vino assume importanza in virtù degli effetti che produce rispetto a tale relazionarsi. Lo si accetta nella misura in cui non sminuisce l’areté, la virtù del singolo, e la timé, il rispetto riconosciutogli dalla collettività nei momenti salienti della vita sociale. Vino e cibo, in quanto finalizzati al rapporto col diverso da sé, sono per questo garanti dell’autenticità del rapporto stesso. Pur tuttavia l’uomo è libero di scegliere se aderire o no alle regole: se trasgredisce ne paga scientemente le conseguenze perché sa che per annullare i benefici del vino è sufficiente sbagliare la circostanza in cui bere e, qualora questa sia opportuna, superare la giusta quantità. Egli sa bene che il lasciarsi tentare dal vino può condurre, attraverso la perdita di controllo delle facoltà razionali, il proprio piacere su lidi ignoti, non ricercati.
“Il vino, folle, mi spinge, che fa cantare anche l’uomo più saggio e lo costringe a ridere di cuore e a danzare, e suscita parola che è meglio non detta”, così confessa Odisseo al guardiano dei porci Eumeo dopo il pasto.
Nel canto rapsodico, l’ampio respiro ed il senso drammatico con cui sono esposti gli avvenimenti, contribuiscono ad intrattenere piacevolmente gli astanti e a destarne l’interesse: l’incontro si protrae e con esso il piacere. Il convitato, seduto davanti alla mensa, stabilisce un rapporto personale, immediato e diretto, con la parola dell’aedo, favorito in questo dalla postura. E la parola lo trasporta nell’epoca del mito: rivivendo le imprese dei primi eroi e degli dei beati ritorna nel grembo del tempo primordiale e così facendo si libera dai limiti e dal peso della quotidianetà.
Per la cultura micenea il vino e il cibo, tra cui in primo luogo il grano, si presentano scevri da implicazioni religiose. Laicamente se ne esaltano le reali funzioni intimamente correlate: fornire vigore e valore al combattente prima che questi scenda in campo. Cibo e vino sono mezzi propedeutici all’azione, alla trasformazione.
Dato che alla base dell’aristocratica società gentilizia cantata da Omero è posto il rapporto dell’individuo con la comunità, il vino assume importanza in virtù degli effetti che produce rispetto a tale relazionarsi. Lo si accetta nella misura in cui non sminuisce l’areté, la virtù del singolo, e la timé, il rispetto riconosciutogli dalla collettività nei momenti salienti della vita sociale. Vino e cibo, in quanto finalizzati al rapporto col diverso da sé, sono per questo garanti dell’autenticità del rapporto stesso. Pur tuttavia l’uomo è libero di scegliere se aderire o no alle regole: se trasgredisce ne paga scientemente le conseguenze perché sa che per annullare i benefici del vino è sufficiente sbagliare la circostanza in cui bere e, qualora questa sia opportuna, superare la giusta quantità. Egli sa bene che il lasciarsi tentare dal vino può condurre, attraverso la perdita di controllo delle facoltà razionali, il proprio piacere su lidi ignoti, non ricercati.
“Il vino, folle, mi spinge, che fa cantare anche l’uomo più saggio e lo costringe a ridere di cuore e a danzare, e suscita parola che è meglio non detta”, così confessa Odisseo al guardiano dei porci Eumeo dopo il pasto.
Con l’avvento dell’età arcaica (VII-VI secolo a.C.) la struttura del banchetto in parte varia. Il cambiamento inizia nei centri greci dell’ Asia Minore (Ionia, isole di Samo, Lesbo, Chio), per diffondersi subito dopo nella madre patria e negli insediamenti coloniali d’Occidente. In particolare in Italia anche le popolazioni indigene della Sicilia e del Meridione che vivono a diretto contatto con i coloni greci, e gli Etruschi ben presto fanno propria la pratica del sympósion.
In primo luogo non sono ammesse le donne libere, ma solo le cortigiane, musiciste o danzatrici. Non vi sono più sedie davanti alle tavole imbandite o ai sgabelli, ma klinai, letti adorni di cuscini e coperte, dove si distendono in coppia i commensali, con il braccio sinistro appoggiato al cuscino posto sotto la nuca ed il destro libero. Il momento dedicato al pranzo e quello dedicato al consumo del vino si separano, affidando specie a quest’ultimo il compito di traghettare l’individuo verso l’eros. È appunto la rilvanza del sympínein - del bere insieme - che, ponendo in subordine la fase del deîpnon - del pranzo - che in realtà ne costituisce l’avvio, qualifica il banchetto greco come sympósion (bevuta comune). Mentre in età romana invece prevarrà il piacere per il cibo (coena, pasto, dal greco koiné, riunione).
Nella stanza del convivio, la scelta di collocare le klinai lungo le pareti in modo da rendere ognuno a portata di voce o di sguardo, nonché quella di farne condividere lo spazio da due convitati, distesi frontalmente od affiancati, è legata a quella regressione che consente all’individuo di recuperare il movimento attraverso il rapporto corporeo. Movimento questo che pone la parola in seconda linea, diversamente da quanto avviene nel banchetto omerico dove lo stare seduti focalizza l’attenzione sulla parola che giunge come una freccia direttamente dalla bocca dell’aedo all’intimo del convitato senza che questi abbia necessità di interazione corporea diretta con l’altro.
Per l’uomo greco di età arcaica il vino è movimento, è rischio, è mille e mille possibilità, è l’instabile felicità, ma è anche un dono di Dioniso e per questo non solo la gioia ma anche il dolore che ne conseguono sono opera del dio. L’uomo che ne abusa lo fa per debolezza di fronte alla divinità e non per mancanza di senso di responsabilità verso la comunità, come invece per i micenei. La pratica del simposio esce così dalla sfera prettamente pubblica, per entrare in quella privata.
Anche il tipo di legame comunitario che si instaura muta rispetto a quello riscontrato nel banchetto di età omerica. Per appartenere ad una collettività si deve condividere un atto sacra le che consente ad ogni associato di esorcizzare il tabù insito nel vino: penetrare nel demoniaco, permettersi di scendere nella propria interiorità, di vivere la propria corporeità, di relazionarsi con il diverso da sé.
Simposio come rito di iniziazione, simposio come rito collettivo con la divinità, così lo presenta il filosofo Senofane:
In primo luogo non sono ammesse le donne libere, ma solo le cortigiane, musiciste o danzatrici. Non vi sono più sedie davanti alle tavole imbandite o ai sgabelli, ma klinai, letti adorni di cuscini e coperte, dove si distendono in coppia i commensali, con il braccio sinistro appoggiato al cuscino posto sotto la nuca ed il destro libero. Il momento dedicato al pranzo e quello dedicato al consumo del vino si separano, affidando specie a quest’ultimo il compito di traghettare l’individuo verso l’eros. È appunto la rilvanza del sympínein - del bere insieme - che, ponendo in subordine la fase del deîpnon - del pranzo - che in realtà ne costituisce l’avvio, qualifica il banchetto greco come sympósion (bevuta comune). Mentre in età romana invece prevarrà il piacere per il cibo (coena, pasto, dal greco koiné, riunione).
Nella stanza del convivio, la scelta di collocare le klinai lungo le pareti in modo da rendere ognuno a portata di voce o di sguardo, nonché quella di farne condividere lo spazio da due convitati, distesi frontalmente od affiancati, è legata a quella regressione che consente all’individuo di recuperare il movimento attraverso il rapporto corporeo. Movimento questo che pone la parola in seconda linea, diversamente da quanto avviene nel banchetto omerico dove lo stare seduti focalizza l’attenzione sulla parola che giunge come una freccia direttamente dalla bocca dell’aedo all’intimo del convitato senza che questi abbia necessità di interazione corporea diretta con l’altro.
Per l’uomo greco di età arcaica il vino è movimento, è rischio, è mille e mille possibilità, è l’instabile felicità, ma è anche un dono di Dioniso e per questo non solo la gioia ma anche il dolore che ne conseguono sono opera del dio. L’uomo che ne abusa lo fa per debolezza di fronte alla divinità e non per mancanza di senso di responsabilità verso la comunità, come invece per i micenei. La pratica del simposio esce così dalla sfera prettamente pubblica, per entrare in quella privata.
Anche il tipo di legame comunitario che si instaura muta rispetto a quello riscontrato nel banchetto di età omerica. Per appartenere ad una collettività si deve condividere un atto sacra le che consente ad ogni associato di esorcizzare il tabù insito nel vino: penetrare nel demoniaco, permettersi di scendere nella propria interiorità, di vivere la propria corporeità, di relazionarsi con il diverso da sé.
Simposio come rito di iniziazione, simposio come rito collettivo con la divinità, così lo presenta il filosofo Senofane:
Il pavimento lustra; mani, tazze pulite.
Uno ci pone in capo le ghirlande,
un altro tende fiale di balsamo, Il cratere
troneggia, pieno di serenità,
Altro vino promette di non tradirci mai:
è in serbo nei boccali, sa di fiore.
L’incenso spira tutt’intorno una fragranza
di chiesa, è chiara, fresca e dolce l’acqua.
Ha ciascuno il suo pane biondo; la salda mensa
è carica di cacio e miele denso.
C’è nel mezzo l’altare coperto di fiori,
la casa è avvolta di festa e di musica.
Uno ci pone in capo le ghirlande,
un altro tende fiale di balsamo, Il cratere
troneggia, pieno di serenità,
Altro vino promette di non tradirci mai:
è in serbo nei boccali, sa di fiore.
L’incenso spira tutt’intorno una fragranza
di chiesa, è chiara, fresca e dolce l’acqua.
Ha ciascuno il suo pane biondo; la salda mensa
è carica di cacio e miele denso.
C’è nel mezzo l’altare coperto di fiori,
la casa è avvolta di festa e di musica.
Il vino, oltre ad aiutare l’uomo a dimenticare le fatiche della vita, lo sospinge verso la verità: “in vino veritas” canta Alceo. Ricevendo la divina bevanda, l’uomo accetta il rischio di perdere il controllo su sé stesso, sulla sua parte razionale; di palesare, senza più maschere o difese, la sua vera natura e, di conseguenza, di esprimere liberamente l’intima passionalità sia attraverso il movimento del corpo che attraverso l’esercizio della mousiké dove la gestualità si fonde con la parola e il suono.
Fino al IV secolo a.C. la cultura greca è essenzialmente orale e la poesia si manifesta e si diffonde attraverso esecuzioni pubbliche nelle quali non solo la parola, ma anche la melodia ed il gesto hanno la loro funzione. La diversa mescolanza di questi elementi crea i nomoi, linee e generi melodici specifici che consentono al poeta di impostare testi e ritmo confacenti al tipo di manifestazione per cui il canto è composto, e all’uditorio di comprendere immediatamente la natura del componimento. Avviene così che la quasi totalità delle forme poetiche arcaiche prendano forma all’interno del simposio e siano in stretta relazione con le sue finalità. È l’esistenza del simposio che consente la nascita della lirica, della poesia individuale non legata al rito.
Solo per suo merito ancor oggi è possibile vibrare di passione ascoltando, ad esempio, Saffo che grida:
Fino al IV secolo a.C. la cultura greca è essenzialmente orale e la poesia si manifesta e si diffonde attraverso esecuzioni pubbliche nelle quali non solo la parola, ma anche la melodia ed il gesto hanno la loro funzione. La diversa mescolanza di questi elementi crea i nomoi, linee e generi melodici specifici che consentono al poeta di impostare testi e ritmo confacenti al tipo di manifestazione per cui il canto è composto, e all’uditorio di comprendere immediatamente la natura del componimento. Avviene così che la quasi totalità delle forme poetiche arcaiche prendano forma all’interno del simposio e siano in stretta relazione con le sue finalità. È l’esistenza del simposio che consente la nascita della lirica, della poesia individuale non legata al rito.
Solo per suo merito ancor oggi è possibile vibrare di passione ascoltando, ad esempio, Saffo che grida:
Pari agli dei mi sembra
quell’uomo: innanzi a te
siede e tanto vicino sente la tua voce
dolce,
il desiato riso. Oh, a me
il cuore sbatte forte nel petto e si spaura,
Ti scorgo, un attimo. e non ho
più voce;
La lingua è rotta, un brivido
di fuoco è nelle carni,
sottile; agli occhi il buio; rombano
gli orecchi.
Cola sudore, un tremito
mi preda. Più verde d’un erba
sono, e la morte cosi poco lungi
mi sembra...
... È possibile rivivere con Alceo la mollezza di un giorno d’estate:
Bagna il petto il vino, ché volge lo stella.
Tempo grave. Nell’afa
arde tutto di sete.
Suona di tra le foglie dolce lo cicala ...
E il cardo infiora.
Allupate le donne,
uomini smunti: all’alito di Siria
è un risucchio nel capo e nelle gambe.
... Partecipare al tormento di Archiloco:
Stremato, nella brama
boccheggio. Acuti spasimi, per colpa degli dèi,
mi bucano le ossa.
Lo stretto rapporto che intercorre tra vino ed arte poetica si palesa anche nelle immagini pittoriche che decorano il vasellame impiegato nel simposio. Per trasferire sul piano visivo le sonorità della esibizione lirica, i ceramisti utilizzano, accanto alle raffigurazioni di poeti, musici e danzatori, la scrittura. In alcuni casi dando voce alla sequenza di sillabe che accompagnano le immagini di strumenti musicali se ne riecheggia il suono; in altri la dinamicità della recitazione è trasferita nella catena di lettere che erompono dalla bocca aperta del cantore rappresentato con il capo rivolto all’indietro, in una posa tipica dell’estasi dionisiaca; in altri ancora la raffigurazione del volumen srotolato reitera all’infinito la suggestione emozionale che il componimento poetico accende. “La parola è l’immagine delle cose”, “la pittura è una poesia silenziosa e la poesia è una pittura loquace”, canta Simonide. La comunione con la mousiké configura pertanto il simposio come espressione artistica vivente ed in continua trasformazione. Con il movimento prendono corpo le differenze individuali, si formano le relazioni interpersonali e sono messe a nudo le dinamiche che il relazionarsi determina, tra le quali, primariamente, il confronto competitivo. Questa competitività si esprime nei giochi di equilibro e destrezza che vengono eseguiti dai simpoti.
Fra questi si impone il kóttabos, gioco importato in Grecia intorno al VII secolo a.C. dai coloni stanziati in Sicilia, i quali, a loro volta, lo avevano appreso dai locali. Come ricorda il poeta Alceo, il gioco consiste in un “Svolar di gocce da coppe di Teo”, nel lancio di un sorso di vino dal fondo di una coppa o di un bicchiere con manico, trattenuti dalla mano destra, verso un bersaglio che può essere una coppa in equilibrio all’estremità di un sostegno bronzeo a forma di candelabro. Se colpita questa cade su una statuetta virile od un disco di bronzo, posti sull’asta a metà altezza, producendo un frastuono. Un altro modo di giocare consiste nel cercare di colpire e rovesciare piccoli gusci galleggianti in un vaso pieno d’acqua. In entrambi i casi il giocatore, nel momento che precede il lancio del vino, pronuncia il nome dell’amato per il quale ricerca il favore e rispetto al quale neI contempo richiede la conferma d’amore. Il bersaglio colpito promette l’esito positivo: kóttabos come strumento oracolare, come modo di controllare il futuro. Affidando alla mediazione divina la soddisfazione d’amore l’uomo intende arginare gli effetti devastanti che una eventuale contesa amorosa può causare nel momento in cui si avvicina il momento dell’eros. Attraverso il completo recupero della corporeità l’uomo raggiunge il grado più alto del piacere che il movimento ed il rapporto consentono: il godimento erotizzante.
La visione del simposio come pratica sociale, come espressione di rapporti concreti, corporei che portano l’individuo a relazionarsi con sé stesso e con il diverso da sé, si trasforma in pratica intellettuale nel momento in cui tra la fine del V ed il IV secolo a.C. diviene il luogo prescelto dai filosofi, a partire da Socrate e Platone, per esporre il proprio pensiero sulla realtà.
Una realtà retta da un ordine logico-ideale che costituisce la vera essenza delle cose e che solo la mente può cogliere. Attraverso quest’ordine ogni aspetto dell’esistenza viene purificato dalla mortalità corporea e sensibile e raggiunge l’eternità.
Il simposio assume pertanto il carattere della synousía, dello stare insieme dove il socializzare non è correlato all’espressione di un impegno sociale comunque ricercato, ma è indirizzato all’autocoscienza. Il pensiero logico-razionale espresso con la parola, con la conversazione, diviene il solo mezzo per raggiungere il godimento, un godimento però che preclude dal coinvolgimento psicocorporeo e punta alla sublimazione.
Alla base di tale passaggio vi è la speculazione platonica sulla corporeità. Il corpo infatti non solo si presenta disunito nettamente dall’anima - entità affine all’intelligenza - ma è giudicato principio di ogni male, fonte di amori insensati, di passioni, inimicizie, discordie, ignoranza e follia: tutti stati d’essere che modificano l’anima. Il corpo imprigiona l’anima entro una tomba. Finché ha il corpo l’uomo è “morto”: per lui la vera vita inizia solo con la morte, quando l’anima si libera dal “carcere” del corpo.
Un terribile paradosso che condiziona l’esistenza umana ancora oggi. In una simile concezione dell’essere non possono trovare posto i piaceri emozionali suscitati dall’arte, in ogni sua forma, se questa esprime la visione della realtà umana in quanto coesione di componenti molteplici e discordi non riconducibili all’unico principio logico possibile: la Bellezza. Bellezza intesa come ordine, equilibrio e armonia. Un’armonia formata da realtà univoche e non contraddittorie.
Fra questi si impone il kóttabos, gioco importato in Grecia intorno al VII secolo a.C. dai coloni stanziati in Sicilia, i quali, a loro volta, lo avevano appreso dai locali. Come ricorda il poeta Alceo, il gioco consiste in un “Svolar di gocce da coppe di Teo”, nel lancio di un sorso di vino dal fondo di una coppa o di un bicchiere con manico, trattenuti dalla mano destra, verso un bersaglio che può essere una coppa in equilibrio all’estremità di un sostegno bronzeo a forma di candelabro. Se colpita questa cade su una statuetta virile od un disco di bronzo, posti sull’asta a metà altezza, producendo un frastuono. Un altro modo di giocare consiste nel cercare di colpire e rovesciare piccoli gusci galleggianti in un vaso pieno d’acqua. In entrambi i casi il giocatore, nel momento che precede il lancio del vino, pronuncia il nome dell’amato per il quale ricerca il favore e rispetto al quale neI contempo richiede la conferma d’amore. Il bersaglio colpito promette l’esito positivo: kóttabos come strumento oracolare, come modo di controllare il futuro. Affidando alla mediazione divina la soddisfazione d’amore l’uomo intende arginare gli effetti devastanti che una eventuale contesa amorosa può causare nel momento in cui si avvicina il momento dell’eros. Attraverso il completo recupero della corporeità l’uomo raggiunge il grado più alto del piacere che il movimento ed il rapporto consentono: il godimento erotizzante.
La visione del simposio come pratica sociale, come espressione di rapporti concreti, corporei che portano l’individuo a relazionarsi con sé stesso e con il diverso da sé, si trasforma in pratica intellettuale nel momento in cui tra la fine del V ed il IV secolo a.C. diviene il luogo prescelto dai filosofi, a partire da Socrate e Platone, per esporre il proprio pensiero sulla realtà.
Una realtà retta da un ordine logico-ideale che costituisce la vera essenza delle cose e che solo la mente può cogliere. Attraverso quest’ordine ogni aspetto dell’esistenza viene purificato dalla mortalità corporea e sensibile e raggiunge l’eternità.
Il simposio assume pertanto il carattere della synousía, dello stare insieme dove il socializzare non è correlato all’espressione di un impegno sociale comunque ricercato, ma è indirizzato all’autocoscienza. Il pensiero logico-razionale espresso con la parola, con la conversazione, diviene il solo mezzo per raggiungere il godimento, un godimento però che preclude dal coinvolgimento psicocorporeo e punta alla sublimazione.
Alla base di tale passaggio vi è la speculazione platonica sulla corporeità. Il corpo infatti non solo si presenta disunito nettamente dall’anima - entità affine all’intelligenza - ma è giudicato principio di ogni male, fonte di amori insensati, di passioni, inimicizie, discordie, ignoranza e follia: tutti stati d’essere che modificano l’anima. Il corpo imprigiona l’anima entro una tomba. Finché ha il corpo l’uomo è “morto”: per lui la vera vita inizia solo con la morte, quando l’anima si libera dal “carcere” del corpo.
Un terribile paradosso che condiziona l’esistenza umana ancora oggi. In una simile concezione dell’essere non possono trovare posto i piaceri emozionali suscitati dall’arte, in ogni sua forma, se questa esprime la visione della realtà umana in quanto coesione di componenti molteplici e discordi non riconducibili all’unico principio logico possibile: la Bellezza. Bellezza intesa come ordine, equilibrio e armonia. Un’armonia formata da realtà univoche e non contraddittorie.
La stessa mousiké deve obbedire a questo canone ed esprimersi secondo un unico genere, un’unica armonia, un ritmo uniforme, prevedendo l’esclusione dell’aulós troppo ricco di sonorità a favore della lira. Anche il contenuto deve tendere alla virtù ed alla conoscenza e non dar voce all’intuizione irrazionale.
La nuova elaborazione filosofica spinge ad allontanare dal simposio ogni forma di espressione artistica in grado di risvegliare l’emotività del simpota, ed affida alla parola il compito di traghettare l’incontro sulle sponde dell’Eros, dell’amore inteso ora come spinta verso l’Assoluto, verso l’Idea del Bello. Afferma Platone:
“... dialogare intorno alla poesia è come ai simposi di persone dappoco e sfaticate. Infatti queste, per il fatto di non sapere intrattenersi piacevolmente da se stesse e nelle bevute e neanche con la loro voce e i loro discorsi per la loro ignoranza, hanno gran pregio le flautiste, e pagano a gran prezzo una voce estranea, quella dei flauti ed è con la loro voce che conversano tra loro. Ma dove ci sono convitati per bene e colti, non vedi né flautiste né ballerine, perché i commensali bastano a sé stessi, e sono perciò capaci di stare insieme senza far chiacchiere né scherzi, ma parlando con la propria voce e ascoltandosi a turno garbatamente, anche se bevono molto vino”.
Durante il simposio, anche il vino perde la sua funzione liberatoria: non è più l’elemento rivelatore del multiforme mondo interiore che permette la ricerca e la sperimentazione del rapporto, ma diviene un mezzo con cui l’uomo dimostra a sé stesso e all’altro di essere in grado di esercitare la temperanza, riuscendo così a trasformare il movimento originato dalla propria sfera emotiva in equilibrio statico.
Affidando alla razionalità il compito di disconoscere, o meglio annullare, all’essere umano la propria corporeità, si attua la scissione tra la sua parte maschile e quella femminile, e si annulla la componente creativa di cui quest’ultima è depositaria. È probabilmente per questo disconoscimento della componente corporea/creativa/irrazionale/femminile dell’uomo che Platone vede nell’omoerotismo la forma “d’amore” più idonea al raggiungimento della suprema Idea del Bene. L’Eros cui tende il simposio platonico ha infatti il carattere di un mezzo che, attraverso vari gradi, conduce l’uomo a confluire nel divino.
L’uomo stesso per ricongiungersi con il soprasensibile è costretto a rinnegare la propria esistenza corporea condannandosi al non-esistere. Anche i rapporti tra gli esseri umani debbono soggiacere a tale costrizione.
Con il simposio platonico si perde l’integrità psicocorporea, sede di un irrazionale sano che può vivere la passione senza bruciare al fuoco di essa: il contesto culturale e sociale cambia e, nella conseguente deformazione del senso profondo del simposio, quest’ultimo perde la potenzialità trasformativa, e quindi terapeutica, insita in esso fino a quel momento. Partendo dalla considerazione che il tipo di rapporto con il diverso da sé che l’uomo instaura dipende dall’aver egli stesso acquisito, o meno, la consapevolezza di essere all’unisono corpo e psiche, il modo in cui questi aspetti sono stati considerati nel simposio, così come esso si è evoluto dall‘età omerica a quella classica, possono aiutare a comprendere quello che sottende alle modalità di cura portate avanti da varie forme di Terapia Psichica sia individuale che dei gruppi.
Il banchetto omerico si presenta come un insieme di individui per i quali il relazionarsi si configura all’interno di una situazione regressiva dominata dalla comunione con il divino in quanto cosmo, paragonabile a quella forma di alienazione religiosa che fisiologicamente il neonato vive nel rapporto con la madre. Il simposio di età arcaica, pur vivendo in modo diverso questo aspetto, prevede ancora che l’uomo possa esprime in tutta libertà la propria irrazionalità e così facendo dare vita a rapporti interpersonali appaganti. Entrambe queste forme di riunione collettiva somigliano ad un Organismo dove, attraverso il livello di rappresentazione proposto, tutti gli organi di senso vengono adeguatamente stimolati dando origine ad un movimento armonico “polifonico”. In virtù di questo, ognuno, ricercando la rispondenza alle proprie immagini interne, si mette continuamente in gioco e, attraverso l’instaurarsi delle relazioni, sperimenta di volta in volta le dinamiche che l’incontrarsi determina. Vivendo tali dinamiche inconsce l’uomo riesce a entrare nel proprio corpo e, attraverso questa ritrovata corporeità, persegue la cura di sé e della sua espressione creativa nel rapporto con l’altro.
Nel simposio platonico ogni uomo diventa specchio dell’altro e, in quanto privo di uno specifico movimento interno, vive vivendo la vita dell’altro, attraverso un gioco mortale di identificazioni. All’interno di una struttura siffatta non può albergare alcun livello di sanità: con Platone il simposio si ammala e produce malattia. Non è certamente casuale che la donna venga estromessa da tale pratica in questo momento storico e culturale; lei, portatrice di corporeità ed irrazionalità. Scompare la donna, scompare la mousiké e l’uomo da eroe diventa pensatore. L’inconscio diventa un mostro da arginare.
Laddove era ben chiaro per gli antichi Greci il rapporto stretto che intercorreva tra Dioniso e l’inconscio e come questo dovesse necessariamente tener conto della corporeità. Spesso infatti il dio è raffigurato accanto a Demetra, la dea madre dispensatrice del grano. Terra e donna, dove la recettività legata al lasciarsi penetrare da Dioniso, significa lasciarsi attraversare dall’inconscio ed accettare le capacità medianiche, interpretative che tale attraversamento genera.
Respingere Dioniso significa rinunciare alla propria emozionalità, alla propria corporeità, significa rinnegare il rapporto con l’altro. Significa impazzire, come accadde per le Menadi punite in questo modo dal dio perché si rifiutarono di seguirlo, di abbandonarsi alla forza dirompente dell’irrazionale collegato alla corporeità. Significa soccombere all’isteria che pur tuttavia non riesce a soffocare il grido di un corpo straziato che si inarca nel disperato tentativo di farsi riconoscere come esistente.
È possibile riconquistare il livello di sanità proposto dall’immagine del simposio arcaico, facendo propria quell’integrità psicocorporea che Platone per primo ha distrutto, seguito in questo da quanti si sono assunti il compito “doveroso” di definire la struttura della nostra cultura. Per questo diventa necessario separarsi dall’ideologia platonica e dai suoi derivati, per portare avanti una teoria della cura che produca una prassi in grado di svolgere una azione terapeutica vera: quella trasformazione in grado di restituire l’uomo al suo inconscio attraverso la sperimentazione della estensibilità dei suoi campi percettivi. La regressione sulla kline, di psicoanalitica memoria, è solo l’inizio di un contatto con la propria corporeità che allude ad un contatto ancora più profondo ed antico: quello in cui il suono era il punto di unione tra corpo e movimento, parola e linguaggio. Quello in cui la regressione psichica era indipendente dalla posizione distesa del corpo, ma anzi era favorita dalla posizione eretta del busto che permetteva direttamente, attraverso l’ascolto della voce dell’altro, secrezione della sua visceralità, di entrare immediatamente nel campo delle sue rappresentazioni, terreno fecondo di ogni processo di cambiamento interiore per quella presenza di cui diventa costantemente interprete.
La nuova elaborazione filosofica spinge ad allontanare dal simposio ogni forma di espressione artistica in grado di risvegliare l’emotività del simpota, ed affida alla parola il compito di traghettare l’incontro sulle sponde dell’Eros, dell’amore inteso ora come spinta verso l’Assoluto, verso l’Idea del Bello. Afferma Platone:
“... dialogare intorno alla poesia è come ai simposi di persone dappoco e sfaticate. Infatti queste, per il fatto di non sapere intrattenersi piacevolmente da se stesse e nelle bevute e neanche con la loro voce e i loro discorsi per la loro ignoranza, hanno gran pregio le flautiste, e pagano a gran prezzo una voce estranea, quella dei flauti ed è con la loro voce che conversano tra loro. Ma dove ci sono convitati per bene e colti, non vedi né flautiste né ballerine, perché i commensali bastano a sé stessi, e sono perciò capaci di stare insieme senza far chiacchiere né scherzi, ma parlando con la propria voce e ascoltandosi a turno garbatamente, anche se bevono molto vino”.
Durante il simposio, anche il vino perde la sua funzione liberatoria: non è più l’elemento rivelatore del multiforme mondo interiore che permette la ricerca e la sperimentazione del rapporto, ma diviene un mezzo con cui l’uomo dimostra a sé stesso e all’altro di essere in grado di esercitare la temperanza, riuscendo così a trasformare il movimento originato dalla propria sfera emotiva in equilibrio statico.
Affidando alla razionalità il compito di disconoscere, o meglio annullare, all’essere umano la propria corporeità, si attua la scissione tra la sua parte maschile e quella femminile, e si annulla la componente creativa di cui quest’ultima è depositaria. È probabilmente per questo disconoscimento della componente corporea/creativa/irrazionale/femminile dell’uomo che Platone vede nell’omoerotismo la forma “d’amore” più idonea al raggiungimento della suprema Idea del Bene. L’Eros cui tende il simposio platonico ha infatti il carattere di un mezzo che, attraverso vari gradi, conduce l’uomo a confluire nel divino.
L’uomo stesso per ricongiungersi con il soprasensibile è costretto a rinnegare la propria esistenza corporea condannandosi al non-esistere. Anche i rapporti tra gli esseri umani debbono soggiacere a tale costrizione.
Con il simposio platonico si perde l’integrità psicocorporea, sede di un irrazionale sano che può vivere la passione senza bruciare al fuoco di essa: il contesto culturale e sociale cambia e, nella conseguente deformazione del senso profondo del simposio, quest’ultimo perde la potenzialità trasformativa, e quindi terapeutica, insita in esso fino a quel momento. Partendo dalla considerazione che il tipo di rapporto con il diverso da sé che l’uomo instaura dipende dall’aver egli stesso acquisito, o meno, la consapevolezza di essere all’unisono corpo e psiche, il modo in cui questi aspetti sono stati considerati nel simposio, così come esso si è evoluto dall‘età omerica a quella classica, possono aiutare a comprendere quello che sottende alle modalità di cura portate avanti da varie forme di Terapia Psichica sia individuale che dei gruppi.
Il banchetto omerico si presenta come un insieme di individui per i quali il relazionarsi si configura all’interno di una situazione regressiva dominata dalla comunione con il divino in quanto cosmo, paragonabile a quella forma di alienazione religiosa che fisiologicamente il neonato vive nel rapporto con la madre. Il simposio di età arcaica, pur vivendo in modo diverso questo aspetto, prevede ancora che l’uomo possa esprime in tutta libertà la propria irrazionalità e così facendo dare vita a rapporti interpersonali appaganti. Entrambe queste forme di riunione collettiva somigliano ad un Organismo dove, attraverso il livello di rappresentazione proposto, tutti gli organi di senso vengono adeguatamente stimolati dando origine ad un movimento armonico “polifonico”. In virtù di questo, ognuno, ricercando la rispondenza alle proprie immagini interne, si mette continuamente in gioco e, attraverso l’instaurarsi delle relazioni, sperimenta di volta in volta le dinamiche che l’incontrarsi determina. Vivendo tali dinamiche inconsce l’uomo riesce a entrare nel proprio corpo e, attraverso questa ritrovata corporeità, persegue la cura di sé e della sua espressione creativa nel rapporto con l’altro.
Nel simposio platonico ogni uomo diventa specchio dell’altro e, in quanto privo di uno specifico movimento interno, vive vivendo la vita dell’altro, attraverso un gioco mortale di identificazioni. All’interno di una struttura siffatta non può albergare alcun livello di sanità: con Platone il simposio si ammala e produce malattia. Non è certamente casuale che la donna venga estromessa da tale pratica in questo momento storico e culturale; lei, portatrice di corporeità ed irrazionalità. Scompare la donna, scompare la mousiké e l’uomo da eroe diventa pensatore. L’inconscio diventa un mostro da arginare.
Laddove era ben chiaro per gli antichi Greci il rapporto stretto che intercorreva tra Dioniso e l’inconscio e come questo dovesse necessariamente tener conto della corporeità. Spesso infatti il dio è raffigurato accanto a Demetra, la dea madre dispensatrice del grano. Terra e donna, dove la recettività legata al lasciarsi penetrare da Dioniso, significa lasciarsi attraversare dall’inconscio ed accettare le capacità medianiche, interpretative che tale attraversamento genera.
Respingere Dioniso significa rinunciare alla propria emozionalità, alla propria corporeità, significa rinnegare il rapporto con l’altro. Significa impazzire, come accadde per le Menadi punite in questo modo dal dio perché si rifiutarono di seguirlo, di abbandonarsi alla forza dirompente dell’irrazionale collegato alla corporeità. Significa soccombere all’isteria che pur tuttavia non riesce a soffocare il grido di un corpo straziato che si inarca nel disperato tentativo di farsi riconoscere come esistente.
È possibile riconquistare il livello di sanità proposto dall’immagine del simposio arcaico, facendo propria quell’integrità psicocorporea che Platone per primo ha distrutto, seguito in questo da quanti si sono assunti il compito “doveroso” di definire la struttura della nostra cultura. Per questo diventa necessario separarsi dall’ideologia platonica e dai suoi derivati, per portare avanti una teoria della cura che produca una prassi in grado di svolgere una azione terapeutica vera: quella trasformazione in grado di restituire l’uomo al suo inconscio attraverso la sperimentazione della estensibilità dei suoi campi percettivi. La regressione sulla kline, di psicoanalitica memoria, è solo l’inizio di un contatto con la propria corporeità che allude ad un contatto ancora più profondo ed antico: quello in cui il suono era il punto di unione tra corpo e movimento, parola e linguaggio. Quello in cui la regressione psichica era indipendente dalla posizione distesa del corpo, ma anzi era favorita dalla posizione eretta del busto che permetteva direttamente, attraverso l’ascolto della voce dell’altro, secrezione della sua visceralità, di entrare immediatamente nel campo delle sue rappresentazioni, terreno fecondo di ogni processo di cambiamento interiore per quella presenza di cui diventa costantemente interprete.
BIBLIOGRAFIA
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Dionysos. Mito e Mistero, Comacchio, Palazzo Bellini 7 maggio -17 dicembre 1989, Catalogo della Mostra a cura di F. Berti - C. Gasparri, Nuova Alfa Editoriale, Bologna 1989
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Il vino di Dioniso. Dei e uomini a banchetto, Siena, Santa Maria della Scala, Catalogo della Mostra a cura di A. De Siena, Protagon Editori Toscani, Siena 2002.
E. LISCIANI-PETRINI, Il suono incrinato. Musica e filosofia nel primo Novecento, Giulio Einaudi Editore, (piccola Biblioteca Einaudi, Nuova serie, Arte, Architettura, Teatro, Cinema, Musica, 90), Torino 2001.
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S. MAZZARINO, “Kottabos siculo e siceliota”, in Rendiconti dell’Accademia Nazionale dei Lincei, Sc. Mor. Serie VI, 15 (1939).
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Riflessioni politiche di un quadriennio (2010-2013). Le Filippiche... di Filippo Paoli
DONNA ELVIRA, UNA RESISTENZA PER OGNI TEMPO
Quanti l’hanno conosciuta da vicino sono concordi nel raccontare del suo fare gentile e determinato, delle lunghe conversazioni con gli amici e i collaboratori e della cura che metteva nelle scelte, fatte sempre in prima persona, che portavano alla edizione di un libro. Elvira Giorgianni Sellerio è una di quelle persone che pur essendo stata protagonista della trasformazione culturale dei nostri tempi, rimane sconosciuta ai più.
Di lei parlano i suoi fatti: poche e incisive sono le sue affermazioni. Una di queste - “Lo stile è vita. La forma è importante, è sostanza” - è la sua carta d’identità; parole semplici, dirette e chiare come riescono ad esserlo le persone che danno valore a tutto ciò che fanno - ma proprio a tutto - e che fanno solo ciò che ha valore. Non una parola viene sprecata, non un gesto. Nelle lunghe discussioni con Enzo Sellerio, che diventerà suo marito, Leonardo Sciascia e l’antropologo Nino Buttitta nacque l’idea di aprire una casa editrice. Lasciò così il posto di funzionario presso la Regione Sicilia e investendo la liquidazione nel progetto editoriale che prese il via nel 1969, iniziò ad occuparsi della sua Sicilia in un altro modo. Con lei questa isola divenne protagonista di una nuova soggettività, il punto di vista periferico del remoto Sud che contribuiva ad aprire una nuova prospettiva culturale in Italia.
E questo, nonostante i tempi e nonostante le difficoltà, riuscì a farlo con quella leggerezza che è propria delle donne. Per chi non l’ha conosciuta, come me, la sua scelta, così come appare dai racconti di amici e collaboratori, sembra una forma di amore per la vita e per la cultura come vita.
Dalle rare interviste che ha rilasciato, è evidente che ‘donna Elvira’, come veniva chiamata nella sua Palermo, era curiosa e coraggiosa, lontana dalle banalità e dai luoghi comuni, attenta a scegliere le parole. Dal volto e dallo sguardo trapelava tutta la sua forza costruita giorno dopo giorno attraverso le sue scelte. Non si è tirata neppure indietro di fronte ad incarichi nei quali era raro vedere una donna - e del Sud per giunta! - e così ha accettato di far parte del Consiglio di amministrazione della RAI, quella ‘dei professori’, tra il 1992 e il 1993. Le sue scelte editoriali sono sempre state coraggiose.
Non esita a pubblicare nel 1996 le Lettere dal carcere di Antonio Gramsci nonostante l’intimidazione dell’Istituto Gramsci, controllato dal PCI, che invocava un poco chiaro rispetto dei diritti d’autore, rivendicati però anche da familiari ed eredi del politico sardo.
Lei non si piegò e scelse di pubblicare il libro. Elvira Sellerio negli anni ha coraggiosamente portato alla ribalta del grande pubblico molti autori, anche rischiando; non c’era niente di commerciale nella sua attività editoriale, non seguiva “quello che vuole la gente”. C’era, piuttosto, la passione per una impresa culturale che si pone come obiettivo l’emancipazione umana.
Curava personalmente la realizzazione di ogni libro; ne sceglieva la carta (andando fino alle cartiere di Fabriano), il colore delle copertine, i risvolti, il formato. Comunicava lei stessa all’autore la scelta di pubblicare il manoscritto. Cercava gli autori di recensioni particolarmente critiche nei confronti di suoi libri, iniziando così, in alcuni casi, proficue collaborazioni; come è il caso dell’attuale direttore editoriale della Sellerio che si era dimostrato particolarmente critico nei confronti di alcune scelte editoriali. È stata una vita, quella della signora dell’editoria, eticamente indipendente in cui ha continuato a portare avanti il suo stile in un periodo storico, come quello attuale, nel quale i ‘consigli per gli acquisti’ hanno la meglio su qualsivoglia contenuto, come risulta evidente anche dall’assegnazione dei premi letterari in Italia.
E ci ha lasciato proprio adesso, ‘donna Elvira’, proprio quando gli spazi di discussione sembrano restringersi e il farsi gli affari propri diventare un imperativo bipartisan. Lei che ha detto ‘No’ al potere che vuole decidere su quanto può essere pubblicabile o no; su quanto può essere saputo e su quanto non si deve sapere.
Elvira con la sua vita e con le sue scelte ha fatto resistenza civica con passione e leggerezza.
Di lei parlano i suoi fatti: poche e incisive sono le sue affermazioni. Una di queste - “Lo stile è vita. La forma è importante, è sostanza” - è la sua carta d’identità; parole semplici, dirette e chiare come riescono ad esserlo le persone che danno valore a tutto ciò che fanno - ma proprio a tutto - e che fanno solo ciò che ha valore. Non una parola viene sprecata, non un gesto. Nelle lunghe discussioni con Enzo Sellerio, che diventerà suo marito, Leonardo Sciascia e l’antropologo Nino Buttitta nacque l’idea di aprire una casa editrice. Lasciò così il posto di funzionario presso la Regione Sicilia e investendo la liquidazione nel progetto editoriale che prese il via nel 1969, iniziò ad occuparsi della sua Sicilia in un altro modo. Con lei questa isola divenne protagonista di una nuova soggettività, il punto di vista periferico del remoto Sud che contribuiva ad aprire una nuova prospettiva culturale in Italia.
E questo, nonostante i tempi e nonostante le difficoltà, riuscì a farlo con quella leggerezza che è propria delle donne. Per chi non l’ha conosciuta, come me, la sua scelta, così come appare dai racconti di amici e collaboratori, sembra una forma di amore per la vita e per la cultura come vita.
Dalle rare interviste che ha rilasciato, è evidente che ‘donna Elvira’, come veniva chiamata nella sua Palermo, era curiosa e coraggiosa, lontana dalle banalità e dai luoghi comuni, attenta a scegliere le parole. Dal volto e dallo sguardo trapelava tutta la sua forza costruita giorno dopo giorno attraverso le sue scelte. Non si è tirata neppure indietro di fronte ad incarichi nei quali era raro vedere una donna - e del Sud per giunta! - e così ha accettato di far parte del Consiglio di amministrazione della RAI, quella ‘dei professori’, tra il 1992 e il 1993. Le sue scelte editoriali sono sempre state coraggiose.
Non esita a pubblicare nel 1996 le Lettere dal carcere di Antonio Gramsci nonostante l’intimidazione dell’Istituto Gramsci, controllato dal PCI, che invocava un poco chiaro rispetto dei diritti d’autore, rivendicati però anche da familiari ed eredi del politico sardo.
Lei non si piegò e scelse di pubblicare il libro. Elvira Sellerio negli anni ha coraggiosamente portato alla ribalta del grande pubblico molti autori, anche rischiando; non c’era niente di commerciale nella sua attività editoriale, non seguiva “quello che vuole la gente”. C’era, piuttosto, la passione per una impresa culturale che si pone come obiettivo l’emancipazione umana.
Curava personalmente la realizzazione di ogni libro; ne sceglieva la carta (andando fino alle cartiere di Fabriano), il colore delle copertine, i risvolti, il formato. Comunicava lei stessa all’autore la scelta di pubblicare il manoscritto. Cercava gli autori di recensioni particolarmente critiche nei confronti di suoi libri, iniziando così, in alcuni casi, proficue collaborazioni; come è il caso dell’attuale direttore editoriale della Sellerio che si era dimostrato particolarmente critico nei confronti di alcune scelte editoriali. È stata una vita, quella della signora dell’editoria, eticamente indipendente in cui ha continuato a portare avanti il suo stile in un periodo storico, come quello attuale, nel quale i ‘consigli per gli acquisti’ hanno la meglio su qualsivoglia contenuto, come risulta evidente anche dall’assegnazione dei premi letterari in Italia.
E ci ha lasciato proprio adesso, ‘donna Elvira’, proprio quando gli spazi di discussione sembrano restringersi e il farsi gli affari propri diventare un imperativo bipartisan. Lei che ha detto ‘No’ al potere che vuole decidere su quanto può essere pubblicabile o no; su quanto può essere saputo e su quanto non si deve sapere.
Elvira con la sua vita e con le sue scelte ha fatto resistenza civica con passione e leggerezza.
“INDIGNATEVI!”
Il suo libro è diventato un caso letterario in Francia. Rinomate firme e grandi case editrici sono stati scalzati, sul finire dell’anno scorso, dalla breve pubblicazione - appena trenta pagine - di Stéphane Hessel edita da una piccola casa editrice nata pochi mesi prima. E mentre pullulavano le analisi di mercato e le domande dei commentatori sul motivo di un tale inaspettato successo, le copie vendute raggiungevano quota un milione e mezzo nella sola Francia e i paesi che ne chiedevano la traduzione erano ben diciassette. Colui che ha terremotato le classifiche dei libri più venduti oltralpe è un partigiano di 93 anni che ha sentito l’esigenza di prendere carta e penna per rivolgersi ai giovani con queste parole: “Il mio augurio a tutti voi, a ciascuno di voi, è che abbiate un motivo per indignarvi. È fondamentale. Quando qualcosa ci indigna come a me ha indignato il nazismo, allora diventiamo militanti, forti e impegnati. Il grande corso della storia continua grazie a ciascuno di noi”.
Hessel attinge alla sua esperienza vissuta nel Consiglio Nazionale della Resistenza Francese che durante l’occupazione nazista riuniva i partiti, i movimenti e i sindacati che volevano rimanere liberi. Il Consiglio aveva redatto un programma con l’ambizione di voler essere il fondamento nella Francia liberata. E dopo aver vissuto direttamente le tormentate vicende del Novecento e aver contribuito in prima persona alla redazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, il militante Hessel non arretra di fronte alla complessità del mondo all’inizio del XXI secolo. Propone così la sua esperienza alle giovani generazioni: se in questo periodo storico non c’è un totalitarismo che palesemente limita la libertà degli individui, “molti - osserva - sono i motivi per cui indignarsi: le espulsioni degli immigrati, la messa in discussione delle conquiste dello Stato sociale, i media monopolio di pochi ricchi”. Ma per Hessel, che è stato imprigionato nel campo di concentramento di Buchenwald, la principale indignazione, oggi, concerne la Palestina, la striscia di Gaza, la Cisgiordania e ciò che è accaduto in quelle terre durante l’operazione dell’esercito israeliano denominata ‘Piombo fuso’.
In questo appello all’indignazione “che è il motore della resistenza”, non c’è niente di astratto, non un giudizio; bensì prese di posizioni inequivocabili e una grande passione per l’Uomo e per la responsabilità che ognuno di noi ha in quanto individuo: “La responsabilità dell’uomo che non può affidarsi né a un potere né a un dio ma che deve impegnarsi nel nome della propria responsabilità di essere umano”. Dunque, indignazione fa certamente rima con laicità e con etica dal momento che porta con sé delle scelte.
Quelle scelte che in un determinato momento sono avvertite come inesorabili. Così è stato per Mohamed Bouazizi che lo scorso 17 dicembre, all’età di 26 anni, si è dato fuoco a Sidi Bouzid in Tunisia per protestare contro la polizia che gli aveva sequestrato il suo piccolo carro col quale vendeva frutta secca. Da questo gesto estremo è partita una ondata di ribellione per la condizione socio-economica pesantissima in cui vive gran parte della popolazione tunisina. Nella piazza dove Mohamed ha compiuto il suo gesto di indignazione, si sono svolte manifestazioni che hanno visto una sempre maggiore partecipazione fino a propagarsi anche in altre città dando vita spontaneamente a un movimento di protesta contro il presidente Ben Ali che lo ha costretto alle dimissioni. Dalla Tunisia, poi, le proteste hanno contagiato altri paesi del nord Africa dando vita a quello che viene chiamato il ‘Risorgimento del mondo arabo’.
Anche la cosiddetta ‘Primavera dei popoli’ a metà del 1800 vide il fiorire di rivolte un po’ in tutta Europa per chiedere l’adozione di Costituzioni che attenuassero il potere delle monarchie e portassero alla fine della oppressione sulle popolazioni. All’interno di questo anelito dei popoli all’indipendenza, uno dei maggiori episodi sono state le Cinque giornate di Milano nel marzo 1848. Fu una lotta non solo contro ‘lo straniero’, l’Austria, ma per affermare una identità nazionale che iniziava ad essere sempre più sentita nelle popolazioni. Come accade a livello personale, anche a livello sociale quando l’identità reclama un riconoscimento e cerca una forma di espressione, gli invasori di ogni risma iniziano ad essere percepiti come estranei-estranei, e spesso rifiutati.
In quelle barricate di metà ‘800 ci sono le radici dell’Unità d’Italia. Da lì, da quei moti dell’indignazione occorre ripartire per riscoprire 150 anni dopo una identità in grado di discriminare l’invasore dallo straniero.
Hessel attinge alla sua esperienza vissuta nel Consiglio Nazionale della Resistenza Francese che durante l’occupazione nazista riuniva i partiti, i movimenti e i sindacati che volevano rimanere liberi. Il Consiglio aveva redatto un programma con l’ambizione di voler essere il fondamento nella Francia liberata. E dopo aver vissuto direttamente le tormentate vicende del Novecento e aver contribuito in prima persona alla redazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, il militante Hessel non arretra di fronte alla complessità del mondo all’inizio del XXI secolo. Propone così la sua esperienza alle giovani generazioni: se in questo periodo storico non c’è un totalitarismo che palesemente limita la libertà degli individui, “molti - osserva - sono i motivi per cui indignarsi: le espulsioni degli immigrati, la messa in discussione delle conquiste dello Stato sociale, i media monopolio di pochi ricchi”. Ma per Hessel, che è stato imprigionato nel campo di concentramento di Buchenwald, la principale indignazione, oggi, concerne la Palestina, la striscia di Gaza, la Cisgiordania e ciò che è accaduto in quelle terre durante l’operazione dell’esercito israeliano denominata ‘Piombo fuso’.
In questo appello all’indignazione “che è il motore della resistenza”, non c’è niente di astratto, non un giudizio; bensì prese di posizioni inequivocabili e una grande passione per l’Uomo e per la responsabilità che ognuno di noi ha in quanto individuo: “La responsabilità dell’uomo che non può affidarsi né a un potere né a un dio ma che deve impegnarsi nel nome della propria responsabilità di essere umano”. Dunque, indignazione fa certamente rima con laicità e con etica dal momento che porta con sé delle scelte.
Quelle scelte che in un determinato momento sono avvertite come inesorabili. Così è stato per Mohamed Bouazizi che lo scorso 17 dicembre, all’età di 26 anni, si è dato fuoco a Sidi Bouzid in Tunisia per protestare contro la polizia che gli aveva sequestrato il suo piccolo carro col quale vendeva frutta secca. Da questo gesto estremo è partita una ondata di ribellione per la condizione socio-economica pesantissima in cui vive gran parte della popolazione tunisina. Nella piazza dove Mohamed ha compiuto il suo gesto di indignazione, si sono svolte manifestazioni che hanno visto una sempre maggiore partecipazione fino a propagarsi anche in altre città dando vita spontaneamente a un movimento di protesta contro il presidente Ben Ali che lo ha costretto alle dimissioni. Dalla Tunisia, poi, le proteste hanno contagiato altri paesi del nord Africa dando vita a quello che viene chiamato il ‘Risorgimento del mondo arabo’.
Anche la cosiddetta ‘Primavera dei popoli’ a metà del 1800 vide il fiorire di rivolte un po’ in tutta Europa per chiedere l’adozione di Costituzioni che attenuassero il potere delle monarchie e portassero alla fine della oppressione sulle popolazioni. All’interno di questo anelito dei popoli all’indipendenza, uno dei maggiori episodi sono state le Cinque giornate di Milano nel marzo 1848. Fu una lotta non solo contro ‘lo straniero’, l’Austria, ma per affermare una identità nazionale che iniziava ad essere sempre più sentita nelle popolazioni. Come accade a livello personale, anche a livello sociale quando l’identità reclama un riconoscimento e cerca una forma di espressione, gli invasori di ogni risma iniziano ad essere percepiti come estranei-estranei, e spesso rifiutati.
In quelle barricate di metà ‘800 ci sono le radici dell’Unità d’Italia. Da lì, da quei moti dell’indignazione occorre ripartire per riscoprire 150 anni dopo una identità in grado di discriminare l’invasore dallo straniero.
YUNUS, LA RIVOLUZIONE DEL MICROCREDITO
Una rivoluzione silenziosa nata dalla semplice osservazione della realtà circostante. Una banca che si muove su presupposti opposti a quelli delle banche tradizionali e del sistema finanziario mondiale. La Grameen Bankfondata in Bangladesh dal premio Nobel per la pace (non sarebbe stato meglio dargli il Nobel per l’economia?) Muhammad Yunus rappresenta tutto questo per i milioni di poveri - e non solo per loro - che in centinaia di paesi in tutto il mondo hanno ottenuto quello che nessuno gli avrebbe mai dato: credito per finanziare progetti di sviluppo nei villaggi in cui vivono senza dover pagare tassi di interesse proibitivi.
L’analfabetismo in Bangladesh, uno dei paesi più poveri al mondo, raggiunge il 90% e periodicamente la regione è colpita da calamità naturali particolarmente violente come cicloni, inondazioni, carestie che mietono decine di migliaia di vittime lasciandosi alle spalle distruzione e povertà. Ed è stata proprio la carestia del 1974 a segnare profondamente la vita di Yunus, allora giovane docente di economia all’Università di Chittagong, in Pakistan. I tanti nullatenenti che incontrava lungo la strada a chiedere l’elemosina cozzavano con i diagrammi e le equazioni dei manuali universitari, come la condizione di vita e di lavoro di gran parte della popolazione strideva con le teorie economiche che insegnava ai suoi studenti. E così decise di andare a vivere nel piccolo villaggio di Jobra per vedere come era la vita quotidiana dei poveri. “Volevo osservare le cose da vicino - scrive nella sua biografia - vederle nitidamente. L’idea di poter dare a un altro essere vivente non una teoria bensì un aiuto piccolo ma reale mi infuse molta forza”. Accompagnato da due amici, batté palmo a palmo il villaggio parlando con le persone che incontrava e così si accorse presto che “i poveri non erano tali per stupidità o per pigrizia - racconta -: anzi, lavorano tutto il giorno svolgendo mansioni fisiche pesanti. Erano poveri perché le strutture finanziarie del nostro paese non erano disposte ad aiutarli. Non era un problema di persone ma di strutture”. Strutture finanziarie che tengono in piedi un sistema basato sull’indebitamento.
Di fronte a questa situazione Yunus non riusciva a darsi pace. I piccoli oggetti prodotti dalle persone del villaggio venivano pagati poco più del prezzo delle materie prime cosicché chi li produceva non moriva di fame ma continuava ad avere bisogno del committente del lavoro. Questa forma di schiavitù fu presa di mira dal premio Nobel che insieme ai suoi collaboratori costituì un piccolo fondo per le quarantadue famiglie di Jobra strozzate dai prestiti ad interessi molto alti. E per far questo furono sufficienti appena 27 dollari. Proponendo questa piccola esperienza anche in altri villaggi, Yunus mise in piedi la struttura di quella che di lì a poco diventerà la Grameen Bank, ‘banca del villaggio’ in bengalese. Una banca che non presta soldi a chi già li ha, ma a quanti non hanno il necessario per vivere dignitosamente e che possono poi restituire il prestito in piccolissime rate settimanali. Yunus, mentre veniva chiamato in mezzo mondo a fare conferenze sul microcredito, veniva anche avvicinato dai grandi banchieri che contestavano la sua attività e lo minacciavano di fermarsi o di inglobarlo nel sistema bancario tradizionale. Ma il mite economista era determinato a liberare le persone povere dal bisogno dell’aiuto degli altri e a renderle autonome per uscire, una volta per tutte, dalla miseria.
E così continuò a disturbare il sonno delle autorità del Bangladesh, e non solo. A risultare particolarmente indigesta, oltre la scelta della Grameen di investire sulle donne che oggi rappresentano il 94% dei suoi clienti, è la forte autonomia di Yunus; è praticamente impossibile ricondurre le attività della sua banca ai desiderata degli apparati governativi e, come se non bastasse, rifiuta anche le offerte di generosi finanziamenti da parte della Banca Mondiale. A ben vedere, il microcredito va a sovvertire tutto il sistema finanziario mondiale basato sul signoraggio bancario, cioè sul lucro operato dalle banche centrali quando ‘battono moneta’ rappresentato dalla differenza tra il valore stampato sulla banconota - detto valore nominale - e il costo per produrla; a questa differenza di valore non corrisponde nessun bene o servizio prodotti dalle Banche centrali che stampano le monete per conto dei governi e ai quali le vendono in cambio di quote di debito pubblico. Governi e Banche centrali di mezzo mondo si poggiano sui piedi di argilla del signoraggio bancario che dà anche un potere notevole alle stesse Banche centrali. Basti pensare che la Banca Mondiale - di proprietà della Federal Reserve e della Banca d’Inghilterra entrambe private e proprietarie anche del Fondo Monetario Internazionale - nega prestiti a quei Paesi che non accettano di privatizzare il settore dell’acqua potabile. E questo è solo un esempio.
Ma Yunus non si è arreso e oggi la sua ‘banca del villaggio’, che ha rimesso in rapporto la moneta con i beni e i servizi prodotti da persone, ha 1084 filiali che danno lavoro a 12.500 persone; dalla sua fondazione ha erogato più di 5 miliardi di dollari ad oltre 5 milioni di richiedenti. I clienti sono 2 milioni e 100mila distribuiti in 37mila villaggi, che hanno un altissimo grado di solvibilità: il 98% dei prestiti viene restituito. E poche settimane fa c’è stato un altro tentativo, l’ultimo in ordine di tempo, di fermare l’attività di Yunus. Improvvisamente alla Banca centrale del Bangladesh si sono ricordati di una legge che prevede il pensionamento a 60 anni e hanno usato questo pretesto per tentare di mandare a risposo l’indomito premio Nobel anche se i 60 anni li ha compiuti da dieci anni! E pensare che il ministro che ha suggerito questa operazione ne ha quasi 80…
Ma il nostro economista prosegue indomito con la determinazione delle donne; lui che ha scelto di investire proprio sulle donne “non più per bilanciare una discriminazione ma per un motivo legato allo sviluppo - spiega -. Infatti, quanto più mi addentravo nel progetto, tanto più acquistavo la certezza che passando per le mani delle donne il credito portava cambiamenti più rapidi di quando era gestito da uomini”.
L’analfabetismo in Bangladesh, uno dei paesi più poveri al mondo, raggiunge il 90% e periodicamente la regione è colpita da calamità naturali particolarmente violente come cicloni, inondazioni, carestie che mietono decine di migliaia di vittime lasciandosi alle spalle distruzione e povertà. Ed è stata proprio la carestia del 1974 a segnare profondamente la vita di Yunus, allora giovane docente di economia all’Università di Chittagong, in Pakistan. I tanti nullatenenti che incontrava lungo la strada a chiedere l’elemosina cozzavano con i diagrammi e le equazioni dei manuali universitari, come la condizione di vita e di lavoro di gran parte della popolazione strideva con le teorie economiche che insegnava ai suoi studenti. E così decise di andare a vivere nel piccolo villaggio di Jobra per vedere come era la vita quotidiana dei poveri. “Volevo osservare le cose da vicino - scrive nella sua biografia - vederle nitidamente. L’idea di poter dare a un altro essere vivente non una teoria bensì un aiuto piccolo ma reale mi infuse molta forza”. Accompagnato da due amici, batté palmo a palmo il villaggio parlando con le persone che incontrava e così si accorse presto che “i poveri non erano tali per stupidità o per pigrizia - racconta -: anzi, lavorano tutto il giorno svolgendo mansioni fisiche pesanti. Erano poveri perché le strutture finanziarie del nostro paese non erano disposte ad aiutarli. Non era un problema di persone ma di strutture”. Strutture finanziarie che tengono in piedi un sistema basato sull’indebitamento.
Di fronte a questa situazione Yunus non riusciva a darsi pace. I piccoli oggetti prodotti dalle persone del villaggio venivano pagati poco più del prezzo delle materie prime cosicché chi li produceva non moriva di fame ma continuava ad avere bisogno del committente del lavoro. Questa forma di schiavitù fu presa di mira dal premio Nobel che insieme ai suoi collaboratori costituì un piccolo fondo per le quarantadue famiglie di Jobra strozzate dai prestiti ad interessi molto alti. E per far questo furono sufficienti appena 27 dollari. Proponendo questa piccola esperienza anche in altri villaggi, Yunus mise in piedi la struttura di quella che di lì a poco diventerà la Grameen Bank, ‘banca del villaggio’ in bengalese. Una banca che non presta soldi a chi già li ha, ma a quanti non hanno il necessario per vivere dignitosamente e che possono poi restituire il prestito in piccolissime rate settimanali. Yunus, mentre veniva chiamato in mezzo mondo a fare conferenze sul microcredito, veniva anche avvicinato dai grandi banchieri che contestavano la sua attività e lo minacciavano di fermarsi o di inglobarlo nel sistema bancario tradizionale. Ma il mite economista era determinato a liberare le persone povere dal bisogno dell’aiuto degli altri e a renderle autonome per uscire, una volta per tutte, dalla miseria.
E così continuò a disturbare il sonno delle autorità del Bangladesh, e non solo. A risultare particolarmente indigesta, oltre la scelta della Grameen di investire sulle donne che oggi rappresentano il 94% dei suoi clienti, è la forte autonomia di Yunus; è praticamente impossibile ricondurre le attività della sua banca ai desiderata degli apparati governativi e, come se non bastasse, rifiuta anche le offerte di generosi finanziamenti da parte della Banca Mondiale. A ben vedere, il microcredito va a sovvertire tutto il sistema finanziario mondiale basato sul signoraggio bancario, cioè sul lucro operato dalle banche centrali quando ‘battono moneta’ rappresentato dalla differenza tra il valore stampato sulla banconota - detto valore nominale - e il costo per produrla; a questa differenza di valore non corrisponde nessun bene o servizio prodotti dalle Banche centrali che stampano le monete per conto dei governi e ai quali le vendono in cambio di quote di debito pubblico. Governi e Banche centrali di mezzo mondo si poggiano sui piedi di argilla del signoraggio bancario che dà anche un potere notevole alle stesse Banche centrali. Basti pensare che la Banca Mondiale - di proprietà della Federal Reserve e della Banca d’Inghilterra entrambe private e proprietarie anche del Fondo Monetario Internazionale - nega prestiti a quei Paesi che non accettano di privatizzare il settore dell’acqua potabile. E questo è solo un esempio.
Ma Yunus non si è arreso e oggi la sua ‘banca del villaggio’, che ha rimesso in rapporto la moneta con i beni e i servizi prodotti da persone, ha 1084 filiali che danno lavoro a 12.500 persone; dalla sua fondazione ha erogato più di 5 miliardi di dollari ad oltre 5 milioni di richiedenti. I clienti sono 2 milioni e 100mila distribuiti in 37mila villaggi, che hanno un altissimo grado di solvibilità: il 98% dei prestiti viene restituito. E poche settimane fa c’è stato un altro tentativo, l’ultimo in ordine di tempo, di fermare l’attività di Yunus. Improvvisamente alla Banca centrale del Bangladesh si sono ricordati di una legge che prevede il pensionamento a 60 anni e hanno usato questo pretesto per tentare di mandare a risposo l’indomito premio Nobel anche se i 60 anni li ha compiuti da dieci anni! E pensare che il ministro che ha suggerito questa operazione ne ha quasi 80…
Ma il nostro economista prosegue indomito con la determinazione delle donne; lui che ha scelto di investire proprio sulle donne “non più per bilanciare una discriminazione ma per un motivo legato allo sviluppo - spiega -. Infatti, quanto più mi addentravo nel progetto, tanto più acquistavo la certezza che passando per le mani delle donne il credito portava cambiamenti più rapidi di quando era gestito da uomini”.
LA CULTURA È SERVITA!
Fasce germinali composizione di Shelly Bisirri e Alexandra Iafolla
Solo ultima di una lunga serie, è arrivata l’affermazione del ministro dell’Economia del governo italiano: “La cultura non si mangia”. Non ha dubbi, lui, che si è sempre professato a favore del mercato come unico regolatore dei sistemi economici e contrario ad ogni intervento pubblico, a proposito delle priorità in base alle quali scegliere a chi e quanto dare o togliere nel bilanciamento delle entrate e delle uscite.
A coloro che ci governano, dunque, prima di tutto interessa ciò che si mangia. E a questo proposito non sono poi così lontani da quanti, come Karl Marx, volevano fare una rivoluzione al grido “Pane per i proletari!” e dare priorità a ciò che è materiale come condizione iniziale per un accesso alla cultura. Strane assonanze emergono nella storia a quasi due secoli di distanza.
È vero che la situazione in cui vivevano i lavoratori nell’800 era particolarmente drammatica: qualità della vita al limite e paghe bassissime per molte ore di lavoro, in pessimi ambienti. Infatti, di fronte a questa situazione, il primo obiettivo da raggiungere per Marx era soddisfare i bisogni del proletariato (cioè di coloro che di bocche da sfamare ne avevano più di una) e dargli pane da mettere sotto i denti. Ma al termine della prima decade del XXI Secolo e dopo il crollo di sistemi economici basati sulla regolazione statale (vedi piani quinquennali), le condizioni del lavoro sono meno drammatiche? Le due posizioni, però, sono accomunate da qualcosa di più importante: non tenere conto dell’aspetto umano che si mette in gioco nei tornanti della storia.
Cultura è l’aspetto strutturante del conoscere ed è ciò che fa di una persona un Uomo e non un animale che ha solo bisogno di mangiare. Molti ricercatori, viaggiatori, scienziati erano e sono mossi da un ‘non so che’. Costoro non fanno confusione tra la sotto-cultura dei grandi eventi da consumare e mangiare con bramosia e la cultura come occasione di conoscenza. E sarà per questo che sono dediti alla coltura silenziosa e costante - cioè ininterrotta - della conoscenza?
E a proposito di strane assonanze, proprio in questi giorni i quotidiani hanno anticipato la prefazione ad un libro scritta da Milan Kundera. In essa l’artista di origini cecoslovacche, espulso due volte dal Partito comunista per condotta ‘non ortodossa’, tra l’altro scrive: “La destra e la sinistra vivono una relazione di buon vicinato; litigano educatamente per guadagnare un po’ di potere, ma non certo per cambiare il mondo. Così ho cominciato a capire che ciò che ci minaccia non è più rappresentato né dalla guerra né dalla rivoluzione, e che ci troviamo nell' epoca del pragmatismo, in cui il solo senso che la vita può avere è quello del profitto. Il profitto inteso (…) come la sola prova che il lavoro è stato ben fatto, che un individuo non ha vissuto per niente, che la sua vita ha avuto un senso”. Il valore della vita è dunque legato al plus valore?
Ci vuole la pazienza e la dedizione dell’agri-coltore per gustare il frutto della conoscenza, e goderne, invece di essere consumatori ingordi di eventi. Ma i consumatori sono sicuramente più docili e meno curiosi, disposti ad accettare le notizie del Tg della sera senza porsi alcuna domanda critica. E perciò possono essere più facilmente ‘governabili’ e con-fusi in una massa indistinta che vada a formare un collettivo nel quale non ci sono persone con una identità espressa da un nome. E se poi vengono chiamati ‘compagni’ o ‘camerati’ fa poca differenza.
A coloro che ci governano, dunque, prima di tutto interessa ciò che si mangia. E a questo proposito non sono poi così lontani da quanti, come Karl Marx, volevano fare una rivoluzione al grido “Pane per i proletari!” e dare priorità a ciò che è materiale come condizione iniziale per un accesso alla cultura. Strane assonanze emergono nella storia a quasi due secoli di distanza.
È vero che la situazione in cui vivevano i lavoratori nell’800 era particolarmente drammatica: qualità della vita al limite e paghe bassissime per molte ore di lavoro, in pessimi ambienti. Infatti, di fronte a questa situazione, il primo obiettivo da raggiungere per Marx era soddisfare i bisogni del proletariato (cioè di coloro che di bocche da sfamare ne avevano più di una) e dargli pane da mettere sotto i denti. Ma al termine della prima decade del XXI Secolo e dopo il crollo di sistemi economici basati sulla regolazione statale (vedi piani quinquennali), le condizioni del lavoro sono meno drammatiche? Le due posizioni, però, sono accomunate da qualcosa di più importante: non tenere conto dell’aspetto umano che si mette in gioco nei tornanti della storia.
Cultura è l’aspetto strutturante del conoscere ed è ciò che fa di una persona un Uomo e non un animale che ha solo bisogno di mangiare. Molti ricercatori, viaggiatori, scienziati erano e sono mossi da un ‘non so che’. Costoro non fanno confusione tra la sotto-cultura dei grandi eventi da consumare e mangiare con bramosia e la cultura come occasione di conoscenza. E sarà per questo che sono dediti alla coltura silenziosa e costante - cioè ininterrotta - della conoscenza?
E a proposito di strane assonanze, proprio in questi giorni i quotidiani hanno anticipato la prefazione ad un libro scritta da Milan Kundera. In essa l’artista di origini cecoslovacche, espulso due volte dal Partito comunista per condotta ‘non ortodossa’, tra l’altro scrive: “La destra e la sinistra vivono una relazione di buon vicinato; litigano educatamente per guadagnare un po’ di potere, ma non certo per cambiare il mondo. Così ho cominciato a capire che ciò che ci minaccia non è più rappresentato né dalla guerra né dalla rivoluzione, e che ci troviamo nell' epoca del pragmatismo, in cui il solo senso che la vita può avere è quello del profitto. Il profitto inteso (…) come la sola prova che il lavoro è stato ben fatto, che un individuo non ha vissuto per niente, che la sua vita ha avuto un senso”. Il valore della vita è dunque legato al plus valore?
Ci vuole la pazienza e la dedizione dell’agri-coltore per gustare il frutto della conoscenza, e goderne, invece di essere consumatori ingordi di eventi. Ma i consumatori sono sicuramente più docili e meno curiosi, disposti ad accettare le notizie del Tg della sera senza porsi alcuna domanda critica. E perciò possono essere più facilmente ‘governabili’ e con-fusi in una massa indistinta che vada a formare un collettivo nel quale non ci sono persone con una identità espressa da un nome. E se poi vengono chiamati ‘compagni’ o ‘camerati’ fa poca differenza.
LE PIAZZE PER UNA NUOVA PRIMAVERA
Anche nei paesi occidentali, dalla scorsa primavera, la piazza è tornata ad essere luogo nel quale passano i movimenti popolari che a volte segnano la Storia. Sarà stato per l’effetto contagioso della Primavera Araba, o per il libro di Stéphane Hessel "Indignez-vous", il 15 maggio in piazza Puerta del Sol a Madrid è venuto alla luce il movimento degli indignados che si è poi esteso in tanti Paesi alle prese con una crisi economica senza precedenti.
Nel giro di pochi giorni ai primi giovani che tenevano nella piazza della capitale spagnola dibattiti e incontri pubblici, si sono aggiunti centinaia di loro coetanei per protestare, inizialmente, per l’altissimo livello di disoccupazione che ha sfiorato quota 21% (pari al doppio della media europea), per poi denunciare le conseguenze della crisi economica iniziata nel 2008 dalle banche degli Stati Uniti.
Concretamente gli indignados hanno ‘solo’ presidiato notte e giorno una piazza al centro della città per fare delle assemblee pubbliche e discutere: niente di nuovo o di sconvolgente, anche i greci facevano questo nell’Agorà. Ma una cosa è leggere gli eventi sui libri di Storia e un’altra cosa è partecipare, grazie anche ai mezzi di comunicazione e ai social network, a quei movimenti che fanno la Storia. Basta esserci stati in una di quelle piazze riempite di indignati, in gran parte giovani, per sentire la forza della determinazione… e infatti dalla Puerta del Sol è partita un’onda di indignazione che ha raggiunto altre città nel mondo: Parigi, Roma, Londra, Tokyo, Sydney, Hong Kong, New York. Denominatore comune di queste piazze è il rifiuto di coloro che proprio non ci stanno a pagare una crisi mondiale innescata con un effetto domino dalla speculazione finanziaria.
Senza tornare nello specifico alla annosa questione del signoraggio bancario, la crisi dei titoli subprime delle banche americane nel 2008 ha iniziato a far sentire le conseguenze anche negli istituti di credito del vecchio continente legati fra loro a doppio filo. L’economia reale europea ne ha risentito perché l’accesso al credito da parte delle imprese e degli Stati è diventato più difficoltoso. Così, l’effetto domino ha raggiunto anche il lavoro (quello reale, cioè i posti di lavoro) e poi i consumi, quindi la produzione.
Una cosa è chiara: la crisi attuale è finanziaria, precisamente una crisi della speculazione finanziaria fatta dalle banche con i nostri soldi, che ha adesso ricadute pesanti sulla vita di quanti ‘fanno soldi’ lavorando e non speculando. Accade quindi che un sistema economico sia minato all’interno da un sistema finanziario fraudolento che vampirizza quanti producono economia reale con il loro lavoro. Le banche, come il gatto e la volpe, si tengono fra loro e insieme detengono i debiti degli Stati condizionandone l’andamento politico. Che fine faranno quei paesi che fino a questo momento sono stati ‘fuori dal giro’? Brasile, Russia, India e Cina (la cosiddetta BRIC), sono chiamati a correre al capezzale di questo sistema morente di cui il coro degli indignados rappresenta l’ultimo canto del cigno. Ma siamo proprio sicuri che ci conviene essere salvati?
Nel giro di pochi giorni ai primi giovani che tenevano nella piazza della capitale spagnola dibattiti e incontri pubblici, si sono aggiunti centinaia di loro coetanei per protestare, inizialmente, per l’altissimo livello di disoccupazione che ha sfiorato quota 21% (pari al doppio della media europea), per poi denunciare le conseguenze della crisi economica iniziata nel 2008 dalle banche degli Stati Uniti.
Concretamente gli indignados hanno ‘solo’ presidiato notte e giorno una piazza al centro della città per fare delle assemblee pubbliche e discutere: niente di nuovo o di sconvolgente, anche i greci facevano questo nell’Agorà. Ma una cosa è leggere gli eventi sui libri di Storia e un’altra cosa è partecipare, grazie anche ai mezzi di comunicazione e ai social network, a quei movimenti che fanno la Storia. Basta esserci stati in una di quelle piazze riempite di indignati, in gran parte giovani, per sentire la forza della determinazione… e infatti dalla Puerta del Sol è partita un’onda di indignazione che ha raggiunto altre città nel mondo: Parigi, Roma, Londra, Tokyo, Sydney, Hong Kong, New York. Denominatore comune di queste piazze è il rifiuto di coloro che proprio non ci stanno a pagare una crisi mondiale innescata con un effetto domino dalla speculazione finanziaria.
Senza tornare nello specifico alla annosa questione del signoraggio bancario, la crisi dei titoli subprime delle banche americane nel 2008 ha iniziato a far sentire le conseguenze anche negli istituti di credito del vecchio continente legati fra loro a doppio filo. L’economia reale europea ne ha risentito perché l’accesso al credito da parte delle imprese e degli Stati è diventato più difficoltoso. Così, l’effetto domino ha raggiunto anche il lavoro (quello reale, cioè i posti di lavoro) e poi i consumi, quindi la produzione.
Una cosa è chiara: la crisi attuale è finanziaria, precisamente una crisi della speculazione finanziaria fatta dalle banche con i nostri soldi, che ha adesso ricadute pesanti sulla vita di quanti ‘fanno soldi’ lavorando e non speculando. Accade quindi che un sistema economico sia minato all’interno da un sistema finanziario fraudolento che vampirizza quanti producono economia reale con il loro lavoro. Le banche, come il gatto e la volpe, si tengono fra loro e insieme detengono i debiti degli Stati condizionandone l’andamento politico. Che fine faranno quei paesi che fino a questo momento sono stati ‘fuori dal giro’? Brasile, Russia, India e Cina (la cosiddetta BRIC), sono chiamati a correre al capezzale di questo sistema morente di cui il coro degli indignados rappresenta l’ultimo canto del cigno. Ma siamo proprio sicuri che ci conviene essere salvati?
C’È RICETTA E RICETTA!
Ufficialmente ci viene detto che l’attuale crisi sia dovuta all’eccessivo debito, che i Paesi più esposti al contagio lo sono a causa del loro livello di indebitamento, ecc. ecc. Colpiti dalla univocità delle voci che in tv, sui giornali e perfino nelle aule parlamentari spargono a piene mani analisi della situazione e strategie per il futuro, ci siamo voluti documentare per farci un’idea… fuori dal coro. E così, grazie a qualche buon libro che analizza la crisi senza un ‘a priori’ ma semplicemente stando ai fatti, ci siamo convinti che avevamo qualche buon motivo di dubitare della univocità del coro di cui sopra e delle ricette per tenerci alla larga dal tanto temuto default. E sì, perché eccetto una sparuta minoranza, nessuno ai vertici della politica o tra i commentatori dei quotidiani o, tantomeno, tra gli esponenti della finanza mette in discussione i piani ‘lacrime e sangue’ imposti dalla Banca Centrale Europea. Ma siamo sicuri che le soluzioni proposte siano veramente risolutive per il presente e capaci di metterci al sicuro per il futuro? A ben vedere come sono andate le cose negli ultimi anni, viene da pensare che è meglio non chiedere al gatto e alla volpe...
Ci viene raccontato, dunque, che l’Italia ha un debito enorme; in particolare il rapporto fra debito e Prodotto Interno Lordo avrebbe raggiunto un livello insostenibile: 120%. È vero. E va detto che questo livello di indebitamento è la conseguenza di scelte poco lungimiranti fatte nei decenni passati che non hanno mai trovato opposizione alcuna: per capirci, le assunzioni in massa nella Pubblica Amministrazione o i pensionamenti dopo 12 anni sei mesi e un giorno di lavoro! Nonostante ciò, nei primi anni Novanta il livello di indebitamento rispetto al PIL era lo stesso, e non c’era nessuna crisi. Evidentemente non ce la raccontano giusta.
Forse può aiutare riavvolgere la pellicola di questo film dell’orrore che va avanti da qualche anno. Tutto sembrerebbe cominciare nel 2007, con la crisi dei mutui subprime negli Stati Uniti: mutui per tutti con piccole rate nei primi mesi che poi crescevano col passar del tempo fino a risultare insostenibili. A quel punto veniva acceso un nuovo mutuo per pagare il precedente: pensate al guadagno per la banca! Tutto ciò basato sulla convinzione indotta che il valore degli immobili sarebbe continuato ad aumentare. Veniva concesso il prestito sulla sola base di un’autocertificazione sul proprio reddito e l’agente che proponeva la polpetta avvelenata ovviamente intascava la commissione. Poi le case hanno iniziato a perdere valore e così quanti avevano preso un mutuo, e un mutuo sul mutuo, hanno iniziato a non poter più pagare le rate lasciando allo scoperto le banche che avevano concesso prestiti a dir poco alla leggera. Quando quei mutui sono finiti a Wall Street sotto forma di titoli finanziari, frutto di magheggi vari, sono venuti alla luce ‘i titoli tossici’. A questo punto è intervenuta l’amministrazione federale per salvare il sistema bancario; stime prudenti parlano di 14mila miliardi di dollari passati negli ultimi anni dal settore pubblico alla finanza privata. Cioè, un debito di quella entità è stato trasferito dalla finanza alle casse pubbliche.
Grazie - si fa per dire! - ai titoli subprime è stato tenuto, dunque, artificialmente alto il livello dei consumi al quale non corrispondeva una ricchezza reale, fatta di lavoro, che permettesse di rifondere il credito ricevuto. L’unico modo per far andare avanti il sistema era costruire sempre più case. Ma arrivati a un certo punto il giocattolo si è rotto. La ricchezza del 5% più ricco della popolazione negli Usa è passata dal 22% del 1983 al 34% del 2007, così come era passata dal 24% del 1920 al 34% del 1928, vigilia della Grande Depressione. Sembra che il sistema economico non riesca a tollerare la concentrazione della ricchezza oltre un certo livello. Visti i legami di cui è composto il sistema finanziario, lo tsunami-subprime ha inevitabilmente attraversato l’Atlantico raggiungendo le banche europee. Questa è l’origine della crisi in Europa ed è chiaro che l’indebitamento è una conseguenza e non la causa della crisi, così come è altrettanto chiaro che l’Euro non è in crisi a differenza di quello che ci vogliono far credere. Anche nel Vecchio Continente i bilanci degli Stati, infatti, hanno generosamente soccorso gli istituti di credito e la parola d’ordine indiscussa, e indiscutibile, è stata “taglio della spesa e pareggio di bilancio”. E così, poiché la finanza ha bisogno di capitali freschi per mantenersi, i nostri conti correnti, i fondi di investimento e quelli pensionistici hanno contribuito e contribuiscono al trasferimento di ricchezza verso il sistema finanziario privato.
Ciò che colpisce oltre la scarsità di informazioni indipendenti - non a caso la finanza controlla anche molti giornali e televisioni - è l’assoluta omologazione di politici, Capi di Stato europei e opinionisti alle direttive della BCE. E così può succedere, come è successo, che qualche burocrate a Francoforte scriva una lettera ad un governo - quello italiano - per mettere nero su bianco le misure da adottare “per ristabilire la fiducia degli investitori” dettando persino lo strumento legislativo con cui prendere le decisioni suggerite: un decreto. Se nel merito la lettera è discutibile, nel metodo è inquietante. Come si può permettere la BCE di dettare l’agenda ad un governo con una lettera per giunta segreta e finita sui giornali quasi due mesi dopo l’invio, nella quale si arriva a chiedere anche la riforma della Costituzione? E ancora, perché i più non hanno proferito parola accodandosi al coro: “Ce lo chiede l’Europa, lo vogliono i mercati”? E a proposito di Europa, siamo sicuri che sia questa l’Europa immaginata da Eugenio Colorni, Ernesto Rossi e Altiero Spinelli durante il loro confino nell’isola di Ventotene? Loro nel Manifesto di Ventotene parlavano di una Europa federale, cioè auspicavano che venisse tenuto conto delle grandi differenze che ci sono tra i Paesi - ben 27 - che formano l’UE, quando invece negli ultimi mesi da Bruxelles vengono fatte piovere dall’alto ricette “omogeneizzate” buone per tutti. Trattare da uguali i differenti sarà forse una nuova forma di Comunismo?
E intanto, mentre è in corso l’imponente opera di distrazione di massa - distrazione del debito dalle Banche agli Stati e distrazione dell’opinione pubblica sulle reali cause della crisi - la finanza continua ad agire indisturbata ad ogni livello: economico, sociale, individuale. Se pensate poi alle ultime frontiere della finanza - le speculazioni sui prodotti agricoli, sugli Ogm e sulle coltivazioni intensive - vi rendete conto che è in ballo per prima cosa la sanità pubblica. La realtà umana ancora una volta non viene tenuta in considerazione proprio come accadeva durante la rivoluzione industriale. Con una variante: nell’800 il salariato era sotto pagato e tenuto praticamente in schiavitù; nel 2000 i salari sono per lo più migliorati e le ore di lavoro diminuite ma siamo condannati a consumare senza sosta come fossimo delle bestie. Questa creazione di ricchezza è un artificio e in quanto tale non ha futuro. Di fronte a questa realtà non è sufficiente indignarsi perché fondamentalmente spetta a noi scegliere se rifornire di valuta fresca, la nostra carne, questo mostro ingordo della finanza che più mangia più ha fame. Potremmo anche scegliere modi alternativi per investire i nostri risparmi, ma senza un rifiuto netto e deciso della teoria dell’uomo che sottende questo modello economico, sarebbe un palliativo. Occorre invece una cura radicale che restituisca l’uomo allo sviluppo della sua realtà. E fin da ora “C’è chi dice no”. Non è forse questa la radice “di un umanesimo nuovo artisticamente laico”?
Ci viene raccontato, dunque, che l’Italia ha un debito enorme; in particolare il rapporto fra debito e Prodotto Interno Lordo avrebbe raggiunto un livello insostenibile: 120%. È vero. E va detto che questo livello di indebitamento è la conseguenza di scelte poco lungimiranti fatte nei decenni passati che non hanno mai trovato opposizione alcuna: per capirci, le assunzioni in massa nella Pubblica Amministrazione o i pensionamenti dopo 12 anni sei mesi e un giorno di lavoro! Nonostante ciò, nei primi anni Novanta il livello di indebitamento rispetto al PIL era lo stesso, e non c’era nessuna crisi. Evidentemente non ce la raccontano giusta.
Forse può aiutare riavvolgere la pellicola di questo film dell’orrore che va avanti da qualche anno. Tutto sembrerebbe cominciare nel 2007, con la crisi dei mutui subprime negli Stati Uniti: mutui per tutti con piccole rate nei primi mesi che poi crescevano col passar del tempo fino a risultare insostenibili. A quel punto veniva acceso un nuovo mutuo per pagare il precedente: pensate al guadagno per la banca! Tutto ciò basato sulla convinzione indotta che il valore degli immobili sarebbe continuato ad aumentare. Veniva concesso il prestito sulla sola base di un’autocertificazione sul proprio reddito e l’agente che proponeva la polpetta avvelenata ovviamente intascava la commissione. Poi le case hanno iniziato a perdere valore e così quanti avevano preso un mutuo, e un mutuo sul mutuo, hanno iniziato a non poter più pagare le rate lasciando allo scoperto le banche che avevano concesso prestiti a dir poco alla leggera. Quando quei mutui sono finiti a Wall Street sotto forma di titoli finanziari, frutto di magheggi vari, sono venuti alla luce ‘i titoli tossici’. A questo punto è intervenuta l’amministrazione federale per salvare il sistema bancario; stime prudenti parlano di 14mila miliardi di dollari passati negli ultimi anni dal settore pubblico alla finanza privata. Cioè, un debito di quella entità è stato trasferito dalla finanza alle casse pubbliche.
Grazie - si fa per dire! - ai titoli subprime è stato tenuto, dunque, artificialmente alto il livello dei consumi al quale non corrispondeva una ricchezza reale, fatta di lavoro, che permettesse di rifondere il credito ricevuto. L’unico modo per far andare avanti il sistema era costruire sempre più case. Ma arrivati a un certo punto il giocattolo si è rotto. La ricchezza del 5% più ricco della popolazione negli Usa è passata dal 22% del 1983 al 34% del 2007, così come era passata dal 24% del 1920 al 34% del 1928, vigilia della Grande Depressione. Sembra che il sistema economico non riesca a tollerare la concentrazione della ricchezza oltre un certo livello. Visti i legami di cui è composto il sistema finanziario, lo tsunami-subprime ha inevitabilmente attraversato l’Atlantico raggiungendo le banche europee. Questa è l’origine della crisi in Europa ed è chiaro che l’indebitamento è una conseguenza e non la causa della crisi, così come è altrettanto chiaro che l’Euro non è in crisi a differenza di quello che ci vogliono far credere. Anche nel Vecchio Continente i bilanci degli Stati, infatti, hanno generosamente soccorso gli istituti di credito e la parola d’ordine indiscussa, e indiscutibile, è stata “taglio della spesa e pareggio di bilancio”. E così, poiché la finanza ha bisogno di capitali freschi per mantenersi, i nostri conti correnti, i fondi di investimento e quelli pensionistici hanno contribuito e contribuiscono al trasferimento di ricchezza verso il sistema finanziario privato.
Ciò che colpisce oltre la scarsità di informazioni indipendenti - non a caso la finanza controlla anche molti giornali e televisioni - è l’assoluta omologazione di politici, Capi di Stato europei e opinionisti alle direttive della BCE. E così può succedere, come è successo, che qualche burocrate a Francoforte scriva una lettera ad un governo - quello italiano - per mettere nero su bianco le misure da adottare “per ristabilire la fiducia degli investitori” dettando persino lo strumento legislativo con cui prendere le decisioni suggerite: un decreto. Se nel merito la lettera è discutibile, nel metodo è inquietante. Come si può permettere la BCE di dettare l’agenda ad un governo con una lettera per giunta segreta e finita sui giornali quasi due mesi dopo l’invio, nella quale si arriva a chiedere anche la riforma della Costituzione? E ancora, perché i più non hanno proferito parola accodandosi al coro: “Ce lo chiede l’Europa, lo vogliono i mercati”? E a proposito di Europa, siamo sicuri che sia questa l’Europa immaginata da Eugenio Colorni, Ernesto Rossi e Altiero Spinelli durante il loro confino nell’isola di Ventotene? Loro nel Manifesto di Ventotene parlavano di una Europa federale, cioè auspicavano che venisse tenuto conto delle grandi differenze che ci sono tra i Paesi - ben 27 - che formano l’UE, quando invece negli ultimi mesi da Bruxelles vengono fatte piovere dall’alto ricette “omogeneizzate” buone per tutti. Trattare da uguali i differenti sarà forse una nuova forma di Comunismo?
E intanto, mentre è in corso l’imponente opera di distrazione di massa - distrazione del debito dalle Banche agli Stati e distrazione dell’opinione pubblica sulle reali cause della crisi - la finanza continua ad agire indisturbata ad ogni livello: economico, sociale, individuale. Se pensate poi alle ultime frontiere della finanza - le speculazioni sui prodotti agricoli, sugli Ogm e sulle coltivazioni intensive - vi rendete conto che è in ballo per prima cosa la sanità pubblica. La realtà umana ancora una volta non viene tenuta in considerazione proprio come accadeva durante la rivoluzione industriale. Con una variante: nell’800 il salariato era sotto pagato e tenuto praticamente in schiavitù; nel 2000 i salari sono per lo più migliorati e le ore di lavoro diminuite ma siamo condannati a consumare senza sosta come fossimo delle bestie. Questa creazione di ricchezza è un artificio e in quanto tale non ha futuro. Di fronte a questa realtà non è sufficiente indignarsi perché fondamentalmente spetta a noi scegliere se rifornire di valuta fresca, la nostra carne, questo mostro ingordo della finanza che più mangia più ha fame. Potremmo anche scegliere modi alternativi per investire i nostri risparmi, ma senza un rifiuto netto e deciso della teoria dell’uomo che sottende questo modello economico, sarebbe un palliativo. Occorre invece una cura radicale che restituisca l’uomo allo sviluppo della sua realtà. E fin da ora “C’è chi dice no”. Non è forse questa la radice “di un umanesimo nuovo artisticamente laico”?
SI PUÒ SEMPRE DIRE NO
Finalmente, dopo tanta attesa, arriva un’offerta di lavoro come non ne arrivavano da tempo. Niente di meglio in un periodo di crisi per un’azienda con 20 dipendenti in cassa integrazione, colpita dalla recessione e dalle nuove leggi sul fotovoltaico che penalizzano pesantemente il settore. Deve essere quanto hanno pensato alla Morellato Energia, etica e ambiente dopo aver letto la proposta della Waas (Whitehead Alenia Sistemi Subacquei), del gruppo Finmeccanica, di costruire l’impianto di refrigerazione della grande vasca dove venivano testati siluri militari. Riuniti in assemblea lavoratori e titolare, il 32enne Valerio Morellato, hanno discusso animatamente sul da farsi: accettare la commessa da 30mila euro che prevedeva un buon margine di ricavo per l’azienda che sarebbe stato ossigeno per i lavoratori cassintegrati, o rifiutare di partecipare alla costruzione di armi facendo una scelta fondata su altri presupposti, non monetizzabili e che non producono profitto materiale, almeno nell’immediato? Tenere conto o meno delle conseguenze non economiche che derivano dalle scelte prese? E così, la maggioranza dei lavoratori della piccola impresa artigiana di Ghezzano, in provincia di Pisa, decide per il ‘No’ alla commessa della Waas. “Troveremo altre strade per uscire dalla crisi”, affermano ben consapevoli di quanto hanno appena rifiutato.
La mail spedita da Valerio Morellato per comunicare a Waas il gran rifiuto è molto semplice: “Le scrivo per comunicarle una decisione che è maturata in questi giorni all’interno della azienda - vi si legge. La richiesta che ci avete rivolto ha dato vita a un complesso e sentito confronto fra noi, particolarmente difficile in questo periodo di crisi economica. Alla fine abbiamo deciso che non presenteremo la nostra offerta per l’impianto da installare. Siamo consapevoli che il nostro contributo alla realizzazione della struttura militare sarebbe stato marginale e certamente ci sarà un’altra azienda che ci sostituirà, ma non ce la sentiamo di mettere le nostre competenze a servizio di un’opera che potrà sviluppare tecnologia bellica”.
Verrebbe da dire che sono un esempio della vittoria di Davide contro Golia, ma con il loro rifiuto hanno reso evidente che è possibile realizzare un sistema economico senza più alcun Golia, un sistema economico che tenga conto della realtà umana dal momento che l’essere umano non ha solo bisogno di mangiare, come fosse una bestia. La stessa assemblea tenutasi alla Morellato parla di una nuova dimensione del lavoro e dell’economia. Niente di più estraneo a quella riunione del modello di fabbrica che ci portiamo dietro dall’Ottocento, quella per capirci che annichiliva i lavoratori-schiavi con turni massacranti, paghe da fame e condizioni di vita al limite della dignità; e non dimentichiamoci dei connessi conflitti ideologici. Niente di più lontano anche dalle scelte prese in Consigli di amministrazione, composti da poche decine di persone - spesso ‘i soliti noti’ -, chiusi all’ascolto di quanti partecipano all’impresa con la manodopera e che non beneficiano di eventuali maggiori guadagni, investiti tutti in speculazioni finanziarie che possono mettere a rischio il futuro stesso dell’azienda.
Alla Morellato non si sono limitati ad indignarsi, ma con una scelta hanno realizzato un’alternativa all’attuale sistema finanziario che fa profitti sulla speculazione ed è tenuto in piedi da banche che ci danno consigli degni del gatto e della volpe. Hanno chiaro le loro priorità; e grazie alla cooperazione con altri esseri umani vanno a definire le priorità anche di un modo nuovo di fare impresa, con al centro la realtà umana.
La mail spedita da Valerio Morellato per comunicare a Waas il gran rifiuto è molto semplice: “Le scrivo per comunicarle una decisione che è maturata in questi giorni all’interno della azienda - vi si legge. La richiesta che ci avete rivolto ha dato vita a un complesso e sentito confronto fra noi, particolarmente difficile in questo periodo di crisi economica. Alla fine abbiamo deciso che non presenteremo la nostra offerta per l’impianto da installare. Siamo consapevoli che il nostro contributo alla realizzazione della struttura militare sarebbe stato marginale e certamente ci sarà un’altra azienda che ci sostituirà, ma non ce la sentiamo di mettere le nostre competenze a servizio di un’opera che potrà sviluppare tecnologia bellica”.
Verrebbe da dire che sono un esempio della vittoria di Davide contro Golia, ma con il loro rifiuto hanno reso evidente che è possibile realizzare un sistema economico senza più alcun Golia, un sistema economico che tenga conto della realtà umana dal momento che l’essere umano non ha solo bisogno di mangiare, come fosse una bestia. La stessa assemblea tenutasi alla Morellato parla di una nuova dimensione del lavoro e dell’economia. Niente di più estraneo a quella riunione del modello di fabbrica che ci portiamo dietro dall’Ottocento, quella per capirci che annichiliva i lavoratori-schiavi con turni massacranti, paghe da fame e condizioni di vita al limite della dignità; e non dimentichiamoci dei connessi conflitti ideologici. Niente di più lontano anche dalle scelte prese in Consigli di amministrazione, composti da poche decine di persone - spesso ‘i soliti noti’ -, chiusi all’ascolto di quanti partecipano all’impresa con la manodopera e che non beneficiano di eventuali maggiori guadagni, investiti tutti in speculazioni finanziarie che possono mettere a rischio il futuro stesso dell’azienda.
Alla Morellato non si sono limitati ad indignarsi, ma con una scelta hanno realizzato un’alternativa all’attuale sistema finanziario che fa profitti sulla speculazione ed è tenuto in piedi da banche che ci danno consigli degni del gatto e della volpe. Hanno chiaro le loro priorità; e grazie alla cooperazione con altri esseri umani vanno a definire le priorità anche di un modo nuovo di fare impresa, con al centro la realtà umana.
È IL PENSIERO CHE CREA LA ALTERNATIVA
Nascente...di Filippo Paoli
Non si sono rassegnati al ‘così stanno le cose’ e non si sono arresi davanti ad una realtà ritenuta immodificabile solo dalla pochezza del pensiero, e di fantasia, di chi la propone, o meglio, la impone come tale. Non si sono neppure dati per vinti davanti alla dura legge del mercato: è in corso la recessione più pesante degli ultimi secoli e perciò rimane sulla piazza solo chi sposta la produzione nei paesi in cui il costo del lavoro è molto più basso che in Italia (ossia, delocalizza). Ritenendo possibile l’esistenza di un’altra strada, Marina Cedraschi e Cristian Stangalini hanno finito per trovarla. Hanno sbaragliato i ruoli consolidati nei secoli di ‘padrone’ e ‘operaio’ e si sono inventati soluzioni a crisi aziendali che, per quanto diverse, avrebbero messo a rischio decine di posti di lavoro. E sì, c’è sempre una alternativa!
Marina Cedraschi, 33enne dipendente di una azienda metalmeccanica del comasco (la Sisme), qualche mese fa ha partecipato al referendum indetto dai sindacati per chiedere il via libera al cofinanziamento da parte dei lavoratori di un nuovo impianto produttivo della Sisme, altrimenti destinato ad essere trasferito in Slovacchia. Ed è stata lei stessa una delle promotrici della mobilitazione, che poi ha portato alla consultazione tra i lavoratori della azienda metalmeccanica, nel momento in cui la proprietà ha minacciato di delocalizzare un altro pezzo di produzione, l’ultimo rimasto in Italia.
Il calo dei consumi, l’aumento del costo delle materie prime e la corsa dei concorrenti a produrre nei paesi dell’Est Europa, dove il costo del lavoro è quasi di un quinto, iniziavano a pesare. Marina con i suoi colleghi si attiva per trovare una soluzione: iniziano gli scioperi e apre una pagina Facebook all’insegna del motto “La Sisme non si tocca e non si sposta” che diventa ben presto riferimento per chi sostiene la sua causa. Nasce così una gestione partecipativa, voluta da Sisme e sindacati, che sfocia nel referendum e scongiura l’abbandono dell’Italia da parte dell’azienda. Con questa soluzione i lavoratori, dirigenti compresi, partecipano all’investimento necessario per modernizzare la produzione, in base al reddito; ognuno si assume così la propria parte di responsabilità nel dare un futuro all’azienda, in cambio della rinuncia di una piccola parte di stipendio o una minor maturazione del Tfr.
Dalle ceneri della Metal Welding Wire, il 44enne Cristian Stangalini, invece, ha fatto nascere a Piove di Sacco nel padovano la Opm Fili. Era convinto che le potenzialità per proseguire la produzione ci fossero tutte, anche perché la chiusura, stabilita dalla multinazionale proprietaria della Metal, era avvenuta su basi incomprensibili dal momento che gli ordini non mancavano. Così, ha deciso di proseguire; all’inizio era solo con sua moglie Cinzia e i due figli. Ha ovviato alla stretta creditizia delle banche vendendo la sua casa in modo da avere un capitale da investire. Da quel momento, anche grazie a fabbriche concorrenti che gli hanno messo a disposizione spazi dismessi, la Opm Fili di Cristian ha spiccato il volo: ha assunto 15 dipendenti e attualmente fattura 400mila euro al mese.
Chi sa cosa avranno pensato Marina e Cristian dello scontro sull’art. 18 dello Statuto dei lavoratori che andava in scena più o meno nelle stesse settimane in cui loro erano impegnati a cercare una soluzione per dare un futuro alle situazioni in cui vivevano? E sì, perché mentre alla Sisme prendeva forma un modello partecipativo che chiamava ognuno ad assumersi delle responsabilità nei confronti dell’azienda, e Cristian vendeva casa per poter fare un primo investimento che gli ha permesso di assumere 15 persone, andava in scena una farsa degna di metà Ottocento.
Cosa significa oggi difendere i lavoratori e i loro diritti? Quanto invocare il ‘conflitto sociale’ porta con sé reali benefici a chi lavora e non piuttosto il mantenimento dei ruoli di ‘padrone’ e ‘operaio’ che ci portiamo dietro dal XIX secolo? Quanto gli stessi rappresentanti dei lavoratori sono in grado di sfidare la ‘controparte’ a muoversi in maniera diversa come ha fatto Marina nel suo piccolo? Perché non proporre di essere parte attiva di un’azienda partecipando direttamente alla definizione delle strategie per il futuro e eleggere rappresentanti sindacali che partecipano ai consigli di amministrazione? È quanto accade nel modello tedesco della ‘cogestione’ che ha consentito alla Volkswagen di superare la crisi attraverso il coinvolgimento dei lavoratori ai quali viene dato un bonus in caso di guadagni superiori al previsto: per il 2011 ognuno dei circa 90mila dipendenti della casa di Wolfsburg ha ricevuto ben 7500 Euro!
Ma si sa, in fin dei conti è più comodo stare in ruoli prestabiliti, gli stessi da sempre. L’uno ‘padrone’, l’altro ’operaio’; l’uno che parla dei licenziamenti come di ‘ristrutturazione produttiva’ e l’altro che sciopera con l’unico slogan ‘vogliamo lavoro’. Se lo avesse fatto anche Marina, adesso sarebbe disoccupata.
Marina Cedraschi, 33enne dipendente di una azienda metalmeccanica del comasco (la Sisme), qualche mese fa ha partecipato al referendum indetto dai sindacati per chiedere il via libera al cofinanziamento da parte dei lavoratori di un nuovo impianto produttivo della Sisme, altrimenti destinato ad essere trasferito in Slovacchia. Ed è stata lei stessa una delle promotrici della mobilitazione, che poi ha portato alla consultazione tra i lavoratori della azienda metalmeccanica, nel momento in cui la proprietà ha minacciato di delocalizzare un altro pezzo di produzione, l’ultimo rimasto in Italia.
Il calo dei consumi, l’aumento del costo delle materie prime e la corsa dei concorrenti a produrre nei paesi dell’Est Europa, dove il costo del lavoro è quasi di un quinto, iniziavano a pesare. Marina con i suoi colleghi si attiva per trovare una soluzione: iniziano gli scioperi e apre una pagina Facebook all’insegna del motto “La Sisme non si tocca e non si sposta” che diventa ben presto riferimento per chi sostiene la sua causa. Nasce così una gestione partecipativa, voluta da Sisme e sindacati, che sfocia nel referendum e scongiura l’abbandono dell’Italia da parte dell’azienda. Con questa soluzione i lavoratori, dirigenti compresi, partecipano all’investimento necessario per modernizzare la produzione, in base al reddito; ognuno si assume così la propria parte di responsabilità nel dare un futuro all’azienda, in cambio della rinuncia di una piccola parte di stipendio o una minor maturazione del Tfr.
Dalle ceneri della Metal Welding Wire, il 44enne Cristian Stangalini, invece, ha fatto nascere a Piove di Sacco nel padovano la Opm Fili. Era convinto che le potenzialità per proseguire la produzione ci fossero tutte, anche perché la chiusura, stabilita dalla multinazionale proprietaria della Metal, era avvenuta su basi incomprensibili dal momento che gli ordini non mancavano. Così, ha deciso di proseguire; all’inizio era solo con sua moglie Cinzia e i due figli. Ha ovviato alla stretta creditizia delle banche vendendo la sua casa in modo da avere un capitale da investire. Da quel momento, anche grazie a fabbriche concorrenti che gli hanno messo a disposizione spazi dismessi, la Opm Fili di Cristian ha spiccato il volo: ha assunto 15 dipendenti e attualmente fattura 400mila euro al mese.
Chi sa cosa avranno pensato Marina e Cristian dello scontro sull’art. 18 dello Statuto dei lavoratori che andava in scena più o meno nelle stesse settimane in cui loro erano impegnati a cercare una soluzione per dare un futuro alle situazioni in cui vivevano? E sì, perché mentre alla Sisme prendeva forma un modello partecipativo che chiamava ognuno ad assumersi delle responsabilità nei confronti dell’azienda, e Cristian vendeva casa per poter fare un primo investimento che gli ha permesso di assumere 15 persone, andava in scena una farsa degna di metà Ottocento.
Cosa significa oggi difendere i lavoratori e i loro diritti? Quanto invocare il ‘conflitto sociale’ porta con sé reali benefici a chi lavora e non piuttosto il mantenimento dei ruoli di ‘padrone’ e ‘operaio’ che ci portiamo dietro dal XIX secolo? Quanto gli stessi rappresentanti dei lavoratori sono in grado di sfidare la ‘controparte’ a muoversi in maniera diversa come ha fatto Marina nel suo piccolo? Perché non proporre di essere parte attiva di un’azienda partecipando direttamente alla definizione delle strategie per il futuro e eleggere rappresentanti sindacali che partecipano ai consigli di amministrazione? È quanto accade nel modello tedesco della ‘cogestione’ che ha consentito alla Volkswagen di superare la crisi attraverso il coinvolgimento dei lavoratori ai quali viene dato un bonus in caso di guadagni superiori al previsto: per il 2011 ognuno dei circa 90mila dipendenti della casa di Wolfsburg ha ricevuto ben 7500 Euro!
Ma si sa, in fin dei conti è più comodo stare in ruoli prestabiliti, gli stessi da sempre. L’uno ‘padrone’, l’altro ’operaio’; l’uno che parla dei licenziamenti come di ‘ristrutturazione produttiva’ e l’altro che sciopera con l’unico slogan ‘vogliamo lavoro’. Se lo avesse fatto anche Marina, adesso sarebbe disoccupata.
“Libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta”
Ovvero… VAGITI DI LIBERTÀ
Ovvero… VAGITI DI LIBERTÀ
“Sono così eccitato che non riesco a stare seduto, né a concentrarmi su qualcosa. Credo sia l’emozione che solo un uomo libero può provare; un uomo libero all’inizio di un lungo viaggio la cui conclusione è incerta. Spero di farcela ad attraversare il confine, spero di incontrare il mio amico e stringergli la mano, spero che il Pacifico sia azzurro come nei miei sogni. Spero…”.
Affacciato al finestrino dell’autobus che lo porta verso il Messico, Red, protagonista de Le ali della libertà, ha appena violato la libertà vigilata concessagli dopo 40 anni di detenzione. Al di là del confine troverà il suo amico Andy che in carcere gli aveva parlato di “quelle cose che nessuno ti può portare via, almeno che tu non glielo permetta, come la speranza. (…) La speranza è una cosa buona, forse la migliore delle cose, e le cose buone non muoiono mai”. Red per la prima volta in quel momento assapora l’emozione della libertà, insieme al piacere dell’aria fresca che gli accarezza il volto e gli entra fra i capelli. Aveva appena scelto di onorare la promessa fatta all’amico: raggiungerlo, una volta ‘fuori’, sulla costa dell’Oceano Pacifico dove Andy stava realizzando il sogno che gli aveva permesso, a differenza di Red, di rimanere libero, e quindi vivo, anche nei tanti anni trascorsi in carcere: mettere su un piccolo albergo e ristrutturare una vecchia barca da noleggiare ai clienti per la pesca.
Come può essere che non si fosse sentito eccitato ed emozionato nel momento in cui, mesi prima, aveva varcato la porta del carcere dopo 40 anni!? Cosa è, dunque, che rende veramente libero un uomo? La storia di Red ci dice chiaramente che egli assapora la libertà per la prima volta nel momento in cui compie una scelta, così come un neonato sente l’aria nei polmoni per la prima volta nel momento della nascita. “O fai di tutto per vivere, o fai di tutto per morire”, gli aveva detto Andy in carcere. Red, nel momento in cui sceglie di raggiungere l’amico, “sceglie di vivere” a differenza di un suo compagno di carcere, Brooks, che in quella stessa situazione si era lasciato contaminare dalla tossicità della disperazione sul proprio futuro. E sì, non ci sono ‘condizioni date’ o ‘contesti ambientali’ che possano impedire una scelta.
“Essere libero, libero come un uomo” è una scelta; è la scelta di ritenere che la sola libertà sia nella “forza del pensiero”.
Affacciato al finestrino dell’autobus che lo porta verso il Messico, Red, protagonista de Le ali della libertà, ha appena violato la libertà vigilata concessagli dopo 40 anni di detenzione. Al di là del confine troverà il suo amico Andy che in carcere gli aveva parlato di “quelle cose che nessuno ti può portare via, almeno che tu non glielo permetta, come la speranza. (…) La speranza è una cosa buona, forse la migliore delle cose, e le cose buone non muoiono mai”. Red per la prima volta in quel momento assapora l’emozione della libertà, insieme al piacere dell’aria fresca che gli accarezza il volto e gli entra fra i capelli. Aveva appena scelto di onorare la promessa fatta all’amico: raggiungerlo, una volta ‘fuori’, sulla costa dell’Oceano Pacifico dove Andy stava realizzando il sogno che gli aveva permesso, a differenza di Red, di rimanere libero, e quindi vivo, anche nei tanti anni trascorsi in carcere: mettere su un piccolo albergo e ristrutturare una vecchia barca da noleggiare ai clienti per la pesca.
Come può essere che non si fosse sentito eccitato ed emozionato nel momento in cui, mesi prima, aveva varcato la porta del carcere dopo 40 anni!? Cosa è, dunque, che rende veramente libero un uomo? La storia di Red ci dice chiaramente che egli assapora la libertà per la prima volta nel momento in cui compie una scelta, così come un neonato sente l’aria nei polmoni per la prima volta nel momento della nascita. “O fai di tutto per vivere, o fai di tutto per morire”, gli aveva detto Andy in carcere. Red, nel momento in cui sceglie di raggiungere l’amico, “sceglie di vivere” a differenza di un suo compagno di carcere, Brooks, che in quella stessa situazione si era lasciato contaminare dalla tossicità della disperazione sul proprio futuro. E sì, non ci sono ‘condizioni date’ o ‘contesti ambientali’ che possano impedire una scelta.
“Essere libero, libero come un uomo” è una scelta; è la scelta di ritenere che la sola libertà sia nella “forza del pensiero”.
LA MEMORIA È ARTE
“Non sfugge al passato chi dimentica il passato”
“Non sfugge al passato chi dimentica il passato”
Andare... di Filippo Paoli
Nessuno sa quanto tempo sia rimasto in uno sgabuzzino della cancelleria della Procura militare di Roma; poi, era il 1994, il procuratore Antonino Intelisano ha notato quell’armadio che conteneva 695 fascicoli e il Registro generale riportante 2274 notizie di reato, relative a crimini di guerra commessi sul territorio italiano durante l’occupazione nazifascista. ‘L’armadio della vergogna’, così è stato chiamato, è rimasto per decenni chiuso con le ante rivolte verso la parete. Gli importanti documenti portati alla luce da un coraggioso magistrato hanno così permesso di ricostruire avvenimenti solo in parte già noti alla storiografia. E mentre storici, pubblici ministeri e giornalisti hanno avuto così accesso a questa enorme mole di informazioni, desta curiosità il lungo lasso di tempo in cui quell’armadio è stato tenuto rivolto verso la parete. Si potrebbe pensare che l’obiettivo fosse quello di impedire il ritrovamento del prezioso contenuto, però se la mano che lo ha schiacciato verso la parete avesse voluto questo, lo avrebbe distrutto. Invece, ritardarne il ritrovamento ha permesso di aprire quei documenti a distanza di tempo dai fatti a cui si riferiscono, il che significa riaprire ferite tra le più profonde e dolorose del secondo conflitto mondiale: l’eccidio delle Fosse Ardeatine e quello di sant’Anna di Stazzema, la strage di Marzabotto, di Lero, di Kerica, e molte altre. Quella mano che si è affidata all’attenzione posta da un uomo del futuro ha creato un gradiente temporale che ha reso possibile una rilettura degli eventi a partire dalla sfera del dolore interiore che non solo soffre ma vuole conoscere attraverso la sofferenza.
Come non collegare la risoluzione di quell’atto mancato alla recente sentenza della magistratura tedesca che affonda le sue radici proprio in quel ritrovamento, riportando in primo piano le domande sulle responsabilità individuali di coloro che hanno partecipato direttamente a crimini efferati, all’uccisione di milioni di esseri umani in nome di una ideologia come pure sulla corresponsabilità di quanti hanno taciuto pur sapendo quanto stava accadendo. Di certo una sentenza che individua i responsabili materiali può contribuire a creare un capro espiatorio su cui riversare la rabbia, ma non trasforma la realtà interna di quel contesto sociale perché non affronta l’assenza di chi sapeva e non parlava o di chi era completamente indifferente. Accade anche con le stragi compiute dall’insospettabile ‘vicino di casa’ della cui pericolosità conoscenti e familiari garantiscono di non essersene mai accorti: “Era sempre gentile e disponibile, forse un po’ chiuso”. Scagliarsi contro il gerarca nazista per i crimini di guerra o urlare “Assassino!!” all’adolescente che ha sterminato familiari, compagni di scuola e insegnanti, a quale logica risponde? Non sarebbe più opportuno chiedersi “Chi ha armato quella mano”? Non sarà che quel militare o quell’adolescente agiscono anche qualcosa di nostro che non vogliamo vedere?
“Il governo federale tedesco continuerà ad assumersi la responsabilità storica dei crimini commessi per mano di tedeschi. La legge non può rendere come non accaduto quanto è accaduto. Faremo di tutto perché questi crimini non vengano dimenticati ”. Ha commentato così il ministro tedesco Michael Georg Link la sentenza della magistratura tedesca che ha stabilito l’impossibilità di procedere contro otto ex gerarchi delle SS, alcuni dei quali rei confessi, imputati di aver preso parte allo sterminio di sant’Anna di Stazzema dove, il 12 agosto 1944, vennero trucidati 560 civili. Link non ha aspettato le domande dei giornalisti in occasione di una conferenza stampa a Roma pochi giorni dopo la sentenza della procura di Stoccarda. Poteva appellarsi ai 68 anni di distanza da quei fatti; poteva cercare di nascondersi - in punta di diritto - dietro una sentenza che accertava la mancanza di prove per procedere contro gli ex gerarchi; poteva commentare il giorno stesso con un comunicato stampa. Invece, il rappresentante del governo tedesco aspetta di essere a Roma per assumersi, davanti alla stampa internazionale, la responsabilità di fatti accaduti quando non era neanche nato.
Sarà un caso che nel cuore di Berlino, poche settimane dopo e alla presenza della cancelliera Angela Merkel e del presidente della Repubblica Joachim Gauck, sia stato inaugurato il Memoriale per i Rom e i Sint deportati e uccisi durante il nazismo? Cosa significa per una città e per quanti ci vivono avere dei luoghi che richiamano pagine della storia, seppur drammatiche? Mentre a Roma, a Palazzo Venezia, vengono allestite le solite mostre d’arte, a Berlino è stato realizzato il Centro di documentazione “Topografia del Terrore” che sorge nei luoghi dove si trovavano il carcere della Gestapo, la caserma della Polizia segreta di Stato e altri importanti uffici del governo nazista.
Colpisce sempre lo squilibrio tra la estrema attenzione alle mostre d’arte contrapposta alla disattenzione totale nei confronti della propria memoria; come se l’Arte non trovasse le sue radici nella memoria stessa. Allora, l’Arte dissociata dalla memoria serve solo a riempire la pancia degli smemorati di turno resi consumatori incalliti proprio da questo vuoto prodotto attivamente?
“Non sfugge al passato chi dimentica il passato” affermava Bertolt Brecht, autore di una ‘farsa storica’ con la quale ha tentato di spiegare al mondo la genesi del Nazismo. Il drammaturgo tedesco, in esilio a Helsinki, ha così messo mano alla penna da cui è nata, in poche settimane, l’opera La resistibile ascesa di Arturo Ui. Ecco come chi si prende la responsabilità di fare i conti col passato apre la via delle trasformazioni interiori su un piano personale e sociale; e l’Arte ne è l’espressione.
Come non collegare la risoluzione di quell’atto mancato alla recente sentenza della magistratura tedesca che affonda le sue radici proprio in quel ritrovamento, riportando in primo piano le domande sulle responsabilità individuali di coloro che hanno partecipato direttamente a crimini efferati, all’uccisione di milioni di esseri umani in nome di una ideologia come pure sulla corresponsabilità di quanti hanno taciuto pur sapendo quanto stava accadendo. Di certo una sentenza che individua i responsabili materiali può contribuire a creare un capro espiatorio su cui riversare la rabbia, ma non trasforma la realtà interna di quel contesto sociale perché non affronta l’assenza di chi sapeva e non parlava o di chi era completamente indifferente. Accade anche con le stragi compiute dall’insospettabile ‘vicino di casa’ della cui pericolosità conoscenti e familiari garantiscono di non essersene mai accorti: “Era sempre gentile e disponibile, forse un po’ chiuso”. Scagliarsi contro il gerarca nazista per i crimini di guerra o urlare “Assassino!!” all’adolescente che ha sterminato familiari, compagni di scuola e insegnanti, a quale logica risponde? Non sarebbe più opportuno chiedersi “Chi ha armato quella mano”? Non sarà che quel militare o quell’adolescente agiscono anche qualcosa di nostro che non vogliamo vedere?
“Il governo federale tedesco continuerà ad assumersi la responsabilità storica dei crimini commessi per mano di tedeschi. La legge non può rendere come non accaduto quanto è accaduto. Faremo di tutto perché questi crimini non vengano dimenticati ”. Ha commentato così il ministro tedesco Michael Georg Link la sentenza della magistratura tedesca che ha stabilito l’impossibilità di procedere contro otto ex gerarchi delle SS, alcuni dei quali rei confessi, imputati di aver preso parte allo sterminio di sant’Anna di Stazzema dove, il 12 agosto 1944, vennero trucidati 560 civili. Link non ha aspettato le domande dei giornalisti in occasione di una conferenza stampa a Roma pochi giorni dopo la sentenza della procura di Stoccarda. Poteva appellarsi ai 68 anni di distanza da quei fatti; poteva cercare di nascondersi - in punta di diritto - dietro una sentenza che accertava la mancanza di prove per procedere contro gli ex gerarchi; poteva commentare il giorno stesso con un comunicato stampa. Invece, il rappresentante del governo tedesco aspetta di essere a Roma per assumersi, davanti alla stampa internazionale, la responsabilità di fatti accaduti quando non era neanche nato.
Sarà un caso che nel cuore di Berlino, poche settimane dopo e alla presenza della cancelliera Angela Merkel e del presidente della Repubblica Joachim Gauck, sia stato inaugurato il Memoriale per i Rom e i Sint deportati e uccisi durante il nazismo? Cosa significa per una città e per quanti ci vivono avere dei luoghi che richiamano pagine della storia, seppur drammatiche? Mentre a Roma, a Palazzo Venezia, vengono allestite le solite mostre d’arte, a Berlino è stato realizzato il Centro di documentazione “Topografia del Terrore” che sorge nei luoghi dove si trovavano il carcere della Gestapo, la caserma della Polizia segreta di Stato e altri importanti uffici del governo nazista.
Colpisce sempre lo squilibrio tra la estrema attenzione alle mostre d’arte contrapposta alla disattenzione totale nei confronti della propria memoria; come se l’Arte non trovasse le sue radici nella memoria stessa. Allora, l’Arte dissociata dalla memoria serve solo a riempire la pancia degli smemorati di turno resi consumatori incalliti proprio da questo vuoto prodotto attivamente?
“Non sfugge al passato chi dimentica il passato” affermava Bertolt Brecht, autore di una ‘farsa storica’ con la quale ha tentato di spiegare al mondo la genesi del Nazismo. Il drammaturgo tedesco, in esilio a Helsinki, ha così messo mano alla penna da cui è nata, in poche settimane, l’opera La resistibile ascesa di Arturo Ui. Ecco come chi si prende la responsabilità di fare i conti col passato apre la via delle trasformazioni interiori su un piano personale e sociale; e l’Arte ne è l’espressione.
LO SFONDONE MONETARIO
Conchiglia di Valeria Amato
Per quanto sia stata lasciata cadere nel silenzio, la notizia c’è ed è un colpo di scena. “Sorry, abbiamo sbagliato” ha titolato un quotidiano italiano dando conto di un recente studio del Fondo Monetario Internazionale (FMI); e anche il titolo del Washington Post non lascia spazio a dubbi: “Uno stupefacente mea culpa”. E sì, perché se le indicazioni del FMI non le ascoltasse nessuno, poco male; ma sugli studi dell’istituzione di Washington si è basata la strategia imposta a mezza Europa per uscire dalla crisi finanziaria. Si legge nel documento dal titolo eloquente “Errori nelle previsioni di crescita e moltiplicatori fiscali”: “I nostri piani di austerità sono un danno per l’economia e l’occupazione”. Questo significa che la linea dell’austerity, del rigore assoluto nei conti pubblici e dei tagli draconiani al welfare non solo non sono efficaci per lo scopo per cui sono stati proposti ma hanno l’effetto contrario.
Gli autori dello studio (!?) - Olivier Blanchard, capo economista del FMI, e Daniel Leigh, economista - sostengono che i costi conseguenti ai tagli nei bilanci statali sono stati sottostimati. Se qualche mese fa al Fondo Monetario ritenevano che il taglio di un euro dal budget di uno Stato costava 50 centesimi di crescita, adesso sostengono che il reale impatto sia di 1,50 euro; non ci dimentichiamo che tutto era stato fatto per ridurre il fantomatico rapporto tra debito e ricchezza (Prodotto Interno Lordo). Adesso veniamo a sapere, per ammissione di chi ha ideato quei piani, che sono proprio le ricette del FMI a contrarre il PIL in misura maggiore del debito e, se la matematica non è una opinione, a far conseguentemente aumentare il rapporto debito-PIL. Della serie: volete voi deprimere l’economia, aumentare la disoccupazione, soffocare lo sviluppo del sistema produttivo e tagliare servizi ai cittadini quali l’istruzione e la sanità? Applicate allora, alla lettera, i piani di austerità del Fondo Monetario Internazionale.
Lo sanno bene i cittadini greci ridotti letteralmente alla fame e stremati dalle soluzioni della troika (terzetto composto da Banca Centrale Europea, Commissione Europea e, appunto, il Fondo Monetario). A causa dell’aumento indiscriminato dei prezzi dei generi di prima necessità, in molti hanno iniziato a bruciare i mobili di casa per scaldarsi o a risparmiare sui generi alimentari (cosa che ha fatto tornare malattie dovute a malnutrizione che da decenni erano scomparse in Europa).
Anche in Italia ne sappiamo qualcosa: la disoccupazione, in particolare quella giovanile, raggiunge nuovi record ad ogni rilevazione; le aziende devono pagare gli stipendi a rate per scongiurare la chiusura definitiva e conseguenti licenziamenti; i soffitti nelle aule scolastiche crollano e i reparti d’ospedale vengono chiusi. Colpisce, perciò, che proprio i principali quotidiani italiani abbiano dato poco risalto alla novità che arriva dalla capitale statunitense, pubblicandola nelle pagine interne. E sembra essere del tutto scomparso proprio il rapporto debito/PIL, in nome del quale tanti sacrifici ci sono stati richiesti: aumenta ma non viene fatto sapere. L’attenzione dell’opinione pubblica è stata dirottata da tempo su un novello totem: lo spread. Inoltre, l’Italia è stata per tanti mesi al centro del ciclone in quanto ritenuta sull’orlo del baratro.
Dal nostro Paese sembrava dipendessero le sorti dell’Euro e il futuro della stessa Unione Europea: per questo, ci hanno detto, era necessario “mettere a posto i conti”. Non c’era tempo da perdere; tanto per evitare equivoci, le ricette targate FMI e BCE sono state messe nero su bianco in una lettera recapitata al governo italiano nell’estate 2011. Nei messi successivi il Parlamento ha diligentemente approvato l’elenco contenuto nella missiva senza fiatare; e sempre in nome delle richieste europee ci è stato anche impedito di andare alle elezioni nel novembre 2011. Ci dicevano che era “necessario fare le riforme, ce lo chiede l’Europa”. La campagna elettorale sembrava essere diventata un lusso che non ci potevamo permettere. “È indispensabile recuperare la fiducia degli investitori e delle istituzioni europee, operando senza indugio nel senso richiesto. (…) Nei prossimi mesi verranno a scadenza quasi duecento miliardi di Euro di Buoni del Tesoro e bisognerà rinnovarli collocandoli sul mercato. In questo momento è da evitare un precipitoso ricorso a elezioni anticipate e quindi un vuoto di governo”, si leggeva in un comunicato stampa della presidenza della Repubblica del 13 novembre 2011. Però, tutte le aste dei BOT delle scorse settimane sono andate a buon fine registrando addirittura, in alcuni casi, una diminuzione del rendimento che indica una maggiore affidabilità; eppure il governo era dimissionario e i partiti nel pieno dello scontro elettorale…
Dell’imposizione di presunte soluzioni che alla prova dei fatti si rivelano inefficaci e vengono smentite dai loro stessi ideatori, nessuno chiede conto; né a quanti hanno teorizzato quello che adesso è chiaro a tutti essere un fallimento, né a quanti lo hanno diligentemente messo in atto dando prova del più sfacciato conformismo. Per l’obbedienza ai nefasti precetti del FMI, destra e sinistra sono arrivate a parlare la stessa lingua, tanto da rendere sempre più difficile distinguerle: gli uni approvavano ‘in nome dell‘interesse nazionale’, gli altri dicevano sì - anche se poco convinti - per ‘senso di responsabilità’, riservandosi in un secondo tempo ‘correzioni e migliorie’ (ci si dovrebbe poi meravigliare dell’esito delle ultime elezioni?!).
Anche i mezzi di informazione portano il loro contributo alla omologazione dilagante della politica e dell’economia nei confronti dei piani di rientro europei: rendendoli megafono di parole d’ordine piovute dall’alto vengono usati per ottenere l’acquiescenza dell’opinione pubblica e soffocare qualsiasi vagito di senso critico. Ma a che prezzo? Nei telegiornali e nei quotidiani sembra che esistano soltanto le ultime 24-48 ore; quanto accaduto ieri viene frettolosamente rimosso e sostituito con gli avvenimenti di oggi se non addirittura con quelli dell’ultima ora. Così facendo viene costruita una sorta di amnesia collettiva che fa il gioco di chi vuol far passare bufale e sfondoni, come quello recente del Fondo Monetario Internazionale. Non dimentichiamo che analizzare e collegare fra loro avvenimenti - anche temporalmente lontani - struttura una memoria e una conoscenza che crea l’identità di una Nazione. Che sia questo il loro scopo?
Gli autori dello studio (!?) - Olivier Blanchard, capo economista del FMI, e Daniel Leigh, economista - sostengono che i costi conseguenti ai tagli nei bilanci statali sono stati sottostimati. Se qualche mese fa al Fondo Monetario ritenevano che il taglio di un euro dal budget di uno Stato costava 50 centesimi di crescita, adesso sostengono che il reale impatto sia di 1,50 euro; non ci dimentichiamo che tutto era stato fatto per ridurre il fantomatico rapporto tra debito e ricchezza (Prodotto Interno Lordo). Adesso veniamo a sapere, per ammissione di chi ha ideato quei piani, che sono proprio le ricette del FMI a contrarre il PIL in misura maggiore del debito e, se la matematica non è una opinione, a far conseguentemente aumentare il rapporto debito-PIL. Della serie: volete voi deprimere l’economia, aumentare la disoccupazione, soffocare lo sviluppo del sistema produttivo e tagliare servizi ai cittadini quali l’istruzione e la sanità? Applicate allora, alla lettera, i piani di austerità del Fondo Monetario Internazionale.
Lo sanno bene i cittadini greci ridotti letteralmente alla fame e stremati dalle soluzioni della troika (terzetto composto da Banca Centrale Europea, Commissione Europea e, appunto, il Fondo Monetario). A causa dell’aumento indiscriminato dei prezzi dei generi di prima necessità, in molti hanno iniziato a bruciare i mobili di casa per scaldarsi o a risparmiare sui generi alimentari (cosa che ha fatto tornare malattie dovute a malnutrizione che da decenni erano scomparse in Europa).
Anche in Italia ne sappiamo qualcosa: la disoccupazione, in particolare quella giovanile, raggiunge nuovi record ad ogni rilevazione; le aziende devono pagare gli stipendi a rate per scongiurare la chiusura definitiva e conseguenti licenziamenti; i soffitti nelle aule scolastiche crollano e i reparti d’ospedale vengono chiusi. Colpisce, perciò, che proprio i principali quotidiani italiani abbiano dato poco risalto alla novità che arriva dalla capitale statunitense, pubblicandola nelle pagine interne. E sembra essere del tutto scomparso proprio il rapporto debito/PIL, in nome del quale tanti sacrifici ci sono stati richiesti: aumenta ma non viene fatto sapere. L’attenzione dell’opinione pubblica è stata dirottata da tempo su un novello totem: lo spread. Inoltre, l’Italia è stata per tanti mesi al centro del ciclone in quanto ritenuta sull’orlo del baratro.
Dal nostro Paese sembrava dipendessero le sorti dell’Euro e il futuro della stessa Unione Europea: per questo, ci hanno detto, era necessario “mettere a posto i conti”. Non c’era tempo da perdere; tanto per evitare equivoci, le ricette targate FMI e BCE sono state messe nero su bianco in una lettera recapitata al governo italiano nell’estate 2011. Nei messi successivi il Parlamento ha diligentemente approvato l’elenco contenuto nella missiva senza fiatare; e sempre in nome delle richieste europee ci è stato anche impedito di andare alle elezioni nel novembre 2011. Ci dicevano che era “necessario fare le riforme, ce lo chiede l’Europa”. La campagna elettorale sembrava essere diventata un lusso che non ci potevamo permettere. “È indispensabile recuperare la fiducia degli investitori e delle istituzioni europee, operando senza indugio nel senso richiesto. (…) Nei prossimi mesi verranno a scadenza quasi duecento miliardi di Euro di Buoni del Tesoro e bisognerà rinnovarli collocandoli sul mercato. In questo momento è da evitare un precipitoso ricorso a elezioni anticipate e quindi un vuoto di governo”, si leggeva in un comunicato stampa della presidenza della Repubblica del 13 novembre 2011. Però, tutte le aste dei BOT delle scorse settimane sono andate a buon fine registrando addirittura, in alcuni casi, una diminuzione del rendimento che indica una maggiore affidabilità; eppure il governo era dimissionario e i partiti nel pieno dello scontro elettorale…
Dell’imposizione di presunte soluzioni che alla prova dei fatti si rivelano inefficaci e vengono smentite dai loro stessi ideatori, nessuno chiede conto; né a quanti hanno teorizzato quello che adesso è chiaro a tutti essere un fallimento, né a quanti lo hanno diligentemente messo in atto dando prova del più sfacciato conformismo. Per l’obbedienza ai nefasti precetti del FMI, destra e sinistra sono arrivate a parlare la stessa lingua, tanto da rendere sempre più difficile distinguerle: gli uni approvavano ‘in nome dell‘interesse nazionale’, gli altri dicevano sì - anche se poco convinti - per ‘senso di responsabilità’, riservandosi in un secondo tempo ‘correzioni e migliorie’ (ci si dovrebbe poi meravigliare dell’esito delle ultime elezioni?!).
Anche i mezzi di informazione portano il loro contributo alla omologazione dilagante della politica e dell’economia nei confronti dei piani di rientro europei: rendendoli megafono di parole d’ordine piovute dall’alto vengono usati per ottenere l’acquiescenza dell’opinione pubblica e soffocare qualsiasi vagito di senso critico. Ma a che prezzo? Nei telegiornali e nei quotidiani sembra che esistano soltanto le ultime 24-48 ore; quanto accaduto ieri viene frettolosamente rimosso e sostituito con gli avvenimenti di oggi se non addirittura con quelli dell’ultima ora. Così facendo viene costruita una sorta di amnesia collettiva che fa il gioco di chi vuol far passare bufale e sfondoni, come quello recente del Fondo Monetario Internazionale. Non dimentichiamo che analizzare e collegare fra loro avvenimenti - anche temporalmente lontani - struttura una memoria e una conoscenza che crea l’identità di una Nazione. Che sia questo il loro scopo?
MEMORIA E RIVOLUZIONE
Scrigno di colori di Filippo Paoli
“Ognuno fa la rivoluzione a modo suo. Sul web abbiamo manifestato tutti. In piazza alcuni. Io ho deciso di lavorare ogni giorno, freneticamente: cercavo di catalogare più opere possibile perché nessuno potesse approfittare del cambiamento per rubare l’anima del Paese, perché si ritrovassero i beni trafugati dal dittatore e dalla sua famiglia. Anche questo è combattere. Perché il nuovo Paese abbia la sua memoria. Perché la memoria può essere rivoluzione”. Soumaya Gharshallah è la direttrice del museo Bardo di Tunisi. Ha 35 anni, un bambino di tre ed è l’unica donna a curare un museo nel suo Paese e una delle poche nel mondo arabo. Soumaya è stata presa di mira dai fondamentalisti islamici per aver tenacemente voluto il restauro del museo, cosa che ha permesso di raddoppiare la superfice espositiva e lo ha reso uno spazio non solo da visitare ma anche da vivere. Grazie al suo lavoro e alla sua determinazione, adesso nel Bardo sono esposte opere provenienti da culture diverse come quella romana ed ebraica.
La chiamano, per questo, “quella del museo plurale”: il Bardo è un luogo in cui le differenze non vengono nascoste o annullate. Tutto ciò non può essere proprio accettato dai fondamentalisti portatori di una ideologia che mutila l’uomo. Per la direttrice “lavorare ogni giorno (…) perché il nuovo Paese abbia una memoria”, significa difendere la Primavera araba nata proprio a Tunisi dal gesto estremo di Mohamed Bouazizi alla fine del 2010. Primavera che, al pari del lavoro di Soumaya, è stata presa di mira dagli islamisti. Quel moto popolare che si è propagato spontaneamente nei Paesi del nord Africa, però, non aveva niente a che fare con l’ideologia della religione. Ogni vera rivoluzione infatti non può che essere laica. Anche un’altra Primavera, quella di Praga, venne presa di mira da altri fondamentalisti che, al pari di quelli musulmani, imponevano l’osservanza a un credo: i comunisti ortodossi di Mosca.
Nei mesi successivi alle prime rivolte nei Paesi attraversati dalla Primavera nel mondo arabo i partiti islamisti con la complicità dell’esercito hanno cercato di ripristinare lo status quo ante anche attraverso la foglia di fico di elezioni formalmente democratiche. E ogni volta che c’era un tentativo di soffocare o controllare i moti rivoluzionari - anche forzando le nuove costituzioni che i popoli si erano appena dati - i giovani arabi scendevano nuovamente in piazza per difendere le loro conquiste e rifiutare ogni tentativo di compromesso o restaurazione. Piazza Tahrir è stata il centro in cui si radunavano i manifestanti sui quali erano concentrati gli occhi del mondo. Quei ragazzi egiziani, ogni qual volta tornavano con le tende nella grande rotonda della piazza, ci ricordavano che è necessario rimanere vigili e pronti a prendere posizione per difendere ciò che si è conquistato. La loro era una vera e propria resistenza al pari di una donna che crea e custodisce un luogo della memoria e lo difende dall’usurpatore di turno.
La chiamano, per questo, “quella del museo plurale”: il Bardo è un luogo in cui le differenze non vengono nascoste o annullate. Tutto ciò non può essere proprio accettato dai fondamentalisti portatori di una ideologia che mutila l’uomo. Per la direttrice “lavorare ogni giorno (…) perché il nuovo Paese abbia una memoria”, significa difendere la Primavera araba nata proprio a Tunisi dal gesto estremo di Mohamed Bouazizi alla fine del 2010. Primavera che, al pari del lavoro di Soumaya, è stata presa di mira dagli islamisti. Quel moto popolare che si è propagato spontaneamente nei Paesi del nord Africa, però, non aveva niente a che fare con l’ideologia della religione. Ogni vera rivoluzione infatti non può che essere laica. Anche un’altra Primavera, quella di Praga, venne presa di mira da altri fondamentalisti che, al pari di quelli musulmani, imponevano l’osservanza a un credo: i comunisti ortodossi di Mosca.
Nei mesi successivi alle prime rivolte nei Paesi attraversati dalla Primavera nel mondo arabo i partiti islamisti con la complicità dell’esercito hanno cercato di ripristinare lo status quo ante anche attraverso la foglia di fico di elezioni formalmente democratiche. E ogni volta che c’era un tentativo di soffocare o controllare i moti rivoluzionari - anche forzando le nuove costituzioni che i popoli si erano appena dati - i giovani arabi scendevano nuovamente in piazza per difendere le loro conquiste e rifiutare ogni tentativo di compromesso o restaurazione. Piazza Tahrir è stata il centro in cui si radunavano i manifestanti sui quali erano concentrati gli occhi del mondo. Quei ragazzi egiziani, ogni qual volta tornavano con le tende nella grande rotonda della piazza, ci ricordavano che è necessario rimanere vigili e pronti a prendere posizione per difendere ciò che si è conquistato. La loro era una vera e propria resistenza al pari di una donna che crea e custodisce un luogo della memoria e lo difende dall’usurpatore di turno.
PUNTO DI NON RITORNO
Nasi di Filippo Paoli
“E che dovrei fare? Cercarmi un protettore? Trovarmi un padrone? No, Grazie!
Dedicare versi ai ricchi come qualsiasi opportunista? Mandar giù rospi tutto il giorno? Sbucciarmi le ginocchia per il troppo genuflettermi? No, grazie!
Accarezzare la capra con una mano e annaffiare il cavolo con l’altra? Diventare un piccolo grande uomo da salotto, navigare avendo per remi madrigali e per vele sospiri di vecchie signore? No, grazie!
(…) Ma invece, cantare… ridere, sognare, essere indipendente, libero, guardare in faccia la gente e parlare come mi pare, mettermi - se ne ho voglia - il cappello di traverso, battermi per un sì o per un no o fare un verso. Lavorare senza curarsi della gloria e della fortuna alla cronaca di un viaggio cui si pensa da tempo, magari nella luna! Non scrivere mai nulla che non sia nato davvero dentro di te! Appagarsi soltanto dei frutti, dei fiori e delle foglie che si sono colte nel proprio giardino con le stesse mani!”.
Cyrano,
messe da parte le smancerie di cui son maestro e che si sciolgono come neve al sole davanti ad un par tuo, ti vorrei dire - magari narrare o, perché no, declamare in rima! - quanto tu mi sia ‘caro’ oltreché ‘odiato’. Sappi per prima cosa che non mi ritengo uno sventurato per la idiosincrasia che tu mi susciti, anche se a volte è come un tormento. Per il momento non ne conosco l’origine, del tormento, ma… tant’è!
Sicuramente so che sei arrivato presto nella mia vita, fin dalla prima adolescenza quando mi portarono (!!) a vedere la rappresentazione teatrale di Edmond Rostand nella quale vengono narrate le tue gesta, le tue imprese, il tuo amore per Rossana e il tuo parlare sonante e rimaiolo. Da allora fino alla recente serata in cui vidi per strada (…casualmente!) la locandina di un laboratorio teatrale proprio sulla “Commedia eroica in cinque atti ” di Rostand, ne è passata di acqua sotto i ponti! Eppure col trascorrere del tempo il rapporto con te non si è risolto per il meglio, tutt’altro!
Non so se ad uno spadaccino-amatore come dicono tu sia stato, capiti mai di ritrovarsi in quello stato che bene non saprei dire se non che assomiglia a qualcosa di indefinito e che ti fa mancare la terra sotto i piedi; ma non come quando ti tuffi e ti appresti ad entrare nel mare - magari! - ma come quando, piuttosto, ti ritrovi senza i soliti (soliti!!) riferimenti che, per quanto collaudati negli anni, crollano come ultimi residuati di un mondo vecchio e polveroso in un Nuovo Mondo.
E d’improvviso, quando mi accorgo di non avere più via di scampo, mi sovvengono impavidi i quesiti.
Quanto questi vecchi riferimenti tengono in piedi un barcollante e acciaccato linguaggio che anche il confronto con te me lo fa avvertire tremendamente desueto?
Quanto con le tue rime affondi la spada tra le mie righe (anche tra quelle di queste pagine) a svelarne impietosamente la ‘miseria’?
Ah, Cyrano, se vorrei scrivere e parlare come te! O duellare con un arrogante improvvisando ballate “di tre strofe d’otto versi ciascuna”! Sì che lo voglio… sì che voglio attraversare quel ‘punto di non ritorno’ che è una dichiarazione scolpita con parole nate da un pensiero libero e da un corpo che suona…
Tra quei duelli combattuti a suon di rime e lettere in cui riversare i palpiti del tuo cuore per Rossana, continui a tessere la trama della tua vita: duellare, instancabile, contro i tuoi nemici che so essere anche i miei. La menzogna, la viltà, il compromesso, il pregiudizio, la stupidità. In fondo hai ragione tu: “Non si combatte solo per vincere. No, è assai più bello quando è inutile”. Sarà forse questo il punto di non ritorno?
Ora che la ‘miseria’ dilaga anche tra queste righe, mi chiedo quanto un pensiero libero sia in stretto rapporto con un linguaggio che abbia in sé la verità del corpo e non la violenza dell’ideologia. E a te, che non sai neppure immaginare cosa significhi rimanere senza parole, dico che adesso io mi ritrovo proprio così… privo di verbi, aggettivi o sostantivi - men che meno di rime - ma non per questo privato di quel desiderio di reimparare a parlare che potrà indurmi un domani… a poetare.
“Pavido allocco! Ecco, è finita la ballata, io tocco”.
Dedicare versi ai ricchi come qualsiasi opportunista? Mandar giù rospi tutto il giorno? Sbucciarmi le ginocchia per il troppo genuflettermi? No, grazie!
Accarezzare la capra con una mano e annaffiare il cavolo con l’altra? Diventare un piccolo grande uomo da salotto, navigare avendo per remi madrigali e per vele sospiri di vecchie signore? No, grazie!
(…) Ma invece, cantare… ridere, sognare, essere indipendente, libero, guardare in faccia la gente e parlare come mi pare, mettermi - se ne ho voglia - il cappello di traverso, battermi per un sì o per un no o fare un verso. Lavorare senza curarsi della gloria e della fortuna alla cronaca di un viaggio cui si pensa da tempo, magari nella luna! Non scrivere mai nulla che non sia nato davvero dentro di te! Appagarsi soltanto dei frutti, dei fiori e delle foglie che si sono colte nel proprio giardino con le stesse mani!”.
Cyrano,
messe da parte le smancerie di cui son maestro e che si sciolgono come neve al sole davanti ad un par tuo, ti vorrei dire - magari narrare o, perché no, declamare in rima! - quanto tu mi sia ‘caro’ oltreché ‘odiato’. Sappi per prima cosa che non mi ritengo uno sventurato per la idiosincrasia che tu mi susciti, anche se a volte è come un tormento. Per il momento non ne conosco l’origine, del tormento, ma… tant’è!
Sicuramente so che sei arrivato presto nella mia vita, fin dalla prima adolescenza quando mi portarono (!!) a vedere la rappresentazione teatrale di Edmond Rostand nella quale vengono narrate le tue gesta, le tue imprese, il tuo amore per Rossana e il tuo parlare sonante e rimaiolo. Da allora fino alla recente serata in cui vidi per strada (…casualmente!) la locandina di un laboratorio teatrale proprio sulla “Commedia eroica in cinque atti ” di Rostand, ne è passata di acqua sotto i ponti! Eppure col trascorrere del tempo il rapporto con te non si è risolto per il meglio, tutt’altro!
Non so se ad uno spadaccino-amatore come dicono tu sia stato, capiti mai di ritrovarsi in quello stato che bene non saprei dire se non che assomiglia a qualcosa di indefinito e che ti fa mancare la terra sotto i piedi; ma non come quando ti tuffi e ti appresti ad entrare nel mare - magari! - ma come quando, piuttosto, ti ritrovi senza i soliti (soliti!!) riferimenti che, per quanto collaudati negli anni, crollano come ultimi residuati di un mondo vecchio e polveroso in un Nuovo Mondo.
E d’improvviso, quando mi accorgo di non avere più via di scampo, mi sovvengono impavidi i quesiti.
Quanto questi vecchi riferimenti tengono in piedi un barcollante e acciaccato linguaggio che anche il confronto con te me lo fa avvertire tremendamente desueto?
Quanto con le tue rime affondi la spada tra le mie righe (anche tra quelle di queste pagine) a svelarne impietosamente la ‘miseria’?
Ah, Cyrano, se vorrei scrivere e parlare come te! O duellare con un arrogante improvvisando ballate “di tre strofe d’otto versi ciascuna”! Sì che lo voglio… sì che voglio attraversare quel ‘punto di non ritorno’ che è una dichiarazione scolpita con parole nate da un pensiero libero e da un corpo che suona…
Tra quei duelli combattuti a suon di rime e lettere in cui riversare i palpiti del tuo cuore per Rossana, continui a tessere la trama della tua vita: duellare, instancabile, contro i tuoi nemici che so essere anche i miei. La menzogna, la viltà, il compromesso, il pregiudizio, la stupidità. In fondo hai ragione tu: “Non si combatte solo per vincere. No, è assai più bello quando è inutile”. Sarà forse questo il punto di non ritorno?
Ora che la ‘miseria’ dilaga anche tra queste righe, mi chiedo quanto un pensiero libero sia in stretto rapporto con un linguaggio che abbia in sé la verità del corpo e non la violenza dell’ideologia. E a te, che non sai neppure immaginare cosa significhi rimanere senza parole, dico che adesso io mi ritrovo proprio così… privo di verbi, aggettivi o sostantivi - men che meno di rime - ma non per questo privato di quel desiderio di reimparare a parlare che potrà indurmi un domani… a poetare.
“Pavido allocco! Ecco, è finita la ballata, io tocco”.
L’INTERESSE PIU’ ALTO
Economia umana di Concetta Turchi
“Istituto che compie operazioni monetarie e creditizie la cui funzione principale, oltre alla custodia di valori e ai pagamenti, è quella di farsi intermediario nella circolazione della moneta, raccogliendo il risparmio e concedendolo in prestito”. La definizione di banca che troviamo sul vocabolario sembra non fare una piega. Se la leggesse qualcuno che vive su un altro pianeta, potrebbe pensare di venire sulla terra e trovare un posto sicuro per i propri risparmi o dove chiedere prestiti senza troppi problemi. Eppure da circa cinque anni sentiamo parlare della necessità di “salvare le banche” e della difficoltà di famiglie e imprese ad ottenere credito. Invece gli interessi alti sui prestiti o quelli calcolati sugli interessi stessi, oppure il dover pagare per prelevare il proprio (!) denaro sono cose ben note da più tempo; sono la costante in un mercato in cui i cittadini, che portano la ‘materia prima’, cioè i soldi, sono considerati sempre meno se chiedono prestiti ma molto se portano i loro risparmi. In tanti si lamentano di questo stato delle cose che però rimane inalterato. Ma come sono nate le banche e con quali finalità? Chi le ha inventate? Nel corso dei secoli come sono cambiate, se sono cambiate? E oggi vale la pena ‘salvarle’?
Fin dall’antica Grecia gli averi più preziosi venivano custoditi in luoghi come i templi, ritenuti sicuri anche in caso di pericolo o di guerra; e così, ancora prima, facevano i Sumeri e i Babilonesi. In età greco-romana la funzione principale dei banchieri era diventata quella di custodire monete e agevolare il cambio tra le diverse valute. Dal Medioevo all’Età moderna l’attività dei cambiatori di valuta era rimasta importante grazie allo sviluppo del commercio e delle grandi fiere che favorivano le operazioni di credito; sarà in questo periodo che nasce la moderna cambiale e la figura del mercante-banchiere: i Peruzzi o i Pazzi a Firenze, i Chigi a Siena, gli Spinola o i Doria a Genova, i Borromeo a Milano o i Soranzo di Venezia. Con l’affermazione degli Stati moderni dal XVII Secolo in poi, l’attività bancaria si separa dall’attività commerciale e mercantile in senso stretto. Nascono così la Banca di Amsterdam (1609) e quella d’Inghilterra (1694); quest’ultima è stata tra le prime ad utilizzare i debiti come moneta e ad utilizzarli come pagamento. Non è difficile immaginare la mole di credito che si rese necessaria nel XIX secolo in concomitanza del radicale cambiamento del sistema produttivo introdotto dalla Rivoluzione industriale che portò con sé ingenti investimenti, tutti ovviamente in cerca di finanziatore. Nel corso del XX secolo le banche presero una caratterizzazione diversa in base alle vicende politiche ed economiche dei singoli Paesi; gli Stati Uniti, per esempio, hanno fatto in modo di estendere la rete dei propri istituti di credito all’estero per favorire l’attività delle multinazionali a stelle e strisce.
Attualmente la funzione principale delle banche, così ci dicono, è quella di raccogliere e custodire il risparmio e di erogare credito. Quello che è certo è la scarsa trasparenza nell’uso del risparmio raccolto e su quali prodotti finanziari investano i nostri soldi. Ma, grazie anche alla crisi finanziaria iniziata nel 2008 negli Stati Uniti, si è reso sempre più manifesto il vero volto di un sistema finanziario nel quale la gran parte delle banche sono i primi attori di operazioni finanziarie spericolate. E in effetti per gli istituti commerciali che hanno come mission quella di massimizzare il profitto è più redditizio dedicarsi alla speculazione, cioè alla attività volta a conseguire un profitto dalla differenza dei prezzi delle merci, valute o titoli che vengono acquistati per poi venire venduti e venduti per essere poi nuovamente acquistati, che non dedicarsi al credito. Viene così messo su una sorta di Casinò nel quale è importante piazzare soldi, e sempre di più, per ‘guadagnare’ altri soldi. Era inevitabile che un sistema a dir poco folle come questo prima o poi esplodesse, o meglio, implodesse. E mentre gli Stati varano piani pubblici di salvataggio di dimensioni colossali per ripianare i debiti privati delle banche, gli stipendi degli amministratori croupier lievitano senza limiti; se poi il gioco va male ci sono sempre le casse pubbliche che immettono liquidità nel sistema… e nessuno è chiamato a rispondere di tutto questo. Come dire… il banco vince sempre! Per avere un parametro di paragone del fenomeno di cui parliamo, bastano due cifre: oggi il valore del PIL mondiale annuo è poco superiore a 60 mila miliardi di dollari e il valore dei titoli derivati controllati da quattro banche è pari a 200 mila miliardi di dollari.
In questo stato delle cose, accostare parole come ‘banca’ o ‘finanza’ alla parola ‘etica’ potrebbe sembrare un ossimoro o una provocazione. Questa forma di pensiero è il maggior successo di quanti tengono in piedi la cosiddetta ‘finanza Casinò’. In fondo basta raccogliere poche informazioni indipendenti, che oggi sono disponibili anche ai non addetti ai lavori, per comprendere quali siano le conseguenze sulla qualità della nostra vita dell’attuale sistema finanziario. E scoprire anche che ci sono alternative valide per investire i propri risparmi, in un modo cioè che tenga di conto l’essere umano e che sia attento alle “conseguenze non economiche delle azioni economiche”, come si legge nello Statuto di Banca Etica. La centralità della persona, la responsabilità, la trasparenza, la cooperazione, la partecipazione e la sobrietà sono i valori al centro della mission di istituti di credito etici. Questi fanno della trasparenza dell’uso dei soldi un punto irrinunciabile rendendo conto di tutti i finanziamenti che vengono erogati a settori come quello dell’efficienza energetica e delle energie rinnovabili, della produzione di prodotti biologici, del commercio equo e solidale e del microcredito imprenditoriale. Il volume di finanziamenti nel 2012 è aumentato quasi del 14 per cento, a fronte di una media delle banche classiche pari ad appena l’1 per cento e, in Italia, è stato registrato un vero e proprio boom di apertura di conti correnti. È stato presentato recentemente uno studio a cura della Global Alliance for Banking on Values, una rete internazionale di banche sostenibili alla quale aderisce Banca Etica, che ha messo a confronto i dati finanziari chiave delle più grandi banche del mondo e un gruppo di importanti ‘banche sostenibili’ che operano in diversi Paesi. I risultati mostrano che gli istituti eticamente orientati erogano quasi il doppio del credito in proporzione agli attivi di bilancio rispetto alle banche di sistema (75,9 per cento contro il 40,1 per cento) e che i bilanci delle prime si sostengono grazie alla raccolta di risparmio dalla clientela: il 73,1 per cento contro il 42,9 per cento. Sono banche solide e più sicure per i clienti, con sofferenze nette inferiori a quelle delle banche tradizionali e che non si avventurano su titoli derivati e simili.
Vale la pena salvare la ‘finanza Casinò’ dunque? Sicuramente vale la pena scegliere come investire le proprie risorse finanziarie, come la semplice apertura di un conto corrente, avendo chiara l’esistenza delle “conseguenze non economiche”. Solo così potremmo perseguire… l’interesse più alto.
Fin dall’antica Grecia gli averi più preziosi venivano custoditi in luoghi come i templi, ritenuti sicuri anche in caso di pericolo o di guerra; e così, ancora prima, facevano i Sumeri e i Babilonesi. In età greco-romana la funzione principale dei banchieri era diventata quella di custodire monete e agevolare il cambio tra le diverse valute. Dal Medioevo all’Età moderna l’attività dei cambiatori di valuta era rimasta importante grazie allo sviluppo del commercio e delle grandi fiere che favorivano le operazioni di credito; sarà in questo periodo che nasce la moderna cambiale e la figura del mercante-banchiere: i Peruzzi o i Pazzi a Firenze, i Chigi a Siena, gli Spinola o i Doria a Genova, i Borromeo a Milano o i Soranzo di Venezia. Con l’affermazione degli Stati moderni dal XVII Secolo in poi, l’attività bancaria si separa dall’attività commerciale e mercantile in senso stretto. Nascono così la Banca di Amsterdam (1609) e quella d’Inghilterra (1694); quest’ultima è stata tra le prime ad utilizzare i debiti come moneta e ad utilizzarli come pagamento. Non è difficile immaginare la mole di credito che si rese necessaria nel XIX secolo in concomitanza del radicale cambiamento del sistema produttivo introdotto dalla Rivoluzione industriale che portò con sé ingenti investimenti, tutti ovviamente in cerca di finanziatore. Nel corso del XX secolo le banche presero una caratterizzazione diversa in base alle vicende politiche ed economiche dei singoli Paesi; gli Stati Uniti, per esempio, hanno fatto in modo di estendere la rete dei propri istituti di credito all’estero per favorire l’attività delle multinazionali a stelle e strisce.
Attualmente la funzione principale delle banche, così ci dicono, è quella di raccogliere e custodire il risparmio e di erogare credito. Quello che è certo è la scarsa trasparenza nell’uso del risparmio raccolto e su quali prodotti finanziari investano i nostri soldi. Ma, grazie anche alla crisi finanziaria iniziata nel 2008 negli Stati Uniti, si è reso sempre più manifesto il vero volto di un sistema finanziario nel quale la gran parte delle banche sono i primi attori di operazioni finanziarie spericolate. E in effetti per gli istituti commerciali che hanno come mission quella di massimizzare il profitto è più redditizio dedicarsi alla speculazione, cioè alla attività volta a conseguire un profitto dalla differenza dei prezzi delle merci, valute o titoli che vengono acquistati per poi venire venduti e venduti per essere poi nuovamente acquistati, che non dedicarsi al credito. Viene così messo su una sorta di Casinò nel quale è importante piazzare soldi, e sempre di più, per ‘guadagnare’ altri soldi. Era inevitabile che un sistema a dir poco folle come questo prima o poi esplodesse, o meglio, implodesse. E mentre gli Stati varano piani pubblici di salvataggio di dimensioni colossali per ripianare i debiti privati delle banche, gli stipendi degli amministratori croupier lievitano senza limiti; se poi il gioco va male ci sono sempre le casse pubbliche che immettono liquidità nel sistema… e nessuno è chiamato a rispondere di tutto questo. Come dire… il banco vince sempre! Per avere un parametro di paragone del fenomeno di cui parliamo, bastano due cifre: oggi il valore del PIL mondiale annuo è poco superiore a 60 mila miliardi di dollari e il valore dei titoli derivati controllati da quattro banche è pari a 200 mila miliardi di dollari.
In questo stato delle cose, accostare parole come ‘banca’ o ‘finanza’ alla parola ‘etica’ potrebbe sembrare un ossimoro o una provocazione. Questa forma di pensiero è il maggior successo di quanti tengono in piedi la cosiddetta ‘finanza Casinò’. In fondo basta raccogliere poche informazioni indipendenti, che oggi sono disponibili anche ai non addetti ai lavori, per comprendere quali siano le conseguenze sulla qualità della nostra vita dell’attuale sistema finanziario. E scoprire anche che ci sono alternative valide per investire i propri risparmi, in un modo cioè che tenga di conto l’essere umano e che sia attento alle “conseguenze non economiche delle azioni economiche”, come si legge nello Statuto di Banca Etica. La centralità della persona, la responsabilità, la trasparenza, la cooperazione, la partecipazione e la sobrietà sono i valori al centro della mission di istituti di credito etici. Questi fanno della trasparenza dell’uso dei soldi un punto irrinunciabile rendendo conto di tutti i finanziamenti che vengono erogati a settori come quello dell’efficienza energetica e delle energie rinnovabili, della produzione di prodotti biologici, del commercio equo e solidale e del microcredito imprenditoriale. Il volume di finanziamenti nel 2012 è aumentato quasi del 14 per cento, a fronte di una media delle banche classiche pari ad appena l’1 per cento e, in Italia, è stato registrato un vero e proprio boom di apertura di conti correnti. È stato presentato recentemente uno studio a cura della Global Alliance for Banking on Values, una rete internazionale di banche sostenibili alla quale aderisce Banca Etica, che ha messo a confronto i dati finanziari chiave delle più grandi banche del mondo e un gruppo di importanti ‘banche sostenibili’ che operano in diversi Paesi. I risultati mostrano che gli istituti eticamente orientati erogano quasi il doppio del credito in proporzione agli attivi di bilancio rispetto alle banche di sistema (75,9 per cento contro il 40,1 per cento) e che i bilanci delle prime si sostengono grazie alla raccolta di risparmio dalla clientela: il 73,1 per cento contro il 42,9 per cento. Sono banche solide e più sicure per i clienti, con sofferenze nette inferiori a quelle delle banche tradizionali e che non si avventurano su titoli derivati e simili.
Vale la pena salvare la ‘finanza Casinò’ dunque? Sicuramente vale la pena scegliere come investire le proprie risorse finanziarie, come la semplice apertura di un conto corrente, avendo chiara l’esistenza delle “conseguenze non economiche”. Solo così potremmo perseguire… l’interesse più alto.
IL DIRITTO ALLA SPERANZA
“Rivendico il diritto di lottare per la vita di mio figlio. Non c’è dottore, non c’è ricercatore, non c’è fondazione che mi possano impedire di farmi domande che possono aiutarmi a salvare mio figlio”. In queste poche parole c’è tutto Augusto Odone, ci sono tutta la sua forza e il suo coraggio che non lo hanno fatto arrendere davanti alla grave malattia genetica del figlio Lorenzo; una malattia che, secondo i medici, non avrebbe lasciato scampo. Una vita, quella di Augusto, trascorsa a lottare per avere risposte alle domande che si poneva, con la moglie Michaela, in merito alla possibilità di un trattamento. Fino al momento in cui, dopo anni di studi, hanno trovato una combinazione di semplici oli da cucina in grado di dare grande sollievo a loro figlio.
Augusto è morto a 82 anni a Gamalero, vicino ad Alessandria, il paese di suo padre dove aveva vissuto gli anni dell’infanzia; era la terra in cui affondavano le sue radici. Lì ha scritto L’olio di Lorenzo. Una storia d’amore, libro in cui racconta l’avventura fatta di amore e speranza che ha vissuto con Michaela e lo stesso Lorenzo. È tornato nella terra delle sue origini nel 2008 dopo la morte di Lorenzo, e lì ha concluso i suoi giorni dopo aver lottato una vita perché “non si può togliere a due genitori la speranza. È un vuoto che annienta”, come disse ad una giornalista del Corriere della sera.
Lorenzo Michael Murphy Odone nasce il 29 maggio 1978. Un mese prima di compiere sei anni gli viene diagnosticata la adrenoleucodistrofia (ALD), una rarissima malattia del metabolismo che consiste in un difetto nel processo di ossidazione degli acidi grassi a lunga catena provocando il loro accumulo nel sangue e nei tessuti; ne fa le spese la mielina, vale a dire il rivestimento del sistema nervoso che a sua volta, rimasto ‘scoperto’, viene interessato da una progressiva distruzione. Per i medici, Lorenzo avrebbe avuto due anni di vita. Invece è morto il giorno dopo aver compiuto 30 anni e per motivi estranei alla ALD.
Augusto e Michaela, una glottologa nata a New York da una famiglia di origine irlandese, non accettano la ‘sentenza’ e non si danno per vinti: non sanno cosa cercare ma non gli basta la spiegazione datagli dal medico che aveva diagnosticato la malattia di Lorenzo. Le notti trascorrono così sui libri presi in biblioteca e le pareti di casa si riempiono ben presto di appunti e schemi su cui fissare idee, intuizioni, ipotesi. “Non è giusto che soffra per la nostra ignoranza. Abbiamo la nostra responsabilità. Studiamo, leggiamo”, dice alla moglie. E sì, perché l’ignoranza uccide.
Ben presto si scontrano non solo con gran parte dei medici che non li sostengono come sarebbe stato necessario, ma anche con altri genitori di bambini affetti da ALD che rassegnati aspettavano che il ‘fato malvagio’ facesse il suo corso; si erano perfino raggruppati in una fondazione che aveva solo lo scopo di salvare i loro matrimoni e minimizzare il dolore. Gli Odone si rifiutano di accettare passivamente le informazioni date dai medici sulle (pseudo) ricerche scientifiche; loro si chiedono in modo critico se i rimedi proposti funzionino o meno. Mentre gli viene ricordato che gli unici risultati possono essere raggiunti esclusivamente tramite rigidi protocolli e che loro non sono scienziati, Michaela e Augusto ribadiscono che non è loro figlio ad essere a servizio della medicina, ma viceversa. “Ci separava proprio una differenza di atteggiamento. Il loro era quello di chi si preparava ad affrontare una sconfitta nel modo migliore, mentre il nostro ci spingeva a mettere in campo tutte le strategie per combattere una battaglia difficile con la convinzione di poterla vincere”.
Organizzano, autofinanziandosi, un simposio di medici di tutto il mondo che studiano la ALD ma che non si erano mai incontrati prima per confrontarsi e scambiarsi informazioni. Ai dottori viene offerta una occasione di cooperazione, quando invece è più frequente che si facciano concorrenza. E proprio durante il simposio, gli Odone vengono a conoscenza di studi sull’uso di olio oleico sotto forma di trigliceride che unito al comune olio d’oliva aveva dato buoni risultati sugli animali. Questa scoperta non aveva trovato seguito poiché non era commercialmente conveniente; in altre parole, nessuno ci poteva fare profitti dati i costi di produzione elevati. Ebbene, dopo molte giornate trascorse a telefono, Michaela riesce a trovare a Londra un laboratorio presso cui è possibile estrarre l’olio oleico sotto forma di trigliceride. Già nelle prime settimane di somministrazione i livelli di acidi grassi nel sangue di Lorenzo tornano a livelli del tutto normali come quelli delle persone sane. Era la prima volta al mondo che accadeva una cosa simile in un bambino affetto da ALD.
Augusto e sua moglie sapevano bene che la loro era una lotta che combattevano non solo per il ‘loro’ Lorenzo ma per tanti altri bambini e vanno oltre la battaglia personale: nel 1989 fondano il Progetto Mielina che a tutt’oggi raccoglie fondi per studi indipendenti su questa malattia.
Con il passare degli anni la loro determinazione non scemava, neanche quando iniziarono a rendersi conto che la loro lotta sarebbe stata per il bambino di qualcun altro. Riallacciarono i rapporti con Oumouri, l’amico del cuore di Lorenzo nei tre anni in cui avevano vissuto alle isole Comore e lo invitarono a Washington, dove vivevano. Tornare in contatto con la propria infanzia, con quei primi anni di vita così importanti per ognuno, ha un preciso valore terapeutico.
Ma chi è un genitore? Cosa fa un buon genitore per ‘suo’ figlio? Basta aver generato, nel senso di aver trasmesso la vita biologicamente, ed allevato un bambino per essere genitore? Ma non è forse vero che “i figli sono di chi li ama” e di chi, ancora prima, li desidera? Tutta la storia di Michaela, Augusto e Lorenzo trasuda di domande come queste.
I cosiddetti scienziati spesso antepongo la loro reputazione e la stima dei colleghi a tutto il resto e non rischiano raccomandando una terapia che non abbia i bolli dell’ufficialità. E anche quando la sperimentazione fatta su Lorenzo iniziò a dare buoni risultati, i medici e gli altri genitori non vollero che si diffondesse la notizia fin quando non ci fosse la certezza dell’efficacia; questo non vuol dire che si debba dar credito al primo esaltato o alimentare false speranze; ma neanche rifiutare a priori una metodica fin a quel momento mai sperimentata. È tanto il timore che quanto ritenuto essere conosciuto fin a quel momento crolli come un castello di carte che si preferisce ritenerlo l’unica possibilità, dando la preferenza all’ignoranza piuttosto che alla conoscenza. Certo, sul fatto che la cura con oli da cucina non sia stata presa sul serio forse ha influito anche il fatto che a proporla fossero una glottologa e un economista della Banca mondiale, due persone che di medicina fino a quel momento non ne sapevano niente. Ma gli Odone erano convinti che i pazienti non dovessero accontentarsi e che dovessero andare alla ricerca di altri punti di vista fino a quando non avessero trovato una risposta adeguata. Michaela e Augusto erano una sfida vivente per i medici con il loro continuo porre domande e cercare un dialogo. A quei genitori che contestavano ad Augusto il fatto che mettesse in discussione quanto dicevano i medici, egli rispondeva: “Sono così potenti da togliervi la parola, da favi tacere? Non sono dio, questa acquiescenza è disgustosa! ”.
“Lui non si arrendeva mai ” dice oggi Cristina, una dei due figli avuti da un precedente matrimonio. Adesso dopo la lunga lotta, come si narra nella mitologia greca e in quella romana, come un eroe amato dagli dei, riposi finalmente nei Campi Elisi. Dopo tanti anni passati a fianco di medici e scienziati, un giornalista una volta gli chiese se non si considerasse anche lui uno scienziato. “No”, rispose “io sono un papà”.
Augusto è morto a 82 anni a Gamalero, vicino ad Alessandria, il paese di suo padre dove aveva vissuto gli anni dell’infanzia; era la terra in cui affondavano le sue radici. Lì ha scritto L’olio di Lorenzo. Una storia d’amore, libro in cui racconta l’avventura fatta di amore e speranza che ha vissuto con Michaela e lo stesso Lorenzo. È tornato nella terra delle sue origini nel 2008 dopo la morte di Lorenzo, e lì ha concluso i suoi giorni dopo aver lottato una vita perché “non si può togliere a due genitori la speranza. È un vuoto che annienta”, come disse ad una giornalista del Corriere della sera.
Lorenzo Michael Murphy Odone nasce il 29 maggio 1978. Un mese prima di compiere sei anni gli viene diagnosticata la adrenoleucodistrofia (ALD), una rarissima malattia del metabolismo che consiste in un difetto nel processo di ossidazione degli acidi grassi a lunga catena provocando il loro accumulo nel sangue e nei tessuti; ne fa le spese la mielina, vale a dire il rivestimento del sistema nervoso che a sua volta, rimasto ‘scoperto’, viene interessato da una progressiva distruzione. Per i medici, Lorenzo avrebbe avuto due anni di vita. Invece è morto il giorno dopo aver compiuto 30 anni e per motivi estranei alla ALD.
Augusto e Michaela, una glottologa nata a New York da una famiglia di origine irlandese, non accettano la ‘sentenza’ e non si danno per vinti: non sanno cosa cercare ma non gli basta la spiegazione datagli dal medico che aveva diagnosticato la malattia di Lorenzo. Le notti trascorrono così sui libri presi in biblioteca e le pareti di casa si riempiono ben presto di appunti e schemi su cui fissare idee, intuizioni, ipotesi. “Non è giusto che soffra per la nostra ignoranza. Abbiamo la nostra responsabilità. Studiamo, leggiamo”, dice alla moglie. E sì, perché l’ignoranza uccide.
Ben presto si scontrano non solo con gran parte dei medici che non li sostengono come sarebbe stato necessario, ma anche con altri genitori di bambini affetti da ALD che rassegnati aspettavano che il ‘fato malvagio’ facesse il suo corso; si erano perfino raggruppati in una fondazione che aveva solo lo scopo di salvare i loro matrimoni e minimizzare il dolore. Gli Odone si rifiutano di accettare passivamente le informazioni date dai medici sulle (pseudo) ricerche scientifiche; loro si chiedono in modo critico se i rimedi proposti funzionino o meno. Mentre gli viene ricordato che gli unici risultati possono essere raggiunti esclusivamente tramite rigidi protocolli e che loro non sono scienziati, Michaela e Augusto ribadiscono che non è loro figlio ad essere a servizio della medicina, ma viceversa. “Ci separava proprio una differenza di atteggiamento. Il loro era quello di chi si preparava ad affrontare una sconfitta nel modo migliore, mentre il nostro ci spingeva a mettere in campo tutte le strategie per combattere una battaglia difficile con la convinzione di poterla vincere”.
Organizzano, autofinanziandosi, un simposio di medici di tutto il mondo che studiano la ALD ma che non si erano mai incontrati prima per confrontarsi e scambiarsi informazioni. Ai dottori viene offerta una occasione di cooperazione, quando invece è più frequente che si facciano concorrenza. E proprio durante il simposio, gli Odone vengono a conoscenza di studi sull’uso di olio oleico sotto forma di trigliceride che unito al comune olio d’oliva aveva dato buoni risultati sugli animali. Questa scoperta non aveva trovato seguito poiché non era commercialmente conveniente; in altre parole, nessuno ci poteva fare profitti dati i costi di produzione elevati. Ebbene, dopo molte giornate trascorse a telefono, Michaela riesce a trovare a Londra un laboratorio presso cui è possibile estrarre l’olio oleico sotto forma di trigliceride. Già nelle prime settimane di somministrazione i livelli di acidi grassi nel sangue di Lorenzo tornano a livelli del tutto normali come quelli delle persone sane. Era la prima volta al mondo che accadeva una cosa simile in un bambino affetto da ALD.
Augusto e sua moglie sapevano bene che la loro era una lotta che combattevano non solo per il ‘loro’ Lorenzo ma per tanti altri bambini e vanno oltre la battaglia personale: nel 1989 fondano il Progetto Mielina che a tutt’oggi raccoglie fondi per studi indipendenti su questa malattia.
Con il passare degli anni la loro determinazione non scemava, neanche quando iniziarono a rendersi conto che la loro lotta sarebbe stata per il bambino di qualcun altro. Riallacciarono i rapporti con Oumouri, l’amico del cuore di Lorenzo nei tre anni in cui avevano vissuto alle isole Comore e lo invitarono a Washington, dove vivevano. Tornare in contatto con la propria infanzia, con quei primi anni di vita così importanti per ognuno, ha un preciso valore terapeutico.
Ma chi è un genitore? Cosa fa un buon genitore per ‘suo’ figlio? Basta aver generato, nel senso di aver trasmesso la vita biologicamente, ed allevato un bambino per essere genitore? Ma non è forse vero che “i figli sono di chi li ama” e di chi, ancora prima, li desidera? Tutta la storia di Michaela, Augusto e Lorenzo trasuda di domande come queste.
I cosiddetti scienziati spesso antepongo la loro reputazione e la stima dei colleghi a tutto il resto e non rischiano raccomandando una terapia che non abbia i bolli dell’ufficialità. E anche quando la sperimentazione fatta su Lorenzo iniziò a dare buoni risultati, i medici e gli altri genitori non vollero che si diffondesse la notizia fin quando non ci fosse la certezza dell’efficacia; questo non vuol dire che si debba dar credito al primo esaltato o alimentare false speranze; ma neanche rifiutare a priori una metodica fin a quel momento mai sperimentata. È tanto il timore che quanto ritenuto essere conosciuto fin a quel momento crolli come un castello di carte che si preferisce ritenerlo l’unica possibilità, dando la preferenza all’ignoranza piuttosto che alla conoscenza. Certo, sul fatto che la cura con oli da cucina non sia stata presa sul serio forse ha influito anche il fatto che a proporla fossero una glottologa e un economista della Banca mondiale, due persone che di medicina fino a quel momento non ne sapevano niente. Ma gli Odone erano convinti che i pazienti non dovessero accontentarsi e che dovessero andare alla ricerca di altri punti di vista fino a quando non avessero trovato una risposta adeguata. Michaela e Augusto erano una sfida vivente per i medici con il loro continuo porre domande e cercare un dialogo. A quei genitori che contestavano ad Augusto il fatto che mettesse in discussione quanto dicevano i medici, egli rispondeva: “Sono così potenti da togliervi la parola, da favi tacere? Non sono dio, questa acquiescenza è disgustosa! ”.
“Lui non si arrendeva mai ” dice oggi Cristina, una dei due figli avuti da un precedente matrimonio. Adesso dopo la lunga lotta, come si narra nella mitologia greca e in quella romana, come un eroe amato dagli dei, riposi finalmente nei Campi Elisi. Dopo tanti anni passati a fianco di medici e scienziati, un giornalista una volta gli chiese se non si considerasse anche lui uno scienziato. “No”, rispose “io sono un papà”.
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Vaclav Havel. IL RESPIRO LIEVE DELLA PRIMAVERA di Filippo Paoli. Anno 2012
IL RESPIRO LIEVE DELLA PRIMAVERA
Filippo Paoli
La vita di Vaclav Havel si è intrecciata con le vicende del suo Paese e, come pochi altri, ha raccolto su di sé il fermento di libertà dei cecoslovacchi e non solo. Alla notizia della sua morte lo scorso 18 dicembre, in molti, soprattutto giovani, si sono dati appuntamento spontaneamente in piazza Vanceslao a Praga, per poi attraversare la Moldava silenziosamente e raggiungere l’isola di Kampa; lì hanno fatto un falò in memoria del settantacinquenne drammaturgo, scrittore, dissidente politico ed ex presidente della Repubblica deceduto nella sua casa di campagna a Hradecek. Conoscere la vita di Havel significa conoscere la storia dei moti per la libertà nell’Europa dell’Est della seconda metà del ‘900.
In quanto figlio di una famiglia borghese era visto di mal occhio dal regime comunista e per questo al giovane Vaclav viene impedito di frequentare l’università di Lettere. E già questo ci dice tanto della personalità di Havel: in tutta la sua vita darà grande importanza alle parole e al linguaggio. Così impara presto a non perdersi d’animo e ad opporsi attivamente al vuoto culturale che gli veniva imposto: dopo il servizio militare inizia a lavorare in teatro come macchinista e studia drammaturgia per corrispondenza. La Cecoslovacchia è sotto l’influenza di Mosca che censura le opere non gradite; ma il giovane Havel incontra nei caffè e nelle birrerie i suoi amici. E’ nelle conversazioni con gli scrittori Bohumil Hrabal e Milan Kundera e con il regista Milos Forman che, fra una birra e l’altra, sazia curiosità e desiderio di conoscenza. Scopre la poesia e conosce il poeta Jaroslav Seifert. È in questi anni che inizia a prendere posizione e difende pubblicamente scrittori censurati entrando così sotto il controllo del regime.
Nel 1960, a soli 24 anni, il teatro Na zabradli (Sulla balaustra) lo contatta come macchinista e presto diventerà direttore di scena e drammaturgo. In questi anni inizia a scrivere e si mette in luce come uno dei protagonisti del teatro ceco dell’assurdo. E nelle commedie in stile Ionesco si prende subito gioco del regime. Ridicolizza il comunismo chiamandolo ‘Absurdistan’; nella sua prima opera del 1963 ‘Festa in giardino’ mette in scena una farsa sulla burocrazia comunista che inizialmente neppure la censura capì di cosa si trattasse. Nell’opera successiva, ‘Il memorandum’ del 1965, inventa una nuova lingua per sbeffeggiare il politichese comunista e denunciare come la burocrazia avesse tolto ogni significato alle parole negando ogni forma di identità individuale.
Arriva il 5 gennaio 1968, giorno in cui Alexander Dubcek viene eletto segretario generale del Partito Comunista cecoslovacco. Da subito il neosegretario parla della necessità di un ‘nuovo corso’ e intorno a lui si avvicinano gli intellettuali riformisti decisi ad allontanarsi dal totalitarismo sovietico. Havel era lì, schierato dalla parte del ‘socialismo dal volto umano’ e i suoi scritti passavano di mano in mano tra i manifestanti della Primavera di Praga. Dopo che i carri armati russi coprono col ghiaccio i germogli di quella Primavera, gli scritti di Havel vengono vietati, così come le opere di Kundera, e a lui viene bandito il teatro. Ma se Dubcek rimane ai lavori forzati per circa 20 anni, Havel non accetta di scomparire e mantiene la sua presenza in quello snodo importante della Storia dando vita a un movimento teatrale underground. Nonostante i tentativi della nomenclatura di soffocare il vagito della Primavera e la violenta azione di ‘normalizzazione’ del regime di Gustav Husak per ripristinare lo ‘status quo’, nella città di Praga continuano le manifestazioni degli operai e degli studenti. In questi anni, tra il ’68 e l’89, la storia di Havel è la storia di Praga e della Cecoslovacchia. Nei teatri e negli appartamenti dei dissidenti prende corpo una potente resistenza che ha in Havel stesso il punto di riferimento. E così, nei vicoli della città vecchia o nelle salite di Mala Strana il silenzioso lavorio della resistenza prosegue. Così come nelle birrerie piene di fumo o nelle sale da concerto poeti, filosofi e rockettari si incontravano; e pazienza se si intrufolava qualche spia del regime.
Nel ’77 partecipa alle manifestazioni contro il processo farsa al gruppo Rock underground dei Plastic people e fonda l’associazione Charta ’77 di cui scrive il manifesto e ne diventa il portavoce. Da allora entra ed esce dal carcere continuamente. È in questo periodo che contrae più volte la bronchite che, a causa delle cure insufficienti, mina irreversibilmente la sua salute. Nei periodi in cui è a casa continua indomito a rilasciare interviste a giornalisti stranieri non curandosi della minacciosa presenza della polizia davanti casa. Continua a lottare con le parole e con la penna.
E arriva il 1989, anno di svolta per l’Europa. Il muro di Berlino è caduto da pochi giorni quando, il 17 novembre, gli studenti universitari invadono piazza Venceslao al grido ‘Havel al Castello’, sede della presidenza della Repubblica.
Il 29 dicembre Havel sarà eletto presidente; rimarrà in carica fino al 2003. Da amante del Rock riceve al Castello - all’interno del quale si muoveva con un monopattino per smitizzare la solennità dei saloni - i Rolling Stones e Frank Zappa.
“Quello che conta è trasformare le esperienze in cultura” amava dire. Voleva essere ricordato come “un drammaturgo che ha agito da cittadino e che ha così trascorso parte della vita in una posizione politica”. Lo ha fatto alimentando la brezza della Primavera, la sua personale Primavera e quella che ha vissuto insieme a quanti hanno resistito con lui.
Nel 2007, dopo 20 anni è tornato a teatro con l’opera Partire. La battuta finale è affidata a una voce fuori campo, la sua: “Gli spettatori possono riaccendere il telefonino. Grazie d’averlo spento. Buona notte. E fate dei bei sogni”.
In quanto figlio di una famiglia borghese era visto di mal occhio dal regime comunista e per questo al giovane Vaclav viene impedito di frequentare l’università di Lettere. E già questo ci dice tanto della personalità di Havel: in tutta la sua vita darà grande importanza alle parole e al linguaggio. Così impara presto a non perdersi d’animo e ad opporsi attivamente al vuoto culturale che gli veniva imposto: dopo il servizio militare inizia a lavorare in teatro come macchinista e studia drammaturgia per corrispondenza. La Cecoslovacchia è sotto l’influenza di Mosca che censura le opere non gradite; ma il giovane Havel incontra nei caffè e nelle birrerie i suoi amici. E’ nelle conversazioni con gli scrittori Bohumil Hrabal e Milan Kundera e con il regista Milos Forman che, fra una birra e l’altra, sazia curiosità e desiderio di conoscenza. Scopre la poesia e conosce il poeta Jaroslav Seifert. È in questi anni che inizia a prendere posizione e difende pubblicamente scrittori censurati entrando così sotto il controllo del regime.
Nel 1960, a soli 24 anni, il teatro Na zabradli (Sulla balaustra) lo contatta come macchinista e presto diventerà direttore di scena e drammaturgo. In questi anni inizia a scrivere e si mette in luce come uno dei protagonisti del teatro ceco dell’assurdo. E nelle commedie in stile Ionesco si prende subito gioco del regime. Ridicolizza il comunismo chiamandolo ‘Absurdistan’; nella sua prima opera del 1963 ‘Festa in giardino’ mette in scena una farsa sulla burocrazia comunista che inizialmente neppure la censura capì di cosa si trattasse. Nell’opera successiva, ‘Il memorandum’ del 1965, inventa una nuova lingua per sbeffeggiare il politichese comunista e denunciare come la burocrazia avesse tolto ogni significato alle parole negando ogni forma di identità individuale.
Arriva il 5 gennaio 1968, giorno in cui Alexander Dubcek viene eletto segretario generale del Partito Comunista cecoslovacco. Da subito il neosegretario parla della necessità di un ‘nuovo corso’ e intorno a lui si avvicinano gli intellettuali riformisti decisi ad allontanarsi dal totalitarismo sovietico. Havel era lì, schierato dalla parte del ‘socialismo dal volto umano’ e i suoi scritti passavano di mano in mano tra i manifestanti della Primavera di Praga. Dopo che i carri armati russi coprono col ghiaccio i germogli di quella Primavera, gli scritti di Havel vengono vietati, così come le opere di Kundera, e a lui viene bandito il teatro. Ma se Dubcek rimane ai lavori forzati per circa 20 anni, Havel non accetta di scomparire e mantiene la sua presenza in quello snodo importante della Storia dando vita a un movimento teatrale underground. Nonostante i tentativi della nomenclatura di soffocare il vagito della Primavera e la violenta azione di ‘normalizzazione’ del regime di Gustav Husak per ripristinare lo ‘status quo’, nella città di Praga continuano le manifestazioni degli operai e degli studenti. In questi anni, tra il ’68 e l’89, la storia di Havel è la storia di Praga e della Cecoslovacchia. Nei teatri e negli appartamenti dei dissidenti prende corpo una potente resistenza che ha in Havel stesso il punto di riferimento. E così, nei vicoli della città vecchia o nelle salite di Mala Strana il silenzioso lavorio della resistenza prosegue. Così come nelle birrerie piene di fumo o nelle sale da concerto poeti, filosofi e rockettari si incontravano; e pazienza se si intrufolava qualche spia del regime.
Nel ’77 partecipa alle manifestazioni contro il processo farsa al gruppo Rock underground dei Plastic people e fonda l’associazione Charta ’77 di cui scrive il manifesto e ne diventa il portavoce. Da allora entra ed esce dal carcere continuamente. È in questo periodo che contrae più volte la bronchite che, a causa delle cure insufficienti, mina irreversibilmente la sua salute. Nei periodi in cui è a casa continua indomito a rilasciare interviste a giornalisti stranieri non curandosi della minacciosa presenza della polizia davanti casa. Continua a lottare con le parole e con la penna.
E arriva il 1989, anno di svolta per l’Europa. Il muro di Berlino è caduto da pochi giorni quando, il 17 novembre, gli studenti universitari invadono piazza Venceslao al grido ‘Havel al Castello’, sede della presidenza della Repubblica.
“Mi sono sentito come a teatro quando sei l’attor giovane e il protagonista è improvvisamente scomparso. Che dovevo fare? Io non ho mai aspirato a cariche politiche,
né ho mai fondato nessuna ideologia. Sulla scena serviva un leader democratico.
E dove lo trovavi nella Cecoslovacchia del 1989?
Allora l’attor giovane ha fatto il suo dovere:
è salito sul palcoscenico e ha dato il meglio di sé”.
né ho mai fondato nessuna ideologia. Sulla scena serviva un leader democratico.
E dove lo trovavi nella Cecoslovacchia del 1989?
Allora l’attor giovane ha fatto il suo dovere:
è salito sul palcoscenico e ha dato il meglio di sé”.
Il 29 dicembre Havel sarà eletto presidente; rimarrà in carica fino al 2003. Da amante del Rock riceve al Castello - all’interno del quale si muoveva con un monopattino per smitizzare la solennità dei saloni - i Rolling Stones e Frank Zappa.
“Quello che conta è trasformare le esperienze in cultura” amava dire. Voleva essere ricordato come “un drammaturgo che ha agito da cittadino e che ha così trascorso parte della vita in una posizione politica”. Lo ha fatto alimentando la brezza della Primavera, la sua personale Primavera e quella che ha vissuto insieme a quanti hanno resistito con lui.
Nel 2007, dopo 20 anni è tornato a teatro con l’opera Partire. La battuta finale è affidata a una voce fuori campo, la sua: “Gli spettatori possono riaccendere il telefonino. Grazie d’averlo spento. Buona notte. E fate dei bei sogni”.
La Moldava, Mala Strana e il Castello di Praga di Filippo Paoli
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